La città e le stelle Arthur C. Clarke Diaspar, un’immensa metropoli del futuro. Una superciviltà arrivata all’ultimo stadio dello sviluppo. Un pianeta deserto, ostile, «proibito»: è in questo scenario che si muove Alvin, il giovane eroe di questo romanzo che resta fra i più celebri di Clarke. La domanda che lo ossessiona é: come riscoprire l’antico segreto della razza umana? Come uscire dal labirinto sotto vetro e tornare al volo spaziale? Arthur C. Clarke La città e le stelle Originale: The City And The Stars, 1956 Traduzione: Hilja Brinis Come un gioiello scintillante, la città giaceva nel cuore del deserto. Una volta aveva conosciuto sviluppi e trasformazioni, ma ora il Tempo scorreva senza alterarla. Il giorno e la notte si avvicendavano sul deserto; nelle strade di Diaspar l’oscurità non scendeva mai. Le lunghe notti d’inverno potevano ben gelare il deserto ricoprendolo di brina, ma la città non conosceva né il freddo né il caldo. Diaspar non aveva contatti col mondo esterno; era un universo a sé. In passato gli uomini avevano costruito città, e alcune erano durate secoli, altre millenni, finché il Tempo non ne aveva cancellato perfino i nomi. Solo Diaspar aveva sfidato l’Eternità e si era difesa contro il logorio delle epoche e la decadenza. Gli oceani si erano asciugati e il deserto si era impadronito di tutto il globo. Il vento e la pioggia avevano spianato le ultime montagne, e la Terra era troppo stanca per crearne di nuove. La città restava indifferente; se anche la Terra fosse andata in briciole, Diaspar avrebbe continuato a proteggere i figli dei suoi creatori, portandoli in salvo con i loro tesori lungo la corrente del Tempo. Essi avevano dimenticato molte cose, ma non lo sapevano. Erano stati adattati perfettamente all’ambiente, e questo a loro. Ciò che esisteva oltre i confini della città non li riguardava, poiché tutto ciò che non era Diaspar era stato annullato nelle loro menti. Diaspar era la sola cosa esistente, la sola di cui avevano bisogno, la sola che potevano immaginare. Non aveva nessuna importanza che un tempo l’Uomo avesse conquistato le stelle. A volte, tuttavia, gli antichi miti risorgevano a turbarli ed essi provavano un certo disagio ricordando i fasti dell’Impero, di quando Diaspar era nuova e traeva la sua linfa vitale dal commercio con altri soli. Ma non desideravano ritornare ai tempi passati perché erano soddisfatti del loro eterno autunno. Le glorie dell’Impero appartenevano ai passato, e là dovevano restare. Essi ricordavano come l’Impero avesse incontrato la sua fine, e al solo ricordo degli Invasori il terrore dello spazio serpeggiava nelle loro ossa. E subito, tornavano col pensiero alla vita e al calore della città, alla lunga età dorata il cui inizio si perdeva nel tempo e la cui fine era anche più distante. Altri uomini avevano sognato un’età come quella, loro l’avevano conquistata. Avevano abitato sempre la stessa città, ne avevano percorso le strade, miracolosamente immutate, e tutto questo durava da oltre un miliardo di anni. 1 C’erano volute parecchie ore per uscire dalla Cava dei Vermi Bianchi. Anche ora, non erano ben certi che qualche pallido mostro non li stesse inseguendo. Avevano le armi quasi scariche, ma dovevano ugualmente seguire la freccia di luce che li aveva guidati misteriosamente nelle viscere della Montagna di Cristallo, anche se, come già era accaduto, rischiavano di trovarsi in mezzo ai più tremendi pericoli. Alvin si voltò per vedere se i suoi compagni erano ancora con lui. Alystra lo seguiva da presso, portando la sfera di luce fredda ma perenne che aveva rivelato orrori e bellezze fin dal primo momento in cui la loro avventura era cominciata. Il pallido raggio bianco illuminava lo stretto cunicolo e si spandeva sulle pareti fosforescenti. Finché fosse durata l’energia, avrebbero visto dove stavano andando, e scorto la presenza di un qualsiasi pericolo visibile. Ma i più gravi pericoli di quelle caverne, Alvin lo sapeva perfettamente, non erano visibili. Dietro Alystra, curvi sotto il peso dei proiettori, venivano Narillian e Floranus. Alvin si chiese perché mai quei proiettori fossero così pesanti, visto che sarebbe stato tanto semplice provvederli di un neutralizzatore di gravità. Pensava sempre a cose del genere, anche nel bel mezzo della più pericolosa avventura. E quando un pensiero simile gli attraversava la mente, era come se la struttura della realtà vacillasse per un attimo; allora, oltre il mondo dei sensi, gli pareva di cogliere la visione di un universo del tutto differente… Il corridoio terminava in un muro spoglio. Forse la freccia li aveva ingannati di nuovo? No. A mano a mano che si avvicinavano, la roccia cominciò a sgretolarsi. Nel mezzo della parete fece capolino una sottile punta di metallo che ben presto si allargò divenendo una vite gigante. Alvin e i suoi amici indietreggiarono in attesa che la macchina si aprisse una via nella cava. Con uno stridio assordante provocato dal metallo contro la roccia — che certo doveva ripercuotersi in tutta la montagna, destando gli orribili mostri! — la sotterranea penetrò attraverso la parete e venne ad arrestarsi accanto a loro. La porta massiccia si aprì e Callistron apparve, urlando loro di fare presto. («Perché Callistron?» si domandò Alvin. «Cosa sta facendo in queste caverne?») Un attimo dopo erano in salvo e la macchina balzava in avanti per iniziare il suo viaggio attraverso le profondità della terra. L’avventura era finita. Tra poco si sarebbero ritrovati a casa; si sarebbero lasciati alle spalle la meraviglia, il terrore, l’eccitazione di quelle ore. Erano stanchi e soddisfatti. Dall’inclinazione del pavimento, Alvin era certo che la sotterranea stesse penetrando sempre più verso il basso. Callistron sapeva il fatto suo, e quella era senz’altro la via che doveva condurli a casa. Tuttavia era un peccato che… «Callistron» disse a un tratto «perché non puntiamo verso l’alto? Nessuno sa com’è dall’esterno la montagna di Cristallo. Sarebbe magnifico uscire all’aperto su qualche pendio del monte e vedere il cielo e la terra tutt’attorno. Siamo stati sottoterra anche troppo.» Com’ebbe pronunciato quelle parole, capì che erano sbagliate. Alystra diede un grido strozzato, l’interno della sotterranea ondeggiò come un’immagine vista attraverso l’acqua, e ancora una volta, al di là delle pareti di metallo che lo circondavano, Alvin colse uno sprazzo di quell’altro universo. I due mondi sembravano in conflitto, e con alterne vicende. Poi, all’improvviso, tutto scomparve. Ci fu un colpo secco, come se qualcosa si fosse lacerato, e il sogno finì. Alvin si ritrovò a Diaspar, nella sua camera, fluttuando di qualche centimetro al di sopra del pavimento poiché il campo gravitazionale lo proteggeva dal contatto opprimente con la materia bruta. Era di nuovo se stesso. Questa era realtà, e Alvin poteva prevedere esattamente cosa sarebbe accaduto in seguito. Alystra fu la prima ad apparire. Era più sconvolta che seccata, poiché era innamoratissima di Alvin. «Oh, Alvin» protestò, fissandolo dalla parete su cui si era apparentemente materializzata. «Era un’avventura così emozionante! Perché l’hai sciupata?» «Mi spiace, non era mia intenzione. Pensavo solo che sarebbe stata una buona idea…» Fu interrotto dall’arrivo simultaneo di Callistron e di Floranus. «Ascolta bene, Alvin» sbottò Callistron. «È già laterzavolta che interrompi una saga. Ieri hai interrotto la sequenza perché volevi uscire dalla Valle dell’Arcobaleno. L’altro ieri, mentre facevamo quel viaggio a ritroso nel tempo, hai sciupato tutto pretendendo di ritornare alle Origini. Se non vuoi attenerti alle regole, d’ora in poi stattene per conto tuo.» Si dileguò irritatissimo, trascinando Floranus con sé. Narillian non apparve. Probabilmente ne aveva fin sopra i capelli di quelle interruzioni. L’immagine di Alystra rimase tristemente a fissare Alvin. Alvin spostò il campo gravitazionale in modo da alzarsi in piedi e si avvicinò al tavolo che aveva materializzato. Un vassoio di frutta esotica apparve sul tavolo. Non era il cibo che desiderava, ma nella confusione del momento la sua mente si era sviata. Non volendo rivelare il suo errore prese uno dei frutti dall’aspetto più rassicurante e cominciò a succhiarlo con cautela. «Bene» disse infine Alystra. «Che intenzioni hai?» «Non so cosa farci» rispose lui, scontroso. «Il regolamento è stupido, ecco. E poi come posso tener presenti le regole mentre sto vivendo una saga? Mi comporto nel modo che più mi viene spontaneo. A te non sarebbe piaciuto vedere la montagna?» Alystra sbarrò gli occhi con orrore. «Ma questo avrebbe voluto dire portarci all’esterno» balbettò. Alvin sapeva che era inutile protrarre quella discussione. Lì stava appunto la barriera che lo separava dalla gente del suo mondo, la barriera che lo avrebbe costretto a una vita di delusioni. Sia nella realtà che nel sogno, lui non desiderava altro che uscire all’esterno. Per chiunque altro, a Diaspar, l’«esterno» era un incubo che nessuno aveva il coraggio di affrontare. Evitavano perfino di parlarne: era qualcosa di immondo, di mostruoso. Nemmeno Jeserac, il suo tutore, aveva voluto spiegargli perché. Alystra lo stava ancora fissando con occhi teneri e ansiosi. «Tu sei infelice, Alvin» sospirò. «Nessuno dovrebbe esserlo a Diaspar. Lasciami venire di persona a parlare con te.» Poco galantemente, Alvin scosse la testa. Sapeva come sarebbe andata a finire, e in quel momento desiderava restare solo. Doppiamente delusa, Alystra si dileguò. Tra dieci milioni di abitanti, pensava Alvin, non c’era nessuno con cui poter parlare; Eriston ed Etania gli volevano bene, ma ormai il periodo di custodia stava per scadere, e loro erano ben contenti di lasciarlo libero di scegliersi i propri divertimenti e la propria strada. Negli ultimi anni, a mano a mano che la sua differenza dal modello-standard si era fatta più evidente, aveva spesso avvertito un certo risentimento nei suoi genitori. Non ce l’avevano con lui, ce l’avevano con la sorte che aveva scelto proprio loro, tra tanti milioni di cittadini, per andare a riceverlo quando, vent’anni prima, era uscito dalla Sala di Creazione. Vent’anni.Ricordava il suo primo istante di vita, le prime parole udite: «Benvenuto, Alvin. Io sono Eriston, tuo padre designato. E questa è Etania, tua madre». Le parole non avevano significato niente in quel momento, ma il suo cervello le aveva registrate con precisione assoluta. E ricordava il modo in cui aveva contemplato le proprie membra. Era cresciuto di qualche centimetro, da allora, ma per il resto non era cambiato quasi per nulla. Era venuto al mondo già adulto, come aspetto, e sarebbe rimasto quasi immutato fino al momento di tornare al nulla, tra un migliaio d’anni. Prima di questo ricordo c’era il vuoto. Un giorno, forse, questo vuoto si sarebbe riempito, ma era un pensiero troppo remoto per incidere sulle sue emozioni. Riportò ancora una volta la mente al mistero della sua nascita. Non pareva affatto strano ad Alvin d’essere stato creato, in un unico istante di tempo, dalle forze e dalle potenze che materializzavano tutti gli oggetti della vita quotidiana. Il mistero non era quello. L’enigma che lui non era mai stato in grado di risolvere e che nessuno avrebbe mai potuto spiegargli era costituito dalla sua unicità. Unico.Spesso, ascoltando gli altri senza che se ne accorgessero, si era sentito definire con quell’aggettivo, che gli era suonato leggermente di malaugurio, come se quell’unicità rappresentasse una minaccia per sé e per tutti. I genitori, il tutore, tutti gli amici avevano cercato di proteggerlo da quella verità, quasi volessero preservare l’innocenza della sua lunga infanzia. Quella finzione stava per cessare: tra pochi giorni sarebbe stato un cittadino di Diaspar, e nessuno avrebbe potuto nascondergli ciò che lui desiderava conoscere. Perché, per esempio, non riusciva a immedesimarsi nelle saghe? Tra le migliaia di forme di ricreazione che la città offriva, le saghe erano la più popolare. Chi entrava in una saga non era uno spettatore passivo, come accadeva per i rozzi divertimenti di certe ere primitive di cui Alvin aveva sentito parlare. Nelle saghe si era partecipanti attivi, e si possedeva, o sembrava di possedere, una libera volontà. Gli avvenimenti e le scene che formavano il materiale vivo delle avventure poteva essere stato preparato molto tempo prima da artisti dimenticati, ma avevano sufficiente flessibilità da permettere ampie variazioni. Si entrava in un mondo immaginario con i propri amici, provando emozioni che Diaspar non offriva, e finché la finzione durava non era assolutamente possibile distinguere il sogno dalla realtà. Del resto, chi poteva essere certo che Diaspar stessa non fosse un sogno? Nessuno avrebbe potuto vivere tutte le saghe che erano state concepite e registrate dal giorno in cui avevano fondato la città. Vi si trovavano tutte le emozioni, e vi giocavano tutte le sfumature. Alcune, le più popolari tra i giovanissimi, erano semplici drammi di avventura e scoperta. Altre erano di pura esplorazione degli stati psicologici. Altre ancora erano esercizi di logica o di matematica che potevano offrire grande soddisfazione alle menti più sofisticate. Ma, per quanto le saghe sembrassero soddisfare i suoi compagni, lasciavano in Alvin un senso di insoddisfazione. Nonostante il loro colore, le avventure emozionanti, la varietà di soggetti e di ambienti, mancavano di qualcosa. Le saghe, concluse Alvin, non approdavano a niente. Erano tracciate su schemi troppo esili. Non c’erano le ampie distese, gli sterminati paesaggi di cui la sua anima aveva bisogno. Soprattutto, non vi si coglieva nemmeno un barlume di quell’immensità che gli antichi uomini avevano esplorato, il vuoto luminoso tra le stelle e i pianeti. Gli artisti che avevano creato le saghe dovevano aver sofferto della stessa fobia che attanagliava tutti i cittadini di Diaspar. Anche le avventure più fantastiche avvenivano in ambienti circoscritti: caverne sotterranee, o piccole valli circondate da montagne che escludevano alla vista tutto il resto del mondo. C’era un’unica spiegazione. In tempi remotissimi, forse prima ancora che Diaspar esistesse, era accaduto qualcosa che aveva distrutto l’ambizione e la curiosità dell’Uomo, scacciandolo dalle stelle e costringendolo a rifugiarsi nell’ultima città della Terra. L’uomo aveva rinunciato all’Universo ed era tornato al grembo artificiale di Diaspar. Quell’aspirazione invincibile, che un giorno l’aveva portato alla galassia e alle nebbiose isole che si estendevano oltre, si era spenta. Da innumerevoli cicli cosmici nessuna nave spaziale aveva più esplorato il Sistema solare; forse lassù, tra le stelle, i discendenti dell’Uomo stavano ancora costruendo Imperi, o trascinando soli nella rovina. La Terra non lo sapeva, né si curava di saperlo. Ma Alvin sì. 2 La stanza era immersa nel buio, salvo un rettangolo su cui si agitavano le onde di colore dei sogni di Alvin. Parte della composizione lo lasciava soddisfatto. Si era innamorato del contorno delle montagne che uscivano dal mare. I pendii che salivano verso il cielo possedevano una loro forza e fierezza. Le aveva studiate a lungo, e le aveva registrate nella memoria del visualizzatore, dove si sarebbero conservate fino al momento in cui avesse messo a punto il resto dell’immagine. Qualcosa gli sfuggiva, anche se non sapeva cosa fosse. Aveva provato e riprovato a riempire gli spazi vuoti, e gli strumenti avevano letto i suoi pensieri per proiettarli in immagine sulla parete. Ma non erano ciò che lui voleva. Le linee erano confuse e incerte, i colori troppo densi e sporchi. Se l’artista non sapeva cosa dipingere, anche il più miracoloso dei pennelli non avrebbe potuto portare a termine il quadro. Alvin cancellò le parti che lo lasciavano insoddisfatto e ricominciò a lavorare sui tre quarti di rettangolo vuoto che aveva cercato di riempire di bellezza. In un improvviso impulso raddoppiò la grandezza dell’immagine esistente e la spostò al centro del rettangolo. No, era un modo sciocco di risolvere la situazione. La composizione risultava sbilanciata e, peggio ancora, il cambio della scala aveva rivelato i difetti di tutta la costruzione: la mancanza di sicurezza nei tratti che poco prima gli sembravano disegnati alla perfezione. Avrebbe dovuto ricominciare da capo. «Cancellazione totale» ordinò alla macchina. Il blu del mare scomparve, le montagne si dissolsero come nebbia, e rimase soltanto la parete vuota. Era come se non ci fossero mai state, come se si fossero perse nel limbo che aveva assorbito gli oceani e le montagne della Terra, anni prima che Alvin nascesse. La luce tornò a inondare la stanza. Il rettangolo luminoso su cui Alvin aveva tentato fino ad allora di proiettare i suoi sogni si confuse col resto delle pareti. Ma erano proprio pareti? A chiunque fosse entrato per la prima volta in un posto del genere, quella stanza sarebbe sembrata molto strana. Era completamente priva di mobilio e non c’era nessuna linea di distinzione fra le pareti e il soffitto o il pavimento, così che Alvin poteva trovarsi al centro di una sfera. Nessuna linea visibile separava le pareti dal pavimento o dal soffitto. Non c’era nulla su cui l’occhio potesse posarsi; lo spazio che circondava Alvin poteva misurare tre metri o decine di miglia, per quanto la vista riusciva a giudicare. Sarebbe stato difficile resistere alla tentazione di avanzare a braccia tese per scoprire i limiti fisici di quel luogo straordinario. Pure, tali camere avevano fatto da «casa» agli esseri umani per la maggior parte della loro storia. Alvin doveva soltanto dare la forma opportuna al suo pensiero, e le pareti si sarebbero immediatamente trasformate in finestre aperte sul punto della città da lui prescelto. Un altro desiderio, e subito macchine che non aveva mai visto avrebbero ammobiliato la stanza proiettandovi le immagini di qualsiasi mobile richiesto. Se fossero mobili «reali» o no, era un problema che nessuno si poneva da almeno un miliardo di anni. Certo non erano meno reali di quelli fatti di materia solida, e quando non servivano più venivano rimandati nel mondo delle immagini, le Banche Memoria della città. Come tutto ciò che esisteva a Diaspar, non si sarebbero mai logorati, né avrebbero subito alcun cambiamento a meno che il loro modello-base non fosse stato cancellato da un atto cosciente di volontà. Alvin aveva in parte ricostruito la sua stanza quando un tintinnio persistente gli risuonò nell’orecchio. Concepì mentalmente il segnale di ammissione e subito una delle pareti si dissolse. Come si aspettava, nello spazio libero apparvero le figure dei suoi genitori e di Jeserac. La presenza del tutore indicava che non si trattava di una delle solite riunioni familiari, ma anche questo era già previsto. L’illusione era perfetta, e così restò quando Eriston prese a parlare. In realtà, come Alvin sapeva benissimo, Eriston, Etania e Jeserac erano a molte miglia di distanza. I costruttori della città avevano conquistato lo spazio proprio come avevano vinto il tempo. Alvin non sapeva nemmeno dove abitassero i suoi genitori fra le spire multiple e i complessi labirinti di Diaspar poiché dopo l’ultimo vero incontro avevano cambiato residenza. «Alvin» cominciò Eriston «sono passati vent’anni da quando tua madre e io ti abbiamo incontrato la prima volta. Sai cosa intendo. La nostra custodia è terminata, sei libero di fare quel che ti piace.» C’era un velo di tristezza nella voce di Eriston, ma appena un velo. Molto più evidente era il senso di sollievo, come se Eriston fosse contento all’idea che uno stato di cose, che ormai durava da anni, trovasse infine un riconoscimento legale. Alvin aveva anticipato di parecchio tempo la sua libertà di maggiorenne. «Capisco» rispose lui. «Vi ringrazio per aver vegliato su me, e vi ricorderò in tutte le mie vite future.» La risposta era formale. Alvin l’aveva ormai udita tante volte da trovarla quasi priva di valore; era una semplice sequenza di suoni senza particolare significato. Tuttavia l’espressione «vite future» era difficile da comprendersi, considerandola attentamente. Sapeva vagamente cosa significasse; ora era giunto il momento di scoprirne l’esatto significato. C’erano molte cose a Diaspar che non comprendeva e che avrebbe dovuto imparare nei secoli di vita che aveva dinanzi a sé. Per un attimo sembrò che Etania volesse dire qualcosa. Sollevò una mano, alternando la pallida iridescenza dell’abito, poi la lasciò ricadere e si voltò smarrita verso Jeserac. Per la prima volta Alvin si rese conto che i suoi genitori erano turbati. Riandò con la memoria agli avvenimenti delle ultime settimane. Non trovò nulla nella sua condotta che potesse giustificare quell’inquietudine, quell’aria leggermente allarmata di Eriston e di Etania. Jeserac, però, prese le redini della situazione. Con un’occhiata inquisitrice ai suoi compagni si accertò che non avessero altro da aggiungere e si lanciò nella dissertazione che aveva già pronta da parecchi anni. «Alvin, per vent’anni sei stato il mio pupillo e ho fatto del mio meglio per insegnarti gli usi della città e prepararti alla vita. Mi hai fatto molte domande e non sempre ho saputo risponderti. Alcune cose le ignoravo io stesso, altre non eri ancora maturo per apprenderle. Ora la tua infanzia è finita, ma sei appena adolescente. È ancora mio dovere guidarti, se ti servirà il mio aiuto. Ti occorreranno almeno duecento anni per conoscere questa città, e un poco della sua storia. Perfino io, che ho quasi terminato il mio ciclo, conosco appena un quarto di Diaspar e forse un millesimo dei suoi tesori.» Fino a quel momento non era stato detto niente che Alvin non sapesse, ma non ci sarebbe stato modo di farlo capire a Jeserac. Il vecchio lo guardava fisso attraverso il golfo dei secoli, e le sue parole avevano tutto l’incalcolabile peso della saggezza acquisita durante la lunga vita a contatto con uomini e macchine. «Dimmi, Alvin, ti sei mai chiestodov’eriprima di nascere, prima di trovarti di fronte a Eriston ed Etania nella Sala della Creazione?» «Ero soltanto uno schema nella mente della città, in attesa di essere creato così.» Una piccola poltrona comparve e prese consistenza. Alvin si mise a sedere, e aspettò che Jeserac continuasse a parlare. «Sei nel vero, ma questa è solo una parte della verità, una piccolissima parte. Finora hai incontrato solo ragazzi della tua età, i quali ignorano tutto. Ma ben presto ricorderanno. Tu no, invece, per cui devi essere preparato ad affrontare i fatti. Per più di un miliardo di anni, Alvin, la razza umana ha vissuto in questa città. Da quando l’Impero Galattico cadde e gli Invasori se ne tornarono sulle stelle, questo è stato il nostro mondo. Oltre le mura di Diaspar non c’è che il deserto di cui parlano le nostre leggende. Sappiamo pochissimo sui nostri antenati, tranne che erano esseri dalla vita brevissima e che, sebbene possa sembrare strano, potevano riprodursi senza l’aiuto delle unità di memoria e degli organizzatori di materia. Per un processo molto complesso e apparentemente incontrollabile, gli schemi-base di ogni essere umano erano conservati in cellule microscopiche all’interno dell’organismo. I biologi potranno darti maggiori spiegazioni, che non hanno molta importanza poiché il metodo è stato abbandonato agli albori della storia. Un essere umano, come qualsiasi altro oggetto, è definito dalla sua struttura, dal suo schema. Lo schema di un uomo è molto complesso, soprattutto lo schema che determina la mente di un uomo. Pure, la Natura riuscì a inserire questi schemi in cellule microscopiche. «Ciò che la Natura fa, l’Uomo può imitare a suo modo. Non sappiamo quanto tempo ci volle per raggiungere questo scopo. Un milione d’anni, forse, ma che importa? Alla fine i nostri antenati sono riusciti ad analizzare e a fissare l’informazione che avrebbe definito qualsiasi essere vivente, nonché a servirsene per creare nuovamente l’originale, come tu hai creato quella poltrona. So che queste cose ti interessano, Alvin, ma non posso spiegarti con esattezza come si raggiunse questo risultato. Il modo in cui questa informazione è conservata non ha importanza. Ciò che importa è l’informazione in se stessa. Può essere sotto forma di formule scritte, di campi magnetici varianti, o di cariche elettriche. Gli uomini hanno usato questi mezzi di conservazione, e molti altri. Ti basti sapere che molto tempo fa furono in grado di conservare se stessi, o meglio di immagazzinare il loro schema disincarnato grazie al quale potevano essere richiamati in vita. Sono tutte cose che sai. In questo modo i nostri antenati ci diedero virtualmente l’immortalità, evitando però i problemi che sorgevano dall’abolizione della morte. Mille anni di vita in un corpo bastano a qualsiasi uomo; alla fine di questo periodo la sua mente è carica di ricordi, chiede solo il riposo, o un nuovo inizio. «Tra poco, Alvin, mi preparerò a lasciare questa vita. Dovrò ripercorrere tutti i miei ricordi, cancellando quelli che non desidero conservare. Poi mi incamminerò verso la Sala della Creazione e vi entrerò da una porta che tu non hai mai visto. Questo vecchio corpo cesserà di esistere, e così la mia autocoscienza. Di Jeserac non resterà che un gruppo di elettroni congelati nel cuore di un cristallo. Dormirò un sonno senza sogni, Alvin. Poi, un giorno, forse tra un centinaio di migliaia di anni, mi ritroverò in un corpo nuovo, incontrerò coloro che saranno scelti a essere miei custodi, i quali mi guideranno come Eriston ed Etania hanno fatto con te, poiché dapprima non saprò nulla di Diaspar e non ricorderò nulla di questa vita. Poi i ricordi si riformeranno lentamente e io li userò come base man mano che avanzerò nel mio nuovo ciclo vitale. Questo è lo schema delle nostre vite, Alvin. Noi tutti abbiamo vissuto già molte e molte volte, sebbene, poiché gli intervalli di non-esistenza variano secondo leggi apparentemente casuali, la presente popolazione non si ripeterà mai. Il nuovo Jeserac avrà amici diversi e interessi diversi, ma il vecchio Jeserac, o almeno la parte di lui che vorrò salvare, tornerà a esistere. «Non è ancora tutto. In ogni momento, Alvin, solo un centesimo degli abitanti di Diaspar vive e si aggira per le strade. La grande maggioranza sonnecchia nelle Banche Memoria, in attesa del segnale che li chiamerà nuovamente in vita. Abbiamo così continuità e cambiamento, immortalità ma non ristagno. «So cosa ti stai chiedendo, Alvin. Vuoi sapere quando ritroverai i ricordi delle tue vite precedenti, come sta già accadendo ai tuoi compagni. Non esistono questi ricordi per te. Tu sei unico. Abbiamo cercato di nasconderti questa verità finché abbiamo potuto, per non turbare la tua infanzia, sebbene tu abbia già sospettato qualcosa. Neppure noi ne siamo stati certi fino a cinque anni fa, ma ormai non c’è più alcun dubbio. Tu, Alvin, rappresenti un fenomeno che si è verificato solo pochissime volte dalla fondazione della città. Forse hai sonnecchiato nelle Banche Memoria durante tutte le ere, o forse sei stato creato solo vent’anni fa da qualche permutazione accidentale. Può darsi che tu sia stato creato all’inizio dai costruttori della città, come può darsi che tu sia solo un incidente casuale dei nostri tempi. Non lo sappiamo. Tutto ciò che sappiamo è questo: tu, Alvin, solo della specie umana, non hai mai vissuto prima d’ora. In parole povere, sei il primo bambino che viene al mondo da almeno dieci milioni di anni.» 3 Appena Jeserac e i genitori si furono dissolti, Alvin giacque a lungo cercando di sgombrare la mente dai pensieri che la assillavano. Chiuse la camera attorno a sé, perché nessuno potesse interrompere la sua trance. Non stava dormendo; non sapeva cosa volesse dire dormire, dato che il sonno apparteneva a un mondo fatto di giorni e di notti mentre a Diaspar esisteva solo il giorno. Lo stato di trance era ciò che più somigliava all’antico sonno e, per quanto non essenziale, lui sapeva che in quel modo avrebbe potuto riordinare la mente. Non aveva appreso molto; quasi tutto ciò che Jeserac gli aveva detto, lo sospettava da tempo. Ma altro era il sospetto, altro la certezza matematica. Fino a che punto questo avrebbe pesato sulla sua vita? Non poteva saperlo, e l’incertezza, per Alvin, era una sensazione nuova. Forse non avrebbe portato alcuna differenza: se non si fosse adattato completamente a Diaspar in questa vita, ci sarebbe riuscito nella prossima… o in quella seguente… La mente di Alvin respinse quel pensiero appena l’ebbe formulato. Diaspar poteva forse bastare al resto dell’umanità, non a lui. Era convintissimo che nessuno, pur rivivendo migliaia di volte, sarebbe arrivato a conoscere tutte le meraviglie, e gustare tutte le varie forme di esperienza che la città offriva. Sì, poteva farlo; ma se non avesse potuto fare altro, non sarebbe mai stato soddisfatto. C’era solo un problema da risolvere. Cos’altro si poteva fare? Quell’assillo lo strappò alle sue fantasticherie. Non riusciva a stare calmo. C’era un unico posto in tutta la città, che avrebbe potuto ridargli un po’ di pace. Le pareti persero parzialmente la loro consistenza per lasciarlo passare nel corridoio. Le molecole polarizzate opposero soltanto una lieve resistenza, come quella di una brezza che soffia sul volto. Esistevano molti mezzi per raggiungere senza sforzo una meta, ma preferiva camminare. La sua stanza restava quasi al livello della città, e un breve passaggio portava all’esterno, su una rampa a spirale che conduceva alle strade. Ignorò la strada mobile e restò invece sullo stretto marciapiede. Si trattava di un fatto inconsueto, dato che doveva percorrere parecchie miglia, ma Alvin amava il moto perché gli riposava la mente. Inoltre c’erano molte cose da vedere, e gli sembrava un peccato passare di corsa accanto alle ultime meraviglie di Diaspar quando si ha di fronte l’eternità. Era abitudine degli artisti, e a Diaspar prima o poi tutti attraversavano un periodo artistico, esporre lungo le strade mobili le ultime produzioni, in modo che tutti i passanti potessero ammirare i lavori. Così l’intera popolazione poteva esaminare con occhio critico ogni creazione ed esprimere il proprio giudizio. I verdetti, registrati automaticamente dalle macchine-referendum che nessuno era mai riuscito a corrompere o ingannare… e c’erano stati parecchi tentativi… sceglievano il capolavoro. Se c’era stato un sufficiente numero di voti positivi, la matrice del quadro sarebbe stata introdotta nella memoria della città per concedere a quanti avessero voluto, in una qualsiasi data futura, il possesso di una copia assolutamente identica all’originale. Le opere di minore successo seguivano il destino di tutti i quadri sfortunati. O venivano dissolte nei loro elementi originali, o finivano nelle abitazioni degli amici dell’artista. Lungo il tragitto Alvin vide una sola opera d’arte di una certo interesse. Era una creazione di pura luce che ricordava vagamente lo sbocciare di un fiore. Da un minuscolo nucleo di colori si staccava lentamente una complessa spirale che ricadeva all’improvviso per ricominciare l’intero ciclo. Tuttavia, ogni ciclo era completamente diverso dal precedente. Alvin si fermò per guardare con attenzione. Dopo ogni caduta, anche se il movimento di base rimaneva identico, la spirale assumeva variazioni che quasi non si potevano definire. Sapeva perché si era fermato di fronte a quel pezzo di intangibile scultura. Il ritmo in espansione gli dava l’idea dello spazio, e anche della fuga. Forse proprio per questa ragione l’opera non sarebbe piaciuta ai concittadini di Alvin. Annotò il nome dell’artista, e decise di mettersi in contatto con lui alla prima occasione. Tutte le strade, mobili e fisse, terminavano al Parco, al verde cuore della città. Qui, in uno spazio circolare di circa cinque chilometri di diametro, si conservavano i ricordi di ciò che la Terra era stata prima che il deserto inghiottisse ogni cosa al di fuori di Diaspar. C’era un vasto prato, poi degli alberelli che si facevano sempre più fitti man mano che si avanzava sotto la loro ombra. Il terreno scendeva dolcemente, così che quando si usciva finalmente dalla piccola foresta la città restava nascosta dalla cortina di alberi. Il largo corso d’acqua che si stendeva davanti ad Alvin era chiamato semplicemente Fiume. Non aveva bisogno di un altro nome. Scorreva attorno al Parco formando un circolo completo e chiuso, interrotto qua e là da laghetti. Alvin non trovava affatto strano che un fiume dalla rapida corrente potesse ritornare a se stesso dopo un percorso di circa nove chilometri; del resto, non si sarebbe meravigliato nemmeno se a un certo punto il fiume si fosse messo a risalire la collina. C’erano cose ben più strane a Diaspar. Un gruppo di giovani nuotava in uno dei laghetti, e Alvin si soffermò a guardarli. Li conosceva quasi tutti di vista, anche se non per nome, e per un attimo fu tentato di unirsi a loro, ma memore del suo segreto, preferì starsene appartato. Studiando il corpo, era impossibile capire quali di quei giovani cittadini fossero usciti dalla Sala della Creazione quell’anno, e quali fossero invece «nati» contemporaneamente ad Alvin. Esistevano differenze notevoli di peso e di altezza, ma non avevano alcun rapporto con l’età. Tutti nascevano così, già sviluppati; e per quanto in genere le persone più alte fossero anche le più anziane, la regola non era assoluta. Poteva dare indicazioni certe solo sulla distanza di secoli. Solo le facce potevano rivelare l’età giovanissima, poiché i rinati da poco avevano un’aria immatura, un’espressione di meravigliata sorpresa che li denunciava a prima vista. Era strano pensare che nelle loro menti sonnecchiassero infinite visioni di vite trascorse, che ben presto sarebbero riaffluite alla memoria. Alvin li invidiò, pur sentendo di avere torto. La prima esistenza era un miracolo prezioso, che non si sarebbe mai più ripetuto. Era meraviglioso vedere la vita per la prima volta, come nella freschezza dell’alba. Se solo ci fosse stato qualcun altro come lui, con cui poter dividere pensieri e sensazioni… Eppure esternamente non era affatto diverso dagli altri ragazzi. Il corpo umano era rimasto identico fin dalla fondazione di Diaspar, poiché lo schema-base era cristallizzato per l’eternità nelle Banche Memoria. Tuttavia aveva subito parecchi cambiamenti dalla forma originale primitiva, sebbene la maggior parte delle alterazioni fosse interna e quindi invisibile. L’uomo aveva ricostruito se stesso parecchie volte, nello sforzo di eliminare i difetti ai quali era soggetto nella preistoria. Accessori inutili quali le unghie e i denti erano scomparsi. I peli erano confinati sulla testa: sul corpo non se ne vedeva la minima traccia. Forse la cosa che più di ogni altra avrebbe sorpreso l’uomo primitivo doveva essere la scomparsa dell’ombelico. Quell’inesplicabile assenza avrebbe dato parecchio da pensare a un progenitore, che si sarebbe trovato in imbarazzo anche nel dover distinguere a prima vista un maschio da una femmina. Forse avrebbe pensato che non esistevano più differenze di sesso. Ma questo sarebbe stato un grave errore. In appropriate circostanze, un qualsiasi maschio di Diaspar avrebbe saputo dimostrare tutta la sua virilità, solo che… l’equipaggiamento, quando non veniva usato, era molto meglio disposto di prima. Lo spostamento interno degli organi aveva enormemente migliorato la vecchia disposizione data dalla Natura, assai poco elegante e notevolmente pericolosa. Vero che la procreazione non era più affidata al corpo umano, essendo una questione troppo importante per essere lasciata a una partita di probabilità giocata con i cromosomi come se fossero dadi. Tuttavia, per quanto il concepimento e la nascita non fossero che dei ricordi, il sesso restava. Anche nei tempi antichi soltanto l’uno per cento delle attività sessuali aveva attinenza con la riproduzione. La scomparsa di questo uno per cento aveva cambiato lo schema della società umana e il significato delle parole «padre» e «madre», ma il desiderio era rimasto, anche se non aveva altro scopo che quello di soddisfare i sensi. Alvin smise di osservare i coetanei che si stavano divertendo, e continuò il cammino verso il centro del Parco. In quella zona c’erano soltanto dei sentieri appena marcati. Attraversavano piccoli boschi e a volte scendevano in stretti crepacci dalle pareti coperte di licheni. A un certo punto incontrò una piccola macchina poliedrica, non più grande della testa di un uomo, che volteggiava in mezzo ai rami di un albero. Nessuno sapeva quanti tipi di robot ci fossero a Diaspar. Restavano appartati e si occupavano dei loro affari con grande efficienza, tanto che era insolito scorgerne uno. Il terreno aveva ripreso a salire; Alvin si stava avvicinando alla collinetta che sorgeva al centro del Parco e quindi della città. Aveva il fiato un po’ grosso quando raggiunse la sommità della collina e il semplice edificio che la sovrastava, ma si appoggiò soddisfatto a una delle rosee colonne e contemplò dall’alto la strada che aveva percorso. Esistono forme architettoniche che non possono cambiare, poiché hanno raggiunto la perfezione. La Tomba di Yarlan Zey avrebbe potuto essere attribuita agli architetti di una qualsiasi civiltà, persino la più remota, anche se quegli architetti non avrebbero mai saputo immaginare di che materiale fosse fatta. Il tetto era aperto e l’interno era pavimentato di grosse lastre che a prima vista parevano di pietra. Per intere età geologiche piedi umani avevano attraversato e riattraversato quell’impiantito, senza lasciare alcuna traccia sulla liscia superficie. Il creatore del grande parco — e della stessa Diaspar, come molti affermavano — sedeva con gli occhi rivolti a terra, come se stesse ancora esaminando i progetti stesi sulle sue ginocchia. Sul volto era eternata un’espressione enigmatica che aveva lasciato perplesse tante generazioni umane. Alcuni non ci badavano più, convinti che si trattasse di un puro capriccio dell’autore della statua, altri pensavano che Yarlan Zey sorridesse per una burla segreta. L’intero edificio era un enigma, perché nei registri storici della città non si trovava nulla che lo riguardasse. Alvin non era nemmeno ben certo del significato della parola «Tomba»; forse Jeserac avrebbe potuto spiegarglielo, lui che si dilettava a raccogliere vocaboli caduti in disuso, servendosene poi nella conversazione con grande confusione di chi lo ascoltava. Da quel punto, Alvin abbracciava con l’occhio tutto il Parco, fino alla città che si stendeva oltre la cinta degli alberi. Gli edifici più vicini distavano circa tre chilometri e formavano una bassa cintura che circondava completamente il Parco. Subito dopo, con altezza sempre crescente, cominciavano gli anelli di torri e di terrazze che formavano la parte maggiore della città. Si stendevano per chilometri e chilometri, avvicinandosi gradatamente al cielo, sempre più complesse, monumentali, imponenti. Diaspar era stata disegnata come entità; era un’unica, poderosa macchina. Tuttavia il suo aspetto esteriore, pur sopraffacendo lo spettatore per la sua complessità, rivelava solo vagamente le meraviglie tecnologiche che nascondeva, senza le quali tutti quei grandiosi edifici non sarebbero stati che dei sepolcri. Alvin puntò lo sguardo verso i confini del suo mondo. A venti, trenta chilometri laggiù, dove i particolari si perdevano nella lontananza, si ergevano i bastioni esterni; oltre quei bastioni, null’altro che la volta del cielo. Non c’era nulla, oltre quei bastioni, null’altro che la spaventosa solitudine del deserto, dove un uomo sarebbe ben presto impazzito. Perché quel vuoto esercitava un fascino su di lui, se non attirava nessun altro essere? Alvin non sapeva spiegarselo. Restò a fissare le costruzioni a spirale e i bastioni merlati che racchiudevano l’intero dominio dell’umanità, come cercando una risposta. Non la trovò. Ma in quell’istante, mentre il suo cuore tendeva dolorosamente verso l’irraggiungibile, prese una decisione. Ormai sapeva quale sarebbe stato lo scopo della sua vita. 4 Jeserac non era molto disponibile, anche se non oppose le resistenze che Alvin si aspettava. Nella sua lunga carriera di tutore si era sentito porre altre volte domande del genere, ed era convinto che nemmeno un Unico come Alvin potesse sottoporgli problemi impossibili da risolvere. Certo Alvin si comportava in modo alquanto singolare. Non prendeva parte come avrebbe dovuto alla complicatissima vita sociale della città, né alle fantasie dei compagni. Non prendeva neanche interesse alle attività superiori del pensiero, ma forse per questo era ancora troppo immaturo. Piuttosto preoccupante poi era la sua instabilità sentimentale. D’accordo che per formare un legame stabile bisognava almeno aver compiuto il secolo, ma Alvin era famoso per la sua incostanza. I suoi amori erano intensi, finché duravano… ma nessuno aveva resistito per più di una settimana. A quanto pareva, Alvin poteva interessarsi a fondo solo a una cosa per volta. Talora si perdeva con tutto se stesso nei giochi erotici delle compagne, oppure scompariva per diversi giorni con la ragazza che aveva scelto. Ma passato quel particolare stato d’animo, trascorreva lunghi periodi di totale disinteresse per quella che alla sua età avrebbe dovuto essere l’occupazione preferita. Probabilmente non era un bene per lui, e di certo non era un bene per le amanti che lasciava: diventavano tutte di pessimo umore, e passava molto tempo prima che riuscissero a consolarsi con qualcun altro. Alystra, Jeserac se n’era accorto, stava appunto sperimentando quella triste fase. Non che Alvin fosse senza cuore, o mancasse di serietà. In amore, come in tutto il resto, pareva in cerca di qualcosa che Diaspar non poteva offrigli. Ma Jeserac non si lasciava impressionare da queste bizzarrie. Un Unico doveva per forza avere un temperamento un po’ difficile, e a tempo opportuno Alvin si sarebbe uniformato allo schema generale della città. Nessun individuo singolo, per quanto brillante, poteva tener testa all’inerzia di una società che era rimasta immutata da più di un miliardo di anni. Jeserac credeva nella stabilità, anzi non riusciva a concepire nient’altro. «Il problema che ti tormenta è antichissimo» disse ad Alvin. «Ma difficilmente accade che qualcuno ci pensi o se ne preoccupi. Un tempo la specie umana occupava uno spazio infinitamente più grande di questa città. Tu hai visto qualcosa di quel che era la Terra prima della sparizione degli oceani e la comparsa del deserto. Le registrazioni che tanto ami proiettare sono le più vecchie che possediamo, le uniche che mostrino come sia stata la Terra prima dell’arrivo degli Invasori. Non penso che molti le abbiano viste. Quegli spazi aperti e senza limite sono uno spettacolo che pochi hanno il coraggio di contemplare. La Terra, poi, era solo un granello di sabbia nell’Impero Galattico. Nessuna mente sana oserebbe immaginare come dovessero essere quegli spazi tra le varie stelle. I nostri progenitori li attraversarono all’alba della storia quando si accinsero a costruire l’Impero. Poi li riattraversarono per l’ultima volta quando gli Invasori li ricacciarono sulla Terra. «La leggenda dice che gli uomini fecero un patto con gli Invasori. Loro si sarebbero tenuti l’universo, noi ci saremmo accontentati del mondo su cui eravamo nati. Abbiamo mantenuto il patto e dimenticato gli inutili sogni della nostra infanzia, come accadrà anche a te, Alvin. Gli uomini che costruirono questa città, e concepirono la società che l’avrebbe occupata, erano signori dello spirito oltre che della materia. Misero entro queste mura ciò che la specie umana avrebbe potuto desiderare, e si assicurarono che noi non avremmo mai pensato a lasciarle. «Le barriere materiali non contano, naturalmente. Forse esistono strade che portano fuori della città, ma sono certo che se anche tu ne trovassi una non avresti il coraggio di allontanarti troppo. Ma anche ammesso che ci riuscissi, quale sarebbe lo scopo? Il tuo corpo non durerebbe a lungo nel deserto, quando la città non potesse più proteggerlo e nutrirlo.» «Ammettiamo che ci sia il modo di uscire dalla città» rispose Alvin, pensoso. «Cosa potrebbe impedirmi di lasciarla?» «Questa è una domanda sciocca. Conosci già la risposta.» Jeserac aveva ragione, ma non nel senso che immaginava. Alvin sapeva, o meglio aveva sospettato la risposta. Gliel’avevano data i compagni, sia nella vita reale che durante le saghe che avevano vissuto con lui. Loro non avrebbero mai trovato il coraggio di lasciare Diaspar; Jeserac, però, non sapeva che questo istinto che regolava la loro vita non aveva alcun potere su Alvin. Questa differenza era uno degli effetti della sua Unicità. Alvin si chiedeva quanti altri ne avrebbero scoperti in seguito. Nessuno aveva mai fretta a Diaspar, e perfino Alvin rispettava questa regola. Per parecchie settimane considerò attentamente il problema, dedicando parecchio tempo all’esame dei documenti storici della città. Per ore intere restava disteso, sorretto dalle impalpabili braccia dell’antigravità, sotto gli effetti del proiettore ipnotico che gli apriva la mente al passato. Al termine della proiezione la macchina spariva, ma Alvin continuava a restare disteso con gli occhi fissi nel vuoto, per passare lentamente attraverso gli eoni, e giungere nuovamente alla realtà. Vedeva le ampie distese di acqua azzurra, molto più vaste della terra stessa, che spingevano le onde verso spiagge dorate. Le sue orecchie sentivano il boato delle onde che erano rimaste in silenzio per milioni di anni. E ricordava le foreste, e le praterie, e gli strani animali che una volta popolavano la Terra insieme con l’uomo. Le proiezioni da usare allo scopo non erano molte; era generalmente accettato il fatto che, nel periodo tra la venuta degli Invasori e la fondazione di Diaspar, tutti i ricordi delle ore primitive fossero andati perduti. La distruzione era stata così completa da far sospettare che non fosse avvenuta per puro incidente. L’umanità aveva smarrito il suo passato, a eccezione di poche cronache che sembravano avvicinarsi più alla leggenda che alla storia. Prima di Diaspar esisteva solo la Preistoria. In essa si confondevano inestricabilmente i primi uomini che avevano scoperto il fuoco e quelli che avevano scoperto l’energia atomica, i primi navigatori e i piloti spaziali. Erano uniti gli uni agli altri, al confine di quel deserto di tempo. Alvin avrebbe preferito fare i suoi esperimenti da solo, ma a Diaspar non sempre era possibile starsene in pace. Aveva appena lasciato la sua stanza quando incontrò Alystra che veniva a trovarlo. Alystra era bella, ma Alvin, che non aveva mai visto la bruttezza umana, non se ne accorgeva nemmeno. Quando è universale, la bellezza perde tutto il suo potere. Soltanto quando manca può suscitare delle emozioni. Per un attimo restò seccato per quell’incontro. Era troppo giovane per sentire il bisogno di una relazione duratura e d’altra parte la barriera della sua unicità si frapponeva tra lui e la sua compagna. Alvin, nonostante l’aspetto, era ancora un ragazzo e lo sarebbe stato ancora per molti decenni, mentre Alystra e tutte le altre coetanee avevano già cominciato a trasformarsi in un complesso di ricordi e di esperienze che trascendevano la sua comprensione. Era un fatto che aveva già visto accadere, e questo lo rendeva cauto nel concedersi totalmente a una qualsiasi altra persona. Anche Alystra, che ora sembrava tanto ingenua e spontanea, sarebbe presto diventata un complesso di ricordi e di capacità da sbalordire. Il leggero senso di irritazione si dissipò quasi subito. Non c’era ragione di impedire che Alystra venisse da lui, se lo desiderava. Non era egoista, e non voleva rinchiudere tutte le nuove esperienze dentro di sé, come un avaro. In fondo, poteva benissimo imparare qualcosa dalle reazioni di lei. La ragazza, contrariamente al solito, non fece domande mentre la strada mobile li portava verso la periferia. Si spostarono sulla parte centrale della strada, quella ad alta velocità, senza mai preoccuparsi di osservare il miracolo che si stava srotolando sotto i loro piedi. Uno scienziato del vecchio mondo sarebbe impazzito nel tentativo di comprendere come una strada, apparentemente fissa ai lati, potesse muoversi con sempre maggiore velocità verso il centro. Ma per Alvin e Alystra era assolutamente normale che esistesse una materia capace di avere le proprietà dei solidi in una direzione, e le proprietà dei liquidi in un’altra. Attorno a loro gli edifici si elevavano sempre più alti, quasi la città volesse rinforzare i suoi baluardi contro il mondo esterno. Che strano sarebbe stato, pensò Alvin, se quelle pareti fossero diventate trasparenti come il vetro, rivelando la vita che si svolgeva al loro riparo. Sparpagliati attorno a lui vivevano gli amici che conosceva, coloro che gli sarebbero diventati amici in futuro, e sconosciuti che lui non avrebbe mai incontrato… anche se questa era una probabilità molto remota, dato che nel corso della sua lunga vita avrebbe finito col conoscere quasi tutti gli abitanti di Diaspar. Molti forse si trovavano nelle loro stanze, ma con tutta probabilità non erano soli. A Diaspar bastava formare il desiderio per trovarsi in compagnia della persona scelta, anche se non fisicamente. Nessuno poteva annoiarsi, perché tutti avevano accesso a tutto quanto era accaduto, sia nell’immaginazione che nella realtà, dai giorni in cui Diaspar era stata fondata. Per uomini dalle menti formate in quel modo, l’esistenza era del tutto soddisfacente. Ed era anche completamente futile, anche se Alvin non lo comprendeva ancora. A mano a mano che Alvin e Alystra si avvicinavano alla periferia della città, le strade si facevano sempre più deserte. Non si vedeva anima viva quando Alvin e Alystra si fermarono presso una lunga piattaforma di marmo colorato. Di fronte a loro si ergeva una parete interrotta a intervalli da gallerie illuminate. Alvin ne scelse una senza esitare e vi si incamminò. Alystra gli andò dietro. Immediatamente il campo peristaltico li afferrò spingendoli in avanti. Comodamente sdraiati, si lasciarono trasportare godendosi la vista del panorama. Non sembrava di essere in una galleria sotterranea. Una illusione ottica perfetta dava l’impressione di essere sotto la volta del cielo. Tutt’attorno si contemplava una ricostruzione della Diaspar antica, quasi identica all’attuale, ma con alcune differenze che aumentavano l’interesse della scena. Alvin avrebbe desiderato rallentare il viaggio, ma non aveva mai scoperto il modo per farlo. Poco dopo vennero posati gentilmente in una larga sala ellittica, tutta circondata da finestre, dalle quali si scorgeva una visione meravigliosa di giardini dai fiori sgargianti. Lo scenario era naturalmente frutto della fantasia di un artista. Nel mondo dei loro giorni non esistevano fiori come quelli. Alystra era incantata da tanta bellezza ed era convinta che Alvin l’avesse portata lì a vedere quello spettacolo. Alvin la osservava correre da una finestra all’altra, e sorrideva alla gioia di lei davanti a ogni nuova scoperta. C’erano centinaia di posti simili alla periferia di Diaspar, mantenuti in perfetta efficienza dalle forze misteriose che vegliavano sulla città. Un giorno, forse, il flusso della vita avrebbe riscoperto quel percorso, ma per il momento quei vecchi giardini erano un segreto di loro esclusiva proprietà. «Proseguiamo» disse infine Alvin. «Qui siamo solo al principio.» Uscì da una delle finestre e l’illusione scomparve. Non c’era un giardino dietro i vetri, ma un passaggio circolare che saliva ripido verso l’alto. Alystra, senza esitare, lo raggiunse nel passaggio. L’impiantito cominciò a sfuggire lentamente in avanti, quasi per aiutarli a raggiungere la loro meta. I due mossero alcuni passi, finché la loro velocità divenne così alta che sarebbe stato inutile sprecare ulteriori sforzi. Il corridoio si fece sempre più ripido, fino a essere quasi perpendicolare. Il fatto di avanzare a forte velocità su una superficie verticale fino a migliaia di metri di altezza non dava ai due giovani alcun senso di vertigine o di paura, dato che un errore del campo di polarizzazione era inammissibile. L’impiantito cominciò ad abbassarsi lentamente, sino a divenire orizzontale. Il movimento divenne più lento, e cessò completamente all’estremità di una lunga sala tutta tappezzata di specchi. Non era necessario presentare il luogo ad Alystra. Non tanto per le caratteristiche sopravvissute immutate dai lontani tempi di Eva, quanto perché nessuno avrebbe saputo resistere al fascino che emanava. Quello era forse il luogo più affascinante di tutta Diaspar. Un capriccio dell’artista che l’aveva ideato faceva sì che gli specchi riflettessero scenari fantastici e in continuo movimento. Era sconcertante vedere la propria immagine muoversi tra simili scenari. A volte passavano anche altri esseri umani. Alvin vi aveva scorto facce sconosciute, ma ben presto si era reso conto che non si trattava di persone incontrate in questa vita, bensì delle loro precedenti incarnazioni. Poteva vedere il passato attraverso la mente dell’artista. Lo rattristava il pensiero che, per quanto si fosse fermato a contemplare quelle scene, a causa della sua unicità non si sarebbe mai imbattuto in un’antica eco di se stesso. «Sai dove siamo?» chiese ad Alystra, quando ebbe finito il giro tra gli specchi. Lei scosse la testa. «In un luogo proprio al limite della città, immagino» rispose noncurante. «Abbiamo percorso parecchia strada, ma non saprei dire quanta.» «Siamo nella Torre di Lorrane» ribatté Alvin. «È uno dei punti più alti di Diaspar. Vieni, voglio mostrarti qualcosa.» Prese la compagna per mano e la trascinò fuori dalla sala. Non c’erano uscite visibili, ma in certi punti il diverso disegno del pavimento indicava i corridoi laterali. Come ci si avvicinava, gli specchi sembravano fondersi in un arco di luce, e si poteva comodamente entrare nel passaggio. Alystra perse il conto dei giri che fecero. Alla fine arrivarono a una galleria perfettamente diritta, dove soffiava un vento forte e freddo. La galleria si stendeva orizzontalmente per un centinaio di metri, e alle due estremità si scorgevano due cerchi di luce. «Non mi piace questo posto» protestò Alystra. «Fa freddo.» Probabilmente, in tutta la sua vita, Alystra non aveva mai provato il freddo intenso, e Alvin si sentì colpevole. Avrebbe dovuto consigliarle di prendere un mantello pesante, dato che gli abiti, a Diaspar, erano puramente ornamentali e non offrivano alcuna protezione contro gii sbalzi di temperatura, che in città non esistevano. Alvin, senza fare commenti, le tese il suo mantello. Non si trattava di un gesto cavalleresco, perché l’uguaglianza tra i sessi aveva da lungo tempo abolito queste convenzioni, ma solo di un atto di responsabilità per non averla avvertita di mettersi un equipaggiamento adatto. Se fosse avvenuto l’opposto, sarebbe stata Alystra a dargli il suo mantello, e lui l’avrebbe accettato senza il minimo commento. Non era spiacevole camminare con il vento alle spalle, e presto raggiunsero l’estremità della galleria. Una grata di pietra impediva di avanzare oltre. Tanto meglio così, perché si trovavano sull’orlo del nulla. Il grande condotto d’aria si apriva sulla ripida parete esterna della torre, e sotto di loro c’era uno strapiombo verticale di almeno trecento metri. Erano in alto sui bastioni più esterni della città; Diaspar si stendeva sotto di loro, uno spettacolo che pochi abitanti del mondo avevano visto. Da quella posizione potevano vedere gli anelli concentrici di pietra e di metallo che scendevano per chilometri verso il cuore della città. Lontano, parzialmente nascosti dalle torri, si vedevano i campi con gli alberi e il fiume. Sullo sfondo i più remoti bastioni della città si alzavano verso il cielo. Alystra non era particolarmente entusiasta. Aveva già visto quel panorama altre volte, da punti altrettanto aperti ma molto più comodi. «Quello è il nostro mondo… Tutto» osservò Alvin. «Ora voglio mostrarti qualcos’altro.» Voltò le spalle alla grata e s’incamminò verso il cerchio di luce che illuminava l’estremità opposta del corridoio. Il vento penetrava gelido sotto l’abito sottile, ma il giovane non se ne accorgeva nemmeno. Fatti pochi passi, si rese conto che Alystra non lo seguiva. Era rimasta immobile, con le mani al viso, il mantello che sbatteva al vento. Vide che muoveva le labbra, ma il suono delle parole non lo raggiunse. Alvin la guardò dapprima meravigliato, poi con impazienza e compatimento. Jeserac aveva detto la verità: lei non poteva seguirlo; aveva capito dove s’affacciava quell’altra apertura. Alle spalle c’era il mondo conosciuto, pieno di meraviglie ma privo di sorprese, vivido come una brillante bolla incatenata al fiume del tempo. Laggiù, a solo un centinaio di metri, c’era il deserto, il mondo spaventoso, il mondo degli Invasori. Alvin le si accostò, e notò, sorpreso, che la ragazza tremava. «Di che cos’hai paura?» le chiese. «Qui siamo a Diaspar. Hai guardato da quell’apertura, non c’è niente di pericoloso se ti affacci anche dall’altra.» Alystra continuava a fissarlo come se fosse stato uno strano mostro. E, in base al suo metro, lui lo era veramente. «Non posso. Il solo pensiero mi fa rabbrividire più di questo vento. Non proseguire, Alvin!» «Ma è illogico! Cosa vuoi che ti succeda se arrivi alla fine di questo corridoio e guardi fuori? Vedrai un posto strano e solitario, ma niente di orribile. Anzi, ogni volta che lo guardo lo trovo sempre più bello…» Alystra non lo lasciò terminare. Si voltò di scatto e fuggì giù per la lunga rampa tortuosa che li aveva condotti là in cima. Alvin non tentò nemmeno di fermarla. Imporre la propria volontà era cosa mal fatta; usare la persuasione, inutile. Sapeva che non si sarebbe fermata finché non avesse ritrovato i suoi compagni. Non c’era pericolo che si perdesse nei labirinti della città, dato che le sarebbe stato facile ripercorrere il cammino fatto nel venire. Trovare il cammino anche nel più complesso groviglio era una qualità che l’uomo aveva acquisito da quando aveva cominciato a vivere nelle città. I topi, ormai da lungo estinti, erano stati costretti a imparare la stessa cosa quando avevano dovuto abbandonare i campi per vivere accanto all’uomo. Alvin aspettò un attimo, quasi nella speranza che Alystra tornasse. Non era rimasto sorpreso per la reazione della ragazza; ciò che lo aveva stupito erano state la violenza e l’irrazionalità del suo gesto. Gli spiaceva che l’amica se ne fosse andata, ma non poté fare a meno di pensare che avrebbe potuto almeno restituirgli il mantello. Non solo faceva freddo, ma era faticoso avanzare contro il vento che fischiava attraverso i polmoni della città. Alvin combatté sia contro la corrente d’aria sia contro la forza che la manteneva in movimento. Alla fine raggiunse la grata opposta, e si appoggiò per riposare. C’era appena lo spazio per infilare la testa in una delle aperture. Tuttavia poteva vedere abbastanza. Parecchie migliaia di metri al di sotto si stendeva il deserto. Il sole era al tramonto, e i raggi quasi orizzontali battevano contro la grata di pietra riempiendo d’oro e di ombre l’inizio della galleria. Alvin batté le palpebre, abbagliato, e sbirciò la terra su cui nessuno aveva più camminato da ere antichissime. Era come se stesse guardando un oceano eternamente ghiacciato. Per chilometri e chilometri le dune si stendevano verso ovest, i contorni ingigantiti dalla luce radente. Qua e là il vento scavava buche e creava vortici, e a volte era difficile convincersi che quelle sculture non erano opera di una intelligenza umana. Molto lontano, tanto da non poter giudicare la distanza, sfumavano i contorni di una fila di basse colline. Quelle colline erano state una delusione per Alvin, che avrebbe dato qualsiasi cosa pur di poter vedere le aspre montagne contemplate solo in proiezione e nei propri sogni. Il sole era ormai sospeso sull’orlo delle colline, con i raggi indeboliti e fatti rossi dallo spessore dell’atmosfera. Sul disco si vedevano due grosse macchie nere; Alvin ne aveva appreso l’esistenza attraverso i suoi studi, ma non aveva sperato di poterle distinguere così facilmente. Sembravano due occhi che lo osservavano spiare attraverso la finestra colpita incessantemente dal vento. Non ci fu crepuscolo. Appena scomparso il sole, le macchie d’ombra che affioravano da dietro le dune si allargarono, seppellendo la pianura in un unico lago buio. I colori scomparvero. Il rosso e l’oro svanirono a poco a poco nel cielo, lasciandovi un azzurro che si fece sempre più cupo, finché fu notte. Alvin aspettava quel miracoloso momento in cui avrebbero cominciato a tremolare le prime stelle. Erano passate molte settimane da quando era stato lì l’ultima volta. Sapeva che doveva essere avvenuto qualche cambiamento nella volta celeste, ma non era preparato a contemplare i Sette Soli. Non potevano avere altro nome; la frase gli venne spontanea sulle labbra. Formavano un gruppo grazioso, compatto, incredibilmente simmetrico. Sei erano disposti in un’ellisse leggermente schiacciata che, Alvin ne era certo, era in realtà un cerchio perfetto, un pochino inclinato rispetto alla linea dello sguardo. Ogni stella aveva un colore diverso; Alvin distingueva il rosso, l’azzurro, il giallo e il verde, ma non riusciva a individuare le altre tinte. Proprio al centro dell’anello c’era una singola stella bianca gigante, la più luminosa di tutto il firmamento. La costellazione sembrava opera di un gioielliere; era addirittura incredibile, al di là di tutte le leggi del caso, che la Natura potesse avere creato una disposizione così perfetta. A mano a mano che i suoi occhi si abituavano al buio, Alvin riuscì a individuare il grande velo nebbioso che era chiamato un tempo Via Lattea. Si stendeva dallo zenit al limite dell’orizzonte, avvolgendo tra le sue pieghe i Sette Soli. Ora le altre stelle si erano fatte più luminose, e i loro gruppi sparsi aumentavano l’enigma di quella perfetta simmetria. Era come se una misteriosa forza avesse voluto sfidare il disordine naturale dell’universo collocando la propria opera tra le stelle. Dieci volte, non di più, la galassia aveva girato sul proprio asse dal giorno in cui l’uomo aveva messo piede sulla Terra. Per lei non era che un attimo. Tuttavia in questo breve periodo era cambiata completamente, molto più di quanto non le fosse lecito nel naturale corso degli eventi. I grandi soli che una volta, nel vigore della giovinezza, avevano brillato con violenza, erano ormai spenti. Ma Alvin non aveva mai visto l’antico splendore dei cieli, e non poteva sapere di tutte le cose che si erano perse. Il freddo gli serpeggiava nelle ossa. Doveva tornare in città. Si staccò dalla grata e si massaggiò gli arti per ristabilire la circolazione. Di fronte a lui, all’estremità del corridoio, la luce che proveniva da Diaspar era tanto brillante da costringerlo a ripararsi gli occhi con una mano. All’esterno della città esistevano cose quali il giorno e la notte, ma tra le mura c’era il giorno eterno. Con il calare del sole il cielo sopra Diaspar si riempiva di luci, e nessuno poteva mai accorgersi che l’illuminazione naturale era cessata. Avevano eliminato il buio dalla città ancora prima che l’uomo avesse perso il bisogno di dormire. La sola notte che si conoscesse a Diaspar calava sul Parco, quando in certe occasioni lo si voleva trasformare in un luogo di mistero. Alvin attraversò lentamente la sala degli specchi. La sua mente era ancora rivolta alla notte e alle stelle. Si sentiva esaltato e insieme depresso. Pareva non esserci alcuna via per fuggire verso quella sconfinata solitudine, né alcuna ragione logica per tentare. Jeserac gli aveva detto che vivere nel deserto non era possibile, e Alvin gli credeva. Se anche fosse riuscito, un giorno o l’altro, a lasciare Diaspar, tutto si sarebbe risolto in un’avventura. Un’avventura che avrebbe dovuto vivere da solo, e che non lo avrebbe portato in nessun posto. Tuttavia, quell’avventura lo avrebbe forse guarito dalla sua inquietudine. Alvin, che non aveva voglia di ritornare subito nel suo mondo, indugiò un poco nella stanza degli specchi. Si fermò davanti a uno dei più grandi e osservò la scena che si svolgeva all’interno. Il meccanismo che produceva le immagini era controllato dalla sua presenza, e, fino a un certo punto, anche dai suoi pensieri. Gli specchi erano sempre vuoti quando una persona entrava nella stanza, ma si riempivano di movimenti non appena la persona cominciava ad avanzare. Gli parve di trovarsi in una lunga corte, che lui non aveva mai visto ma che probabilmente esisteva in qualche punto di Diaspar. Era incredibilmente affollata. Due uomini gesticolavano su una piattaforma elevata, e di tanto in tanto coloro che stavano attorno facevano energici cenni affermativi. Il silenzio completo aggiungeva fascino alla scena, perché la fantasia si metteva immediatamente al lavoro tentando di immaginare suoni adatti. Cosa stavano discutendo? Alvin cercò di immaginarlo. Forse non era una vera scena del passato, ma soltanto un episodio creato dalla fantasia. Il modo in cui erano disposte le persone, e i loro gesti, facevano pensare che non si trattasse di vita reale. Osservò le facce delle persone, cercando di riconoscere qualcuno. Ma tutti gli erano sconosciuti. Quante variazioni di fisionomia umana potevano esserci? Il numero doveva essere enorme, ma finito, specialmente dal giorno in cui erano state eliminate tutte le variazioni antiestetiche. Le persone nello specchio continuarono la loro silenziosa discussione, ignorando l’immagine di Alvin che si era introdotta tra loro. A volte era difficile credere di non far parte della scena, perché l’illusione era perfetta. Quando uno dei fantasmi si spostava dietro Alvin, spariva, come sarebbe avvenuto nella vita reale… Ma se qualcuno passava di fronte a lui, allora era lui che spariva dall’immagine. Alvin stava per andarsene, quando scorse un individuo stranamente vestito che si teneva in disparte. I suoi movimenti, gli abiti… tutto in lui sembrava fuori posto. Era come Alvin, l’anacronismo della scena. Ma era anche molto di più. Era un essere reale, e stava fissando Alvin con espressione lievemente canzonatoria. 5 Alvin, che nella sua giovane esistenza aveva incontrato al massimo un millesimo degli abitanti di Diaspar, non fu sorpreso di trovarsi di fronte uno sconosciuto. Si sorprese, invece, di incontrare un essere vivente in quella torre solitaria, così vicino alle frontiere del mondo esterno. Girò le spalle al mondo dello specchio e fissò lo sconosciuto, ma prima che Alvin potesse aprir bocca, l’altro gli aveva già rivolto la parola. «Sei Alvin, vero? Quando mi sono accorto che qualcuno frequentava la torre, avrei dovuto immaginare che si trattava di te.» L’osservazione non aveva niente di offensivo; era una semplice constatazione, e Alvin l’accettò come tale. Il giovane non si meravigliò d’essere stato riconosciuto: la sua unicità l’aveva reso noto a tutti i cittadini di Diaspar. «Io sono Khedron» continuò l’altro, come se quel nome spiegasse ogni cosa. «Mi chiamano il Buffone.» Alvin lo guardò interrogativo, e Khedron si strinse nelle spalle con comica rassegnazione. «Caspita, come sono famoso! Be’, tu sei giovane e da quando sei al mondo non ci sono state burle. La tua ignoranza è scusabile.» Khedron aveva un che d’insolito, di piacevole. Alvin non riusciva a ricordare il significato della parola buffone. Gli rammentava vagamente qualcosa, ma non riusciva a ricordare cosa fosse. C’erano infiniti titoli nella complessa struttura sociale della città e ci voleva una vita per impararli tutti. «Vieni qui spesso?» chiese, un po’ geloso. Si era abituato a considerare la Torre di Loranne come una proprietà personale, ed era un po’ seccato all’idea che qualcun altro conoscesse quel posto meraviglioso. Ma, si domandò, Khedron aveva mai avuto il coraggio di osservare il deserto, o le stelle che brillavano nel cielo? «No. Non sono mai venuto qui prima d’ora. Ma mi diverto a scoprire tutto ciò che d’insolito accade in città, ed erano secoli che nessuno visitava più questa torre.» Alvin si domandò come facesse Khedron a sapere delle sue precedenti visite, ma subito abbandonò il pensiero. Diaspar era piena di occhi, di orecchie, e di altri più sottili sensi che tenevano la città informata su quanto avveniva all’interno. Chiunque, sufficientemente interessato, avrebbe potuto trovare il modo di mettersi in collegamento con uno di questi canali. «Ammesso che si tratti di un avvenimento fuori dell’ordinario, come mai ti interessa?» «Mi interessa perché l’originalità è la mia prerogativa. Ti ho notato da molto tempo. Sapevo che un giorno ci saremmo incontrati. Sono unico anch’io, in un certo senso. Non come te, questa non è la mia prima vita. Io sono già entrato e uscito migliaia di volte dalla Sala della Creazione, ma alle origini fui scelto come Buffone, e a Diaspar non rinasce mai più di un Buffone alla volta. La gente pensa che uno sia anche troppo.» Il tono ironico di Khedron sconcertò Alvin. Non era molto educato rivolgere domande personali, ma in fin dei conti era stato Khedron a toccare l’argomento. «Scusa la mia ignoranza, ma chi è e cosa fa un Buffone?» «Mi chiedi «cosa» fa» ribatté Khedron. «Dovrò prima spiegarti «perché» esiste. È una storia lunga, ma forse ti interesserà.» «Tutto mi interessa» assicurò Alvin con calore. «Benissimo. Gli uomini che idearono Diaspar, se sono stati degli uomini, e a volte ne dubito, si trovarono a dover risolvere un problema incredibilmente complesso. Diaspar, come sai, non è soltanto una macchina, è un organismo vivente e immortale. Noi siamo così abituati alla società in cui viviamo da non renderci conto di quanto sarebbe sembrata strana ai nostri progenitori. Il nostro mondo è piccolo e limitato, e non cambia mai se non in alcuni dettagli trascurabili. La sua stabilità è perfetta. Questo mondo è durato più a lungo di tutto il resto della storia dell’umanità, eppure in quella storia sono esistite, o almeno così si crede, infinite migliaia di culture e di civiltà che duravano per un certo tempo e poi tramontavano. Come ha potuto Diaspar raggiungere una così straordinaria stabilità?» Alvin era meravigliato che qualcuno potesse porsi una domanda tanto semplice, e la sua speranza di imparare qualcosa di nuovo si affievolì. «Grazie alle Banche Memoria, si capisce» replicò. «Diaspar si compone sempre della stessa gente, anche se i gruppi si alternano.» Khedron scosse la testa. «Questa è solo una piccola parte della risposta. Pur disponendo degli stessi individui, si possono creare sistemi sociali completamente diversi. Non posso provartelo e non ho un esempio diretto, ma ne sono certissimo. I creatori della città non solo fissarono quale avrebbe dovuto essere la popolazione, ma fissarono anche le leggi che ne avrebbero regolato la condotta. Noi non ci rendiamo conto dell’esistenza di queste leggi, eppure obbediamo a esse. Diaspar è una cultura congelata, che può cambiare solo entro stretti limiti. Le Banche Memoria conservano molte altre cose oltre gli schemi dei nostri corpi e delle nostre responsabilità. Conservano l’immagine stessa della città, mantenendone rigido ogni atomo a dispetto di qualsiasi cambiamento che il Tempo potrebbe portare. Guarda questo pavimento! Esiste da milioni di anni ed è stato calpestato da innumerevoli piedi. Mostra forse qualche segno di vecchiaia? La materia, per quanto dura, avrebbe dovuto consumarsi già da moltissimo tempo. Ma finché esisterà la forza che alimenta le Banche Memoria e finché le matrici conservate nelle Banche potranno esercitare un controllo sugli schemi della città, la struttura fisica di Diaspar non cambierà mai.» «Ci sono stati dei cambiamenti» protestò Alvin. «Da quando esiste la città molti edifici sono stati abbattuti e altri ne sono sorti al loro posto.» «Certo, ma questo si è fatto cancellando le informazioni conservate nelle Banche Memoria e sostituendole con altre nuove. Del resto, ho voluto solo indicarti come la città si presenti fisicamente. Allo stesso modo in Diaspar altre macchine preservano il nostro sistema sociale. Ecco il punto che tengo a dimostrare. Queste macchine controllano ogni cambiamento e lo correggono prima che diventi troppo grande. In che modo? Forse scegliendo quelli che escono dalla Sala della Creazione, forse modificando gli schemi della nostra personalità. Non posso saperlo. Pensiamo di avere una libera volontà, ma possiamo esserne certi? «In ogni caso, il problema è stato risolto. Diaspar è sopravvissuta ed è passata indenne attraverso il Tempo, come una grande nave il cui carico è composto da ciò che rimane dell’umanità. È un risultato sorprendente dell’ingegneria sociale. Se poi valesse la pena di raggiungerlo è un altro paio di maniche. «La stabilità, però, non è tutto. Conduce troppo facilmente al ristagno e quindi alla decadenza. I progettisti della città si sforzarono di evitare l’inconveniente, ma questi edifici deserti fanno sospettare che non ci siano pienamente riusciti. Io, Khedron, sono una di queste precauzioni. Una piccolissima, forse, anche se a me piace credere il contrario.» «E quale sarebbe il tuo ruolo?» chiese Alvin, che navigava ancora nel buio e cominciava a esasperarsi. «Diciamo che io, Khedron, devo creare una quantità già stabilita di disordine nella città. Spiegare le mie operazioni sarebbe come distruggere l’effetto. Giudica dunque dai miei atti, anche se sono pochi, piuttosto che dalle mie parole, anche se sono molte.» Alvin non si era mai imbattuto in un tipo come Khedron. Il Buffone aveva una spiccata personalità, un carattere che superava di parecchio il generale livello di uniformità tipico a Diaspar. Per quanto sembrasse difficile scoprire con esattezza quali erano i suoi compiti, come li portasse a termine, non erano queste le cose importanti. Quel che più importava, Alvin lo sentiva, era l’aver trovato una persona con cui poter parlare… quando gliene lasciava il tempo… e che gli avrebbe potuto dare una risposta ai tanti quesiti che lo tormentavano da sempre. Ripercorsero insieme i corridoi della Torre di Loranne fino alla strada mobile. Solo quando raggiunsero il centro Alvin ricordò che Khedron non gli aveva nemmeno chiesto perché fosse andato nella Torre. Sospettò che Khedron sapesse già tutto e che fosse incuriosito ma non sorpreso. Qualcosa gli diceva che Khedron non si meravigliava mai di niente. Si scambiarono i rispettivi numeri di matricola, per potersi mettere in contatto qualora l’avessero desiderato. Alvin sperava di rivedere presto il Buffone, anche se sospettava che quella compagnia, a lungo andare, avrebbe rischiato di diventare un peso. Prima del prossimo appuntamento, però, voleva scoprire tutto ciò che i suoi amici, Jeserac in particolare, potevano dirgli sul conto di Khedron. «Al prossimo incontro» disse Khedron, e svanì. Alvin provò un senso di irritazione. Quando si incontra qualcuno con la proiezione della propria immagine, e non per presenza fisica, è buona regola farlo presente fin dall’inizio della conversazione. A volte, ignorarlo può mettere l’altro in uno svantaggio considerevole. Forse Khedron se n’era rimasto tranquillamente a casa sua per tutto il tempo… ovunque fosse la sua casa. Il numero che il Buffone aveva lasciato ad Alvin dava la possibilità di raggiungerlo con un messaggio in qualsiasi momento, ma non rivelava dove abitasse. Questo però era normale. Si poteva dare il numero di codice con estrema facilità, ma il vero indirizzo lo si confidava soltanto agli amici più intimi. Mentre tornava in città, Alvin considerò tutto quanto Khedron gli aveva detto su Diaspar e sull’organizzazione sociale della città. Era strano che non avesse mai incontrato nessun altro scontento di quel modello di vita. Diaspar e i suoi abitanti erano stati designati quale parte di un piano prestabilito. Città e cittadino formavano una simbiosi perfetta e, durante la loro vita lunghissima, gli abitanti della città non avrebbero avuto modo di stancarsi. Per quanto il loro mondo fosse ristretto, rispetto a quello delle epoche precedenti, la complessità di questo mondo aveva un fascino irresistibile, e offriva una quantità di meraviglie e di tesori che andava oltre l’immaginazione. A Diaspar l’Uomo aveva radunato tutti i frutti del suo genio, tutto ciò che era stato possibile salvare dalle rovine del passato. Tutte le città che erano esistite un tempo, così si diceva, avevano dato qualcosa a Diaspar. Prima che venissero gli Invasori, il nome della loro città era conosciuto in tutti i mondi che poi l’uomo aveva perso. Nella costruzione di Diaspar erano state impegnate tutte le tecniche e tutta l’arte dell’Impero: quando i giorni della grandezza stavano per giungere al termine, gli uomini di genio avevano rimodellato la città fornendola di tutte le macchine che l’avrebbero resa immortale. Anche se dimenticata, Diaspar sarebbe vissuta, per portare i discendenti dell’Uomo in salvo lungo il fiume del Tempo. Non era rimasto loro altro che sopravvivere, e se ne accontentavano. Milioni di cose occupavano le loro vite tra il momento in cui uscivano, quasi completamente adulti, dalla Sala della Creazione, a quando, appena invecchiati nel fisico, tornavano alle Banche Memoria della città. In un mondo dove uomini e donne possedevano un’intelligenza che un tempo era retaggio dei geni, non esisteva il pericolo della noia. La gioia di conversare e discutere, le complicate formalità della vita sociale, bastavano da sole a tenerli occupati per gran parte della vita. Inoltre c’erano i grandi dibattiti pubblici, dove tutta la popolazione interveniva per ascoltare le menti più acute in uno scontro di idee, o per cercare di raggiungere le più alte vette della filosofia. Nessuno, uomo o donna, mancava di qualche interesse intellettuale. Eriston, per esempio, passava gran parte del suo tempo in lunghi soliloqui con il Computer Centrale. L’apparecchio, che virtualmente governava la città, era in grado di condurre conversazioni simultanee con tutti coloro che volevano cimentarsi in uno scontro verbale con lui. Da trecento anni Eriston cercava di costruire paradossi logici che la macchina non fosse in grado di risolvere. Ma non sperava di riuscirci, nonostante tutto il tempo di vita che aveva a disposizione. Gli interessi di Etania erano di natura più estetica. Disegnava e costruiva, con l’aiuto del generatore di materia, schemi tridimensionali intrecciati, di tanta bellezza e complessità da essere addirittura esperimenti estremamente avanzati di topologia. Il suo lavoro poteva essere visto in tutta Diaspar, e alcuni suoi schemi erano stati incorporati nel pavimento della gran sala della coreografia, dove venivano usati come base per creare nuovi balletti e nuovi passi di danza. Simili occupazioni possono sembrare aride a chi non possieda l’intelligenza per apprezzare tali raffinatezze. Comunque, in tutta Diaspar, non c’era nessuno che non fosse in grado di capire cosa stessero facendo Eriston ed Etania, e che non nutrisse interessi analoghi. L’atletica e gli sport in genere, inclusi quelli resi possibili dal controllo della gravità, risultavano piacevoli soltanto nei primi secoli della giovinezza. Per le avventure e gli esercizi di immaginazione, le saghe provvedevano tutto quanto si poteva desiderare. Queste saghe erano l’inevitabile prodotto dello sforzo per ottenere il realismo, sforzo cominciato quando l’uomo aveva scoperto come riprodurre le immagini in movimento e registrare i suoni, e finito con l’uso delle tecniche perfezionatissime per creare scene che, di vita reale o immaginaria, creavano sempre l’illusione della realtà, perché tutte le impressioni venivano convogliate direttamente nel cervello, e qualsiasi sensazione suscettibile di generare conflitto veniva dissolta. Lo spettatore, per tutta la durata dell’avventura, veniva a trovarsi completamente fuori della realtà: era come se vivesse in un sogno, ma con la convinzione di essere sveglio. In un mondo di ordine e di stabilità, dove tutto era rimasto immutato per migliaia di milioni d’anni, forse non era sorprendente trovare tanto interesse per i giochi d’azzardo. L’umanità era sempre stata affascinata dal mistero dei dadi che rotolano, dalle carte scoperte a una a una, dal girare vorticoso della roulette. Vero che questi interessi basati soltanto sull’avidità davano un genere di emozione che non poteva trovare posto in un mondo dove tutti possedevano tutto ciò di cui avevano ragionevolmente bisogno. Tuttavia, pur scomparso questo motivo d’interesse, il fascino puramente intellettuale del gioco delle probabilità seduceva ancora i cervelli più sofisticati. Filosofi e giocatori potevano trarre il massimo piacere da macchine che agivano in modo del tutto casuale, creando eventi di cui era impossibile predire gli esiti anche avendo a disposizione tutte le informazioni possibili. Poi restavano sempre, per tutti gli uomini, i mondi collegati dell’Amore e dell’Arte. Collegati, perché amore senz’arte è solo soddisfazione di un desiderio, e l’arte non può essere apprezzata senza il complemento dell’amore. Gli uomini avevano cercato la bellezza in molte forme: in sequenze di suoni, in linee sulla carta, nelle superfici solide, nei movimenti del corpo umano, nei colori disposti nello spazio. Tutto questo esisteva ancora a Diaspar e altro era stato aggiunto nel corso dei secoli. E nessuno aveva la certezza che tutte le possibilità offerte dall’arte fossero state sfruttate, o che esistesse, nell’arte, qualche significato oltre quelli assegnati dalla mente dell’Uomo. E lo stesso valeva per l’amore. 6 Jeserac sedeva immobile in mezzo a un turbine di numeri. Il primo migliaio di numeri primi, espressi nella scala binaria usata per tutte le operazione aritmetiche da quando erano stati inventati i computer elettronici, marciavano in ordine davanti a lui. Infiniti ranghi di 1 e di 0 sfilavano in parata di fronte agli occhi di Jeserac. I numeri primi possedevano un mistero che aveva sempre affascinato l’Uomo, e ancora ne sollecitavano l’immaginazione. Jeserac non era un matematico, a volte però gli piaceva pensare di esserlo. Poteva fare soltanto delle ricerche nell’infinita serie di numeri primi e scoprire le relazioni e le regole che uomini più esperti incorporavano nelle leggi generali. Poteva scoprire come si comportavano i numeri, ma non sapeva spiegarsene il perché. Provava piacere nel procedere in mezzo alla giungla aritmetica, e a volte scopriva delle meraviglie che anche gli esploratori più esperti non avevano notato. Impostò la matrice di tutti i possibili numeri interi e ordinò al computer di disporre lungo quella superficie i numeri primi, come perline da sistemare ai punti di intersezione di una rete. L’aveva già fatto centinaia di volte senza mai ricavarne niente di nuovo, ma lo affascinava il modo in cui i numeri presi in esame si sparpagliavano, apparentemente senza regole, lungo lo spettro dei numeri interi. La legge delle distribuzioni era già stata scoperta, ma lui sperava sempre di scoprire qualcosa di più. Quando venne interrotto non poté prendersela con nessuno: se avesse voluto rimanere indisturbato avrebbe dovuto chiudere il circuito di chiamata. Appena il leggero suono gli giunse all’orecchio, tutta la parete di numeri scomparve, e Jeserac tornò nel mondo della realtà. Riconobbe Khedron all’istante, e non fu entusiasta della visita. Jeserac ci teneva alla sua vita tranquilla e ordinata, e Khedron rappresentava l’imprevisto, la novità. Tuttavia fece buona accoglienza al visitatore e cancellò ogni traccia d’irritazione Quando due persone di Diaspar si incontrano, per la prima volta o per la centesima, era uso, prima di entrare nel vivo della discussione, passare un’ora o poco meno nello scambio di cortesie. Khedron invece non perse molto tempo in convenevoli, e venne bruscamente al sodo. «Sono venuto per parlare di Alvin» disse, sbrigativo. «Voi siete il tutore, vero?» «Infatti» rispose Jeserac. «Lo vedo ancora parecchie volte la settimana, e tutte le volte che lui desidera.» «È un allievo sveglio?» Jeserac rimase un attimo soprappensiero. Era difficile rispondere a quella domanda. Le relazioni tra pupillo e tutore erano cosa di estrema importanza e, infatti, stavano alla base della vita di Diaspar. In media entravano in città diecimila nuove menti all’anno, i cui precedenti ricordi erano ancora latenti. Per i primi venti anni di vita tutto quanto li circondava sarebbe risultato nuovo e strano. Era necessario insegnare loro come usare la miriade di macchine e apparecchi indispensabili alla vita di ogni giorno, e come comportarsi nella società più complessa che l’Uomo avesse mai edificata. Parte delle istruzioni venivano impartite dalla coppia scelta per fare da genitori al nuovo cittadino. L’assegnazione veniva fatta a sorte, e il compito dei genitori non era mai troppo gravoso. Eriston ed Etania non avevano dedicato che un terzo del loro tempo all’educazione di Alvin, e avevano fatto tutto il loro dovere. I compiti di Jeserac riguardavano gli aspetti più formali dell’insegnamento. I genitori dovevano istruirlo su come comportarsi nella società e presentarlo a una cerchia sempre più vasta di amici. A loro era affidata la responsabilità del carattere di Alvin. Jeserac doveva occuparsi della mente. «Non è facile rispondere alla vostra domanda. Alvin ha un’intelligenza più che normale, ma resta indifferente di fronte a molte cose che dovrebbero riguardarlo. Mostra al contrario una morbosa curiosità per alcuni argomenti che di solito non vengono discussi.» «Per il mondo esterno a Diaspar, per esempio?» «Sì… ma come lo sapete?» Khedron esitò un attimo, chiedendosi fino a che punto poteva sbottonarsi con Jeserac. Il tutore era un’ottima persona, ma era legato dalle stesse inibizioni di cui soffrivano tutti a Diaspar. Tutti, meno Alvin. «Intuizione» fece in tono evasivo. Jeserac si accomodò meglio nella poltrona che aveva materializzato. La situazione era interessante, e il tutore desiderava analizzarla a fondo. Ma non avrebbe saputo molto da quel colloquio, a meno che Khedron non volesse collaborare. Avrebbe dovuto immaginarselo che Alvin un giorno o l’altro avrebbe incontrato il Buffone. Le conseguenze di questo incontro erano imprevedibili. Khedron era l’unica persona in tutta la città che potesse venir definita eccentrica, anche se quell’eccentricità era stata predisposta dai progettisti di Diaspar. Molto tempo prima si era scoperto che senza crimini o disordini, l’Utopia sarebbe ben presto diventata terribilmente monotona. D’altra parte non era possibile garantire che il crimine restasse sempre entro limiti desiderabili per la sicurezza sociale, e se veniva controllato e approvato cessava di essere un crimine. La carica di Buffone rappresentava la soluzione, a prima vista ingenua e tuttavia profondamente sottile, che i creatori della città avevano escogitato. In tutta Diaspar non erano più di duecento i caratteri adatti a ricoprire questa carica tutta speciale. Costoro godevano di privilegi che li proteggevano dalle conseguenze delle loro azioni, benché a volte qualche Buffone avesse oltrepassato i limiti e fosse stato punito con l’unica pena che Diaspar poteva imporre: quella di essere esiliato nel futuro prima che l’incarnazione in corso fosse giunta al termine. In rare e imprevedibili occasioni, il Buffone metteva improvvisamente sottosopra la città combinando uno scherzo che a volte risultava estremamente innocuo, ma che poteva rivelarsi addirittura un attacco deliberato alle opinioni o ai modi di vivere del momento. Il termine «Buffone» aveva radici nel lontanissimo passato; infatti un tempo, quando esistevano ancora i re e le corti, c’erano stati uomini con incombenze analoghe, e avevano goduto della stessa libertà di azione. «Sarà bene» rispose Jeserac «parlarci con la massima sincerità. Entrambi sappiamo che Alvin è Unico, che non ha mai avuto altre vite precedenti. Forse intuite meglio di me ciò che questo significa. Nulla di ciò che accade in città è realmente imprevisto, quindi immagino che la sua nascita abbia uno scopo. Se Alvin riuscirà a raggiungere questo scopo, qualunque esso sia, non lo so. Tanto meno so se ciò sia bene o sia male. Non riesco nemmeno a immaginare quale sia questo scopo.» «Se riguardasse qualcosa all’esterno della città?» Jeserac sorrise; il Buffone stava tentando uno dei suoi scherzi. «Ho detto ad Alvin come stanno le cose. Sa benissimo che fuori di Diaspar non c’è che deserto. Portatelo là, se potete: forsevoiconoscete qualche uscita segreta. Quando Alvin vedrà la realtà, gli passeranno i capricci.» «Deve averla già vista» mormorò Khedron. Jeserac non udì. «Non credo che Alvin sia felice» continuò il tutore. «Non è attaccato a nulla, e sarà difficile che possa trovare interesse in qualcosa finché soffrirà di questa forma di ossessione. D’altra parte, è molto giovane. Può darsi che superi questa fase e finisca con l’acclimatarsi a Diaspar.» Jeserac parlava più che altro per rassicurare se stesso; Khedron si chiese se fosse veramente convinto di ciò che stava dicendo. «Ditemi, Jeserac» l’interruppe bruscamente «Alvin lo sa di non essere il primo Unico?» Il tutore lo guardò storto. «Dunque lo sapete. C’era da aspettarselo» mormorò. «Quanti Unici sono esistiti nella storia di Diaspar? Una decina?» «Quattordici» fece Khedron senza esitare. «Senza contare Alvin.» «Siete meglio informato di me» osservò l’altro seccamente. «Sapreste anche dirmi cosa è accaduto agli altri Unici?» «Sono scomparsi.» «Grazie, lo sapevo già. Ecco perché ho detto ad Alvin il meno possibile sui suoi predecessori; apprendere queste cose potrebbe turbarlo anche di più. Posso contare sulla vostra cooperazione?» «Per il momento sì. Voglio studiare meglio Alvin. I misteri mi attirano, e a Diaspar non ce ne sono molti. E poi, ho il sospetto che il Destino stia preparando una burla a confronto della quale tutti i miei sforzi sarebbero ben miseri. Se è così, voglio essere presente nel momento in cui si compie.» «Vi divertite a parlare per enigmi» protestò Jeserac. «Quali sono in realtà le vostre previsioni?» «Le mie ipotesi valgono quanto le vostre. Ma di una cosa sono certo: né voi né io né chiunque altro a Diaspar potrà fermare Alvin quando avrà deciso ciò che vorrà fare. Scommetto che vivremo alcuni secoli alquanto interessanti.» Jeserac rimase seduto, immobile, completamente dimentico della sua matematica, anche dopo la scomparsa del Buffone. Aveva uno strano presentimento, cosa che non gli era mai capitata. Per un attimo ebbe la tentazione di chiedere udienza al Consiglio, ma forse stava esagerando e avrebbe provocato molto rumore per nulla. Forse tutta la faccenda era solo una complicata e oscura macchinazione di Khedron, anche se lui non riusciva a comprendere quale ne fosse lo scopo. Ripensò a ciò che si erano detti, esaminando il problema da ogni possibile punto di vista. E dopo un’ora circa prese una decisione che gli era caratteristica: avrebbe aspettato lo svolgersi degli avvenimenti. Alvin, senza perdere tempo, s’informò sul conto di Khedron; e Jeserac fu come al solito la sua principale fonte di informazione. Il vecchio tutore gli diede un accurato resoconto del colloquio avuto col Buffone, e aggiunse quel poco che sapeva delle abitudini di Khedron. Per quanto era possibile in una città come Diaspar, Khedron conduceva una vita ritiratissima: nessuno sapeva dove abitasse il Buffone e come vivesse. L’ultimo scherzo di Khedron, quello di paralizzare totalmente le strade mobili, si era rivelato abbastanza puerile. Quello scherzo risaliva a cinquant’anni prima. Un secolo prima aveva scatenato un mostruoso drago che si era messo a vagare per la città divorando tutte le sculture esistenti di un artista molto noto in quel periodo. L’artista stesso, giustificabilmente allarmato per quella particolare dieta del mostro, era andato a nascondersi, e non era uscito dal suo nascondiglio fino al giorno in cui il mostro non era scomparso nello stesso misterioso modo in cui aveva fatto la sua apparizione. Una cosa era certa: Khedron doveva avere una profonda conoscenza delle macchine e delle forze che governavano la città, e sapeva farsi ubbidire da esse più di chiunque altro. Naturalmente doveva esistere un controllo superiore che impediva a Buffoni troppo ambiziosi di combinare danni irreparabili alla complessa struttura di Diaspar. Alvin prese nota di questi fatti, ma non tentò di mettersi in contatto con Khedron. C’erano parecchie domande che avrebbe voluto fare al Buffone, ma un caparbio senso di indipendenza, qualità, forse, della sua natura unica, lo spingeva a scoprire da solo quanto più poteva. Si era imbarcato in un progetto che lo avrebbe probabilmente occupato per anni, ma, fintanto che sentiva di avvicinarsi alla meta, era felice. Come l’esploratore che studia le vecchie carte di una terra sconosciuta, Alvin aveva cominciato l’esplorazione sistematica di Diaspar. Passò intere settimane a visitare le torri solitarie ai margini della città, nella speranza di trovare la via che portava al mondo esterno. Nel corso di quelle ispezioni scoprì almeno una dozzina di aperture che guardavano sul deserto. Le aperture, però, erano tutte sbarrate, e del resto lo strapiombo di oltre un chilometro era un ostacolo più che sufficiente. Non trovò uscite, per quanto avesse esplorato almeno mille corridoi e diecimila celle vuote. Tutte queste costruzioni erano in perfetto stato, fatto che gli abitanti di Diaspar consideravano come parte del normale ordine delle cose. Ogni tanto incontrava qualche robot intento al suo giro di guardia, e non mancava mai di interrogarlo. Ma non apprese niente: quelle macchine non erano state progettate per rispondere al linguaggio e ai pensieri umani. Si rendevano conto della sua presenza, e si spostavano cortesemente da una parte per lasciarlo passare, ma rifiutavano di iniziare una qualsiasi conversazione. C’erano volte in cui Alvin non vedeva altri esseri umani per giorni interi. Quando aveva fame entrava in uno dei compartimenti alimentari e ordinava il pasto. Lì c’erano macchine miracolose che si risvegliavano, forse, dopo secoli di inoperosità. I dati inseriti nella loro memoria meccanica, richiamati in efficienza dai comandi, davano il via a tutta una serie di operazioni, così che un pasto preparato da un cuoco cento milioni di anni prima poteva ancora essere portato all’esistenza per deliziare il palato o semplicemente per soddisfare l’appetito. La solitudine di quel mondo deserto, quella conchiglia vuota che circondava il cuore vivo della città, non riuscì a deprimerlo. Era abituato a stare solo, anche quando si trovava in mezzo a coloro che chiamava amici. Quella appassionante esplorazione assorbiva tutte le sue energie e i suoi interessi, e per il momento aveva dimenticato il mistero della sua eredità, l’anomalia che lo rendeva diverso dai suoi coetanei. Aveva esplorato meno di un centesimo della cinta esterna di Diaspar quando si rese conto che stava sprecando il suo tempo. Non era l’impazienza a suggerirgli quella conclusione, ma il più elementare buon senso. Ci fosse stata qualche speranza, sarebbe stato pronto a continuare le ricerche, anche se avesse dovuto spenderci tutto il resto della sua vita. Quel che aveva visto era sufficiente per fargli capire che, se anche esisteva un’uscita dalla città, trovarla doveva essere un’impresa pazzesca. Se non voleva correre il rischio di sprecare qualche secolo in ricerche infruttuose, doveva decidersi a chiedere consiglio ai più anziani. Jeserac gli aveva già detto di non conoscere alcuna via d’uscita e di dubitare che ne esistesse qualcuna. Aveva interrogato le macchine informative. Queste avevano frugato invano nella loro infinita memoria. Avevano saputo dirgli ogni particolare della storia della città, fino alle origini della storia ricordata; non erano però state in grado di rispondere alla semplice domanda di Alvin, o almeno qualche potenza superiore aveva proibito loro di rispondere. Bisognava assolutamente parlare di nuovo con Khedron. 7 «Sapevo che prima o poi mi avresti cercato» sorrise Khedron. Il tono irritò Alvin; era seccante che qualcuno potesse predire il suo comportamento con tanta precisione. Si chiese se il Buffone avesse osservato tutte le sue vane perlustrazioni e conoscesse tutte le mosse che aveva fatto. «Cerco una via per uscire dalla città» disse senza preamboli. «Cideveessere, e forse tu puoi aiutarmi a trovarla.» Khedron restò un momento in silenzio. Faceva ancora in tempo, se lo desiderava, a voltare le spalle al cammino che gli si stendeva dinanzi e conduceva a un futuro che andava oltre tutte le sue possibilità di immaginazione. Nessun altro avrebbe esitato. Nessun altro uomo della città, se anche avesse potuto, avrebbe osato disturbare i fantasmi di un’epoca morta da milioni di secoli. Forse non c’era pericolo, forse niente avrebbe potuto alterare la perpetua immutabilità di Diaspar. Ma se c’era il rischio che qualcosa di strano e di nuovo avvenisse nel loro mondo, quella poteva essere l’ultima possibilità per scongiurare il pericolo. Khedron era soddisfatto di come stavano le cose. Certo poteva sovvertire l’ordine di tanto in tanto, ma solo un poco. Era un critico, non un rivoluzionario. Mirava a creare qualche mulinello nella placida corrente del tempo, non a deviarne il corso. Lo spirito avventuroso era stato eliminato da lui come da qualsiasi altro cittadino di Diaspar. Tuttavia, il Buffone possedeva ancora una scintilla di quella curiosità che un tempo era stata la dote suprema dell’Uomo, ed era ancora preparato a correre un rischio. Osservò Alvin, e cercò di ricordare la sua propria giovinezza. E tutti i sogni che aveva fatto cinquecento anni prima. Ogni e qualsiasi momento del suo passato era ancora perfettamente chiaro nella sua memoria. Quella vita, e tutte le altre precedenti, erano lì tutte allineate davanti ai suoi occhi, come palline infilate in una corda. Poteva riesaminarle a suo piacimento. Le primissime vite gli sembravano ormai molto strane. Lo schema-base poteva essere identico, ma il peso delle esperienze lo separava da queste vite per sempre. Volendo, il giorno in cui fosse rientrato nella Sala della Creazione per dormire fino a quando la Città non lo avesse richiamato, avrebbe potuto cancellare dalla mente il ricordo di quelle primissime incarnazioni. Ma sarebbe stata una specie di morte, e lui non era ancora pronto per una cosa del genere. Voleva raccogliere tutto ciò che la vita poteva offrire; come un nautilus, voleva pazientemente aggiungere nuove celle alla spirale della conchiglia in lenta espansione. In gioventù non era stato molto diverso dai suoi compagni. Soltanto quando aveva raggiunto l’età dei ricordi latenti gli era tornato alla mente il ruolo cui era stato destinato molto tempo prima. A volte provava risentimento verso l’intelligenza che aveva concepito Diaspar e che poteva ancora, dopo tutte le epoche trascorse, farlo muovere come una marionetta sul palcoscenico. Ora, forse, si presentava la possibilità di prendersi la vendetta. Era comparso un nuovo attore che poteva far calare per sempre il sipario su una commedia di cui erano già stati rappresentati troppi atti. La simpatia di qualcuno che doveva sentirsi ancora più solo di lui, la noia prodotta da millenni di monotonia e ripetizioni, infine un maligno senso dell’umorismo spinsero Khedron all’azione. «Forse posso aiutarti» disse ad Alvin «forse no. Non voglio darti speranze inutili. Ci troviamo tra mezz’ora nell’intersezione del Raggio 3 con il Cerchio 2. Se proprio non potrò far altro, ti prometto fin d’ora un viaggio molto interessante.» Alvin arrivò all’appuntamento con dieci minuti di anticipo. Aspettò, impaziente, mentre la strada mobile, a pochi passi da lui, continuava la sua eterna corsa trasportando la popolazione placida e soddisfatta a Diaspar, intenta nelle sue inutili occupazioni. Finalmente scorse in lontananza l’alta figura di Khedron, e un attimo dopo si trovò per la prima volta alla presenza fisica del Buffone. Stavolta non era un’immagine proiettata; si strinsero la mano nell’antichissimo saluto. Il Buffone sedette su una delle balaustre di marmo e fissò Alvin, con intensa curiosità. «Chissà se ti rendi conto di quello che chiedi» disse. «Seiveramenteconvinto che oseresti lasciare la città, ammesso che tu riesca a trovare la maniera di uscire?» «Certissimo» replicò Alvin spavaldo, ma Khedron colse in quel tono una sfumatura di incertezza. «Allora lascia che ti dica qualcosa che forse non sai. Vedi quelle due torri?» Khedron indicò le due costruzioni gemelle del Consiglio e della Centrale Energia che si ergevano una di fronte all’altra, separate da uno strapiombo di cinquecento metri. «Supponi per un attimo di gettare un piano perfettamente stabile tra le due torri, un piano non più largo di due spanne. Te la sentiresti di camminarci sopra?» Alvin esitò. «Non so» rispose. «Non vorrei neppure tentare.» «Sono certo che non riusciresti a farlo. Ti verrebbe il capogiro e cadresti di sotto dopo pochi passi. Eppure, se lo stesso piano fosse sistemato poco al di sopra del livello dei suolo, ci cammineresti sopra con la massima disinvoltura.» «E questo cosa prova?» «Un fatto semplicissimo che sto cercando di stabilire. Nei due esperimenti che ti ho descritto, il piano sarebbe esattamente lo stesso. Uno di quei robot che a volte si incontrano sarebbe in grado di attraversarlo comunque.Noinon possiamo, perché abbiamo paura dell’altezza. Sarà anche un fatto illogico, ma è troppo importante per ignorarlo. Esiste dentro di noi, lo portiamo in noi fin dalla nascita. Allo stesso modo, abbiamo paura dello spazio. Mostra a qualsiasi individuo di Diaspar una via che conduca fuori città, una strada identica a questa che abbiamo davanti, e lui non se la sentirà di percorrerla. Non potrebbe fare a meno di voltarle le spalle, come tu volteresti le spalle inorridito trovandoti di fronte a un abisso di cinquecento metri.» «Ma perché?» chiese Alvin. «Ci dev’essere stata un’epoca…» «Lo so, lo so. Un tempo gli uomini non solo giravano per il mondo, ma avevano addirittura raggiunto le stelle. Qualcosa li ha cambiati e ha dato loro questo istinto che ora portano in sé. Tu credi di essere l’unico a non averlo. Vedremo. Ora ti porterò nella Torre del Consiglio.» La Torre era una delle costruzioni più grandi della città ed era quasi completamente occupata dalle macchine che regolavano l’esistenza di Diaspar. Quasi in cima c’era la saia dove in rare occasioni il Consiglio si riuniva per discutere qualche questione importante. L’ampio ingresso li inghiottì e Khedron avanzò nel silenzioso edificio. Alvin non aveva mai visitato la Torre: nessun regolamento lo vietava, ma Alvin, come tutti, portava un rispetto quasi religioso per il luogo. In un mondo senza divinità, la Torre del Consiglio era la casa che più dava l’idea di un tempio. Khedron condusse Alvin per corridoi e rampe che, evidentemente, erano state fatte per essere percorse a zigzag. Formavano angoli così acuti che sarebbe stato impossibile reggersi in piedi senza l’opportuno controllo del campo gravitazionale. Infine giunsero a una porta chiusa che si spalancò silenziosamente davanti a loro per richiudersi subito alle loro spalle. Si trovarono ben presto davanti a un’altra porta. Khedron vi si fermò davanti, e restò immobile ad aspettare. Qualche secondo dopo, una voce chiese: «Come vi chiamate?». «Sono Khedron, il Buffone. Il mio compagno è Alvin.» «Perché volete entrare?» «Semplice curiosità.» Tra la meraviglia di Alvin, la porta si aprì immediatamente. Il giovane sapeva per esperienza che quando si dava alle macchine una risposta scherzosa si finiva sempre col generare confusione e bisognava ricominciare da capo. La macchina che aveva interrogato Khedron doveva essere molto complicata, molto in su nella gerarchia del Computer Centrale. Non incontrarono altri ostacoli, ma Alvin sospettò che avessero superato diversi esami senza rendersene conto. Un breve corridoio immetteva in una vastissima sala circolare. Il pavimento della sala restava un poco più basso. Per un attimo, Alvin restò paralizzato dalla sorpresa. Ai suoi piedi si stendeva tutta Diaspar in miniatura. Gli edifici più alti gli arrivavano circa alla spalla. Il giovane rimase per un bel pezzo assorto in contemplazione, e solo quando riuscì a scuotersi dedicò un po’ d’attenzione al resto della stanza. Le pareti erano coperte da uno schema in bianco e nero minutamente dettagliato. La decorazione era assolutamente irregolare, e muovendo in fretta gli occhi si aveva l’impressione che tutte le pareti si mettessero in movimento, senza mai cambiare disegno. Tutt’attorno, a intervalli regolari, c’erano macchine a tastiera, ciascuna munita di un monitor e di un sedile per l’operatore. Khedron lasciò che Alvin osservasse bene ogni cosa, poi indicò la città in miniatura. «Sai cos’è quella?» chiese. Alvin fu tentato di rispondere che si trattava di un modello, ma la risposta gli parve troppo semplice per essere esatta. Si limitò a scuotere il capo e guardò Khedron in attesa di spiegazioni. «Ricorderai» fece il Buffone «che una volta ti dissi come veniva tenuta in vita la città, come le Banche Memoria ne mantengano lo schema cristallizzato per sempre. Le Banche sono qui attorno a noi, con la loro sterminata ricchezza di informazioni, e determinano la città come si presenta oggi. Forze da noi dimenticate legano ogni atomo di Diaspar alle matrici racchiuse in queste pareti.» Agitò la mano verso il simulacro perfetto e minuziosamente dettagliato che giaceva davanti a loro. «Questo non è un modello; in realtà non esiste. Non è che l’immagine proiettata dello schema nelle Banche Memoria, ed ecco perché è assolutamente identico alla città stessa. Le macchine che vedi qui attorno sono in grado di presentare sui loro schermi l’ingrandimento di qualsiasi punto o particolare di Diaspar. Vengono usate quando si desidera portare qualche cambiamento allo schema, anche se da parecchio tempo non ne vengono più fatti. Se vuoi sapere esattamente com’è fatta Diaspar, puoi scoprire più cose trascorrendo qualche giorno in questa stanza che impiegando la vita a esplorare la città di persona.» «È meraviglioso» disse Alvin. «Quante persone conoscono la sua esistenza?» «Oh, parecchie, ma se ne ricordano di rado. Il Consiglio si riunisce in questa sala, di tanto in tanto. Se non sono tutti presenti non è possibile apportare modifiche alla città. E ogni modifica viene apportata soltanto se il Computer Centrale l’approva. Dubito che questa sala venga visitata più di due o tre volte all’anno.» Alvin pensò di chiedere come mai Khedron avesse libero accesso alla sala, poi ricordò che per portare a termine gli scherzi più elaborati era necessaria una perfetta conoscenza della città, e una assoluta libertà di movimento; quindi, entrare in qualsiasi luogo doveva essere un privilegio dei Buffoni. Se voleva conoscere tutti i segreti di Diaspar, lui non avrebbe potuto scegliere guida migliore. «Può darsi che quel che cerchi non esista, ma se c’è lo scoprirai più presto qui che altrove. Lascia che ti spieghi il funzionamento dei comandi.» Nell’ora seguente Alvin sedette davanti a uno degli schermi, addestrandosi a usare tasti e manopole. Si poteva scegliere a piacere qualsiasi particolare della città ed esaminarlo a qualsiasi ingrandimento. Strade, torri, mura e strade mobili passavano sullo schermo seguendo i movimenti di Alvin sui comandi. Alvin si sentiva quasi uno spirito onnipresente, capace di muoversi senza sforzo per tutta la città senza che alcun impedimento materiale potesse trattenerlo o ostacolarlo. In effetti, tuttavia, non stava esaminando Diaspar. Stava muovendosi attraverso le celle delle Banche Memoria, osservando l’immagine pura della città, quell’immagine che aveva avuto il potere di conservare la vera Diaspar immutata e inalterata dal tempo per milioni di anni. Poteva vedere soltanto la parte fissa della città, fissa e permanente. La gente che camminava per le strade non faceva parte dell’immagine registrata. Ma questo non aveva importanza. Il suo interesse era rivolto alla creazione di pietra e metallo che lo teneva rinchiuso, non alle persone che condividevano, anche se felici di farlo, la sua prigionia. Riuscì a portare sul monitor la Torre di Loranne, e osservò rapidamente i corridoi e le stanze che aveva già visitato nella realtà. Appena inquadrò la griglia di pietra, gli parve quasi si sentire il vento gelido che vi soffiava incessantemente. Portò in primo piano la griglia, cercò di vedere al di là… ma non vide nulla. Per un attimo la sorpresa fu così forte che quasi fu portato a dubitare della propria memoria: la sua visione del deserto non era stata altro che un sogno? Poi comprese. Il deserto non faceva parte di Diaspar, quindi il fantomatico mondo che stava esplorando non ne conservava l’immagine. Qualsiasi cosà fosse esistita al di là della griglia di pietra non sarebbe mai apparsa sullo schermo. Tuttavia, lo schermo poteva mostrargli qualcosa che nessun uomo vivente aveva mai visto. Alvin girò la manopola fino al limite massimo, poi fece scattare il convertitore in modo da poter esaminare il cammino percorso dalla direzione opposta. Ed ecco che sullo schermo tornò di nuovo la griglia di pietra, vista dall’esterno. Per i computer, i circuiti-memoria e tutti gli altri innumerevoli meccanismi che creavano l’immagine che Alvin stava contemplando, non si trattava che di un semplice problema di prospettiva. Le macchine «conoscevano» la forma della città, ragione per cui potevano mostrarla anche vista dall’esterno. Alvin, però, che pure si rendeva conto benissimo di come veniva prodotto quell’effetto, restò quasi sopraffatto dalla scoperta. In spirito, se non materialmente, era riuscito a evadere dalla città. Gli pareva di fluttuare nello spazio, a poche spanne di distanza dalla liscia parete della Torre di Loranne. Restò per un attimo a fissare la superficie levigata, poi manovrò la manopola e fece scorrere l’immagine dall’alto al basso. Ora che conosceva le possibilità di quel meraviglioso apparecchio, il suo piano di azione si concretò. Era inutile sprecare tempo a esplorare Diaspar dall’interno, stanza per stanza, corridoio per corridoio. Poteva invece sfruttare il vantaggio di far scorrere sullo schermo tutta la parete esterna della città, in modo da essere in grado di scorgere immediatamente qualsiasi apertura che conducesse verso il deserto. Provò un senso di eccitazione, di vittoria, e sentì l’impulso di comunicare a qualcuno la sua gioia. Si voltò verso Khedron per ringraziarlo di ciò che gli aveva insegnato. Ma Khedron era scomparso, ed era facile capire il motivo di quella fuga. Alvin era forse l’unico uomo che in tutta Diaspar poteva fissare tranquillamente le immagini che apparivano ora sullo schermo. Khedron poteva aiutarlo nelle ricerche, ma anche lui era schiavo del misterioso terrore dell’universo che da così lungo tempo comprimeva l’umanità entro i confini limitati di Diaspar. Aveva lasciato che Alvin continuasse da solo le sue indagini. Alvin si sentì immediatamente riafferrare dal senso di solitudine che lo opprimeva continuamente. Ma non c’era tempo per le malinconie, aveva troppo da fare. Riportò l’attenzione sul monitor, e fece scorrere lentamente l’immagine della parete della città e cominciò le sue ricerche. Diaspar nelle settimane seguenti quasi non vide Alvin, anche se poche persone notarono la sua assenza. Quando scoprì che il suo pupillo stava passando tutto il tempo nella Sala del Consiglio, e che aveva smesso di girare lungo i corridoi della città, Jeserac provò un senso di sollievo. In quel luogo Alvin non avrebbe potuto cacciarsi nei guai. Eriston ed Etania lo chiamarono una o due volte a casa, ma non si preoccuparono nel non trovarlo. Alystra fu alquanto più insistente. Per la sua tranquillità era un vero peccato che si fosse infatuata di Alvin, mentre c’erano tante altre possibilità di scelta. Alystra non aveva mai avuto difficoltà nel trovare compagni, ma a paragone di Alvin tutti gli altri uomini le sembravano nullità, usciti da un identico anonimo stampo, e lei non avrebbe ceduto le armi senza combattere. La scontrosità e l’indifferenza di Alvin erano una sfida alla quale lei non sapeva resistere. Tuttavia, i suoi motivi non erano del tutto egoistici, ed erano materni piuttosto che sessuali. Per quanto la nascita fosse un evento dimenticato, l’istinto femminile di protezione e affetto restava. Alvin poteva sembrare cocciuto, deciso e pieno di fiducia, ma Alystra riusciva a sentirne l’intima solitudine che lo tormentava. Quando scoprì che Alvin era scomparso, domandò subito a Jeserac cos’era successo. E Jeserac, dopo un attimo di esitazione, le disse la verità. Se Alvin non voleva compagnia, la risposta doveva esserle chiara. Il tutore non approvava né disapprovava la relazione. Tutto sommato, Alystra gli piaceva, e lui nutriva la speranza che la ragazza riuscisse a convincere Alvin a conformarsi alla vita della città. Il fatto che Alvin stesse trascorrendo tutto il suo tempo nella Torre del Consiglio poteva soltanto significare che stava facendo delle ricerche, e questo riuscì a placare le gelosie di Alystra. Ma se i sospetti si erano spenti, la curiosità era aumentata. A volte si rimproverava per aver abbandonato Alvin nella Torre di Loranne, anche sapendo benissimo che se le circostanze si fossero ripetute lei avrebbe fatto esattamente la stessa cosa. Non c’era modo di capire ciò che Alvin stava pensando, si disse, a meno di non scoprire cosa stesse cercando di fare. Avanzò decisa nel grande atrio, e rimase impressionata, non intimorita, dal grande silenzio che l’aveva avvolta non appena varcata la soglia. Le macchine d’informazione erano allineate lungo la parete opposta, e lei ne scelse una, a caso. Aspettò che si accendesse il segnale, poi disse: «Sto cercando Alvin. È in questo edificio. Dove lo posso trovare?». Anche dopo tutta una vita è impossibile abituarsi alla rapidità con cui una macchina risponde a una domanda normale. Ci sono persone che sanno, o dicono di sapere, come tutto questo avviene, e parlano di «tempo di accesso» e di «spazio d’immagazzinamento», ma la sorpresa data dalla sorprendente rapidità rimane. Una qualsiasi domanda, tra tutte quelle che potevano essere fatte nella città, riceveva normalmente una risposta immediata. Soltanto se venivano richiesti calcoli complessi si doveva aspettare la risposta per una leggera frazione di tempo. «È con i Monitor» disse la macchina. Non fu di grande aiuto, dato che quel nome non le diceva niente. Nessuna macchina poi dava altre informazioni oltre quella richiesta. Formulare domande alle macchine era un’arte che a volte richiedeva un lungo studio. «Come lo posso raggiungere?» domandò Alystra. Cos’erano i Monitor lo avrebbe scoperto dopo aver trovato Alvin. «Non posso dirvelo, a meno che non abbiate il permesso del Consiglio.» Quello era lo sviluppo più inaspettato e sconcertante. C’erano pochi luoghi in tutta Diaspar ai quali non si potesse accedere liberamente. Inoltre Alystra era certissima che Alvinnonaveva ottenuto il permesso del Consiglio. E questo poteva significare soltanto che veniva aiutato da un’autorità posta ancora più in alto. Il Consiglio governava Diaspar, ma il Consiglio stesso era sottomesso a una forza superiore: all’intelligenza infinita del Computer Centrale. Era difficile considerarlo un’entità vivente, localizzata in un punto, perché era la somma globale di tutte le macchine esistenti nella città. Anche se non era vivo in senso biologico, possedeva almeno tanta intelligenza e sensibilità quanto un essere umano. Doveva sapere ciò che Alvin stava facendo, e, di conseguenza, doveva avergli dato la sua approvazione. In caso contrario, lo avrebbe fermato, o demandato al Consiglio, come la Macchina delle Informazioni aveva fatto con Alystra. Non c’era ragione di restare. Alystra sapeva che un qualsiasi tentativo per trovare Alvin, anche sapendo con esattezza dov’era la sala dei Monitor, si sarebbe risolto in un fallimento. Le porte non si sarebbero aperte, i corridoi si sarebbero mossi in senso inverso non appena lei avesse tentato di imboccarli, portandola indietro anziché avanti, e i campi elevatori si sarebbero misteriosamente rifiutati di sollevarla da un piano all’altro. Se poi avesse insistito, sarebbe comparso un robot che l’avrebbe gentilmente riaccompagnata in strada, o fatta girare per tutti i corridoi dell’edificio finché non si fosse stancata. Era di cattivo umore quando uscì dal palazzo. Ed era anche alquanto perplessa. Per la prima volta si rendeva conto che doveva esserci un grosso mistero. Al confronto, tutti i suoi desideri e interessi personali diventavano meschini. Ma non per questo perdevano, per lei, la loro importanza. Non sapeva cosa fare, ma era certa di una cosa. Alvin non era la sola persona cocciuta e ostinata a Diaspar. 8 Alvin girò la manopola e vuotò i circuiti. Per un attimo rimase seduto immobile, gli occhi fissi allo schermo che aveva tenuto occupata la sua mente per tante settimane. Aveva circumnavigato il suo mondo; attraverso lo schermo era passato ogni centimetro quadrato dalla parete esterna di Diaspar. Conosceva la città meglio di ogni altro essere umano, salvo forse Khedron, e adesso sapeva che attraverso quella muraglia non esisteva via d’uscita. Non era del tutto scoraggiato, però. Sapeva fin dall’inizio che le cose non sarebbero state facili, e che non avrebbe certo trovato quel che cercava al primo tentativo. L’aver esaminato una possibilità rappresentava già qualcosa. Ora poteva passare a occuparsi delle altre. Si alzò, e si avvicinò all’immagine della città che riempiva quasi tutta la stanza. Era difficile pensare che non fosse un modello plastico, anche sapendo che si trattava di una proiezione ottica di tutto ciò che era conservato nelle celle-memoria da lui esplorate. Quando spostava i comandi del monitor e vagava con le inquadrature per le strade di Diaspar, un punto luminoso si muoveva sulla replica indicando la zona che appariva sullo schermo. Era stata una guida utile durante i primi giorni, poi lui era diventato tanto abile nel disporre le coordinate che non aveva più avuto bisogno del piccolo aiuto. Diaspar si stendeva ai suoi piedi, poteva guardarla dall’alto come un dio; ma lui la vedeva appena, tanto era immerso nelle sue riflessioni. Se ogni altro tentativo falliva, a lui sarebbe rimasta un’unica soluzione. Diaspar poteva esser tenuta in perpetua stasi dai circuiti di eternità, fissi sugli schemi stabiliti nelle celle di memoria. Ma questi schemi potevano venire cambiati, e la città sarebbe cambiata di conseguenza. Sarebbe bastato ridisegnare un tratto di parete esterna in modo da inserirvi una porta, registrare la correzione nelle Banche Memoria e lasciare che la città assumesse una nuova caratteristica. Alvin ebbe il sospetto che i comandi del pannello che Khedron non gli aveva illustrati riguardassero proprio le alterazioni. Inutile tentare esperimenti. Senza dubbio i comandi che potevano cambiare la struttura della città dovevano essere sigillati e potevano essere azionati solo dall’autorità del Consiglio con l’approvazione del Computer Centrale. Era assurdo sperare che il Consiglio accettasse la sua proposta, anche mettendo in bilancio decadi e forse secoli di paziente attesa. No, meglio scartare addirittura l’idea. Quasi involontariamente guardò verso l’alto. A volte aveva sognato, fantasticherie che quasi si vergognava di ricordare, di aver riconquistato la signoria dell’aria cui l’uomo aveva da tanto tempo rinunciato. Un tempo le navi spaziali avevano solcato i cieli, tornando cariche di tesori ormai dimenticati al leggendario Porto di Diaspar. Ma il Porto sorgeva oltre i limiti della città, e da tempi immemorabili era stato seppellito dalle sabbie. Alvin ogni tanto sognava che una di quelle macchine volanti si trovasse nascosta in qualche punto di Diaspar, ma non osava sperarlo. Anche nei giorni in cui i piccoli apparecchi personali erano una cosa comune, probabilmente non era permesso usarli entro i limiti della città. Per un attimo si perse nel suo vecchio sogno. Immaginò di essere il padrone del cielo, e che la Terra si stendesse sotto di lui, invitandolo ad andare dove avesse voluto. Non era il mondo dei suoi tempi quello che vedeva, ma il mondo perduto del passato, con un lussureggiante panorama cosparso di colline, di laghi e di foreste. Provò invidia, e collera, per i suoi sconosciuti antenati, che avevano volato in piena libertà su tutta la Terra e che avevano lasciato morire tutte le sue bellezze. Ma le fantasticherie erano inutili; ritornò al presente e al suo problema. Se la via del cielo era sconosciuta, quella della terra preclusa, cosa restava? Si trovava di nuovo al punto in cui non poteva fare alcun progresso basandosi solo sulle sue forze e aveva bisogno di aiuto. Gli seccava ammettere quel fatto, ma era abbastanza onesto da non negarlo. Come era inevitabile, i suoi pensieri andarono subito al Buffone. Alvin non riusciva a stabilire se il Buffone gli fosse simpatico o no. Era contentissimo di averlo conosciuto, ed era grato a Khedron per l’aiuto e la simpatia che gli aveva dimostrato. Con nessun altro, in tutta Diaspar, sentiva d’avere tante cose in comune, eppure c’era un nonsoché nella personalità dell’amico che lo lasciava sconcertato. Forse l’aria di ironico distacco di Khedron gli aveva dato a volte l’impressione che l’altro se la ridesse dei suoi sforzi anche nei momenti in cui faceva del suo meglio per aiutarlo. Per questo Alvin, già indipendente e testardo per natura, si rivolgeva al Buffone solo quando si vedeva alle strette. Combinarono di incontrarsi in un piccolo cortile rotondo, poco distante dalla Torre del Consiglio. C’erano parecchi luoghi tranquilli nella città, magari a pochi metri dal traffico caotico e tuttavia completamente isolati e quieti. Di solito ci si poteva arrivare soltanto a piedi, dopo un breve cammino; altri invece si trovavano al centro di complicati labirinti che ne aumentavano l’isolamento. Era tipico di Khedron scegliere un posto simile per un appuntamento. Il cortile era largo una cinquantina di passi e si trovava al centro di un immenso edificio. Tuttavia, essendo le pareti rivestite di un materiale fosforescente che brillava di luce verde-azzurra, sembrava non avere limiti definiti. Ma ciò nonostante non si aveva la sensazione di essere persi nello spazio infinito. Balaustre alte un metro, con diverse aperture di passaggio, davano l’impressione di trovarsi in un recinto di sicurezza. Khedron stava esaminando una delle balaustre quando Alvin arrivò. Era coperta da un complicato mosaico di piastrelle colorate, tanto fantasticamente elaborato che Alvin non tentò neppure di comprenderlo. «Guarda questo mosaico, Alvin» disse il Buffone, indicando l’intricato disegno di piastrelle colorate. «Non noti niente di strano?» «No» confessò Alvin dopo un breve esame. «Non mi piace, però mi sembra normalissimo.» Khedron fece scorrere le dita sulle piastrelle. «Non sei un buon osservatore» commentò. «Tocca questi orli, senti come sono smussati, rotondi. È raro vedere una cosa del genere a Diaspar, Alvin. Il mosaico è corroso dal tempo. Ricordo benissimo quando fu fatto questo disegno, circa ottomila anni fa, durante la mia precedente esistenza. Se tornerò qui tra una decina di vite, queste piastrelle saranno completamente scomparse.» «Non vedo niente di strano in questo. Ci sono altre opere d’arte in città non abbastanza buone da essere conservate nei circuiti di memoria, né tanto brutte da venire distrutte immediatamente. Un giorno, un altro artista si occuperà di decorare questo muro, e forse il suo lavoro verrà eternato.» «Conoscevo l’uomo che ha disegnato questa decorazione» disse Khedron, continuando a esplorare con le dita le screpolature che si erano aperte nel mosaico. «Strano che ricordi ancora il fatto, mentre non mi riesce di ricordare la persona. Forse non mi piaceva, così devo averla cancellata dalla mente.» Fece una breve risata. «Forse sono stato io a disegnarlo, durante una delle mie fasi artistiche. E devo essermi tanto seccato quando la città si è rifiutata di renderlo eterno che ho deciso di dimenticare la mia opera. Ecco… Sapevo che qualcosa si sarebbe staccata!» Khedron, che era riuscito a togliere una piastrella colorata, pareva soddisfattissimo. Gettò il frammento a terra e soggiunse: «Ora i robot della manutenzione dovranno occuparsene!». Alvin comprese che l’altro stava tentando di dargli una lezione. Lo capì per quello strano istinto definito intuizione, quell’istinto che sembrava seguire scorciatoie non accessibili alla logica. Guardò il quadratino colorato, cercando di collegarlo in qualche modo al problema che lo assillava. Non gli fu difficile trovare la risposta, una volta stabilito che doveva esserci. «Ci sono, Khedron!» esclamò. «Volevi farmi capire che alcune cose di Diaspar non vengono conservate nelle Banche Memoria e quindi non potrei mai localizzarle sugli schermi della Sala del Consiglio. Se cercassi questa balaustra, ad esempio, non la troverei.» «Troveresti la balaustra, forse, ma non certo il mosaico.» «Sì, capisco» disse Alvin, troppo impaziente per badare a simili sottigliezze. «Allo stesso modo, possono esistere parti della città che non sono mai state inserite nei circuiti d’eternità, ma neppure distrutte dal tempo. Però non vedo come questo possa servirmi. Le mura esterne esistono, e sicuramente non hanno aperture.» «Può darsi che non esista via d’uscita» replicò il Buffone. «Non posso prometterti nulla. Ma sono certo che gli schermi potranno insegnarci molte altre cose, se il Computer Centrale lo permetterà… E pare che per te abbia una speciale simpatia.» Alvin rimuginò sull’idea mentre si avviavano alla Torre del Consiglio. Finora, gli era parso che fosse un effetto della autorità di Khedron se si era potuto avvicinare agli schermi. Non l’aveva neppure sfiorato il sospetto che quell’autorità risiedesse proprio in lui. Essere un Unico presentava parecchi svantaggi; era giusto che esistesse anche qualche compenso… L’immagine della città dominava come sempre la stanza in cui Alvin aveva trascorso tante ore. Il giovane la guardò con un atteggiamento diverso; tutto ciò che si vedeva esisteva di certo, ma non tutta Diaspar era lì riflessa. Tuttavia, le cose mancanti dovevano essere di poco conto, trascurabili. «Molto tempo fa feci un tentativo» mormorò Khedron, prendendo posto davanti a un teleschermo «ma i comandi non vollero obbedirmi. Forse ora mi obbediranno.» Dapprima incerte, poi con crescente sicurezza, le dita del Buffone manovrarono i tasti di comando. Poi fermò le mani sul pannello che nascondeva le griglie sensibili. «Penso di non aver sbagliato» disse alla fine. «A ogni modo vedremo subito.» Lo schermo si accese, ma anziché l’immagine che Alvin si aspettava comparve la scritta di un messaggio alquanto sconcertante. «La regressione comincerà non appena avrete stabilito la velocità di indagine.» «Che stupido» borbottò Khedron. «Ho fatto tutto e mi sono dimenticato la cosa più importante.» Le dita del Buffone ripresero a muoversi con sicurezza sul pannello, e non appena la scritta scomparve, lui girò la sedia per osservare l’immagine della città. «Attento, Alvin! Stiamo per imparare qualcosa di nuovo su Diaspar.» Alvin aspettò paziente, ma non accadde nulla. L’immagine della città si stendeva davanti ai suoi occhi con tutte le bellezze e le cose sorprendenti che gli erano familiari, anche se in quel momento non le notava. Stava già per chiedere a Khedron cosa mai doveva avvenire, quando un movimento subitaneo colse la sua attenzione. Volse rapido la testa, ma troppo tardi. Niente era cambiato. Diaspar era là, assolutamente identica. Khedron, però, lo stava osservando con espressione ironica. Riportò lo sguardo sulla città e questa volta la cosa si ripeté sotto i suoi occhi. Uno degli edifici al limite del Parco svanì all’improvviso, e al suo posto ne comparve un altro totalmente diverso. La trasformazione fu improvvisa, tanto che un battito di ciglia sarebbe stato sufficiente a non fargliela notare. Fissò sbalordito la città trasformata, ma nonostante lo stupore, la sua mente cercava la risposta al fenomeno. Poi ricordò le parole che aveva letto sullo schermo. «La regressione comincerà…» e subito si rese conto di quanto stava accadendo. «Questa è la metropoli come era mille anni fa» disse a Khedron. «Stiamo andando indietro nel tempo.» «Una definizione pittoresca ma non del tutto precisa» disse il Buffone. «In realtà il monitor sta ricordando le versioni precedenti della città. Quando viene apportata una modifica, i circuiti-memoria vengono scaricati e l’informazione contenuta in essi viene raccolta da unità di memoria sussidiarie, in modo da poter essere ritrovata qualora ce ne sia bisogno. Ho regolato il monitor in modo che indaghi attraverso queste unità alla velocità di mille anni al secondo. Stiamo già osservando la Diaspar di mezzo milione di anni fa. Per vedere qualche cambiamento sostanziale, dobbiamo andare molto più indietro… Aumenterò la velocità.» Si voltò al quadro di comando, e in quel momento un intero isolato di case, non un semplice edificio, scomparve per far posto a un ampio anfiteatro ovale. «Ah! l’Arena!» fece Khedron. «Ricordo ancora il baccano che è stato fatto quando abbiamo deciso di eliminarla. Non veniva mai usata però molti nutrivano per lei un affetto sentimentale.» Il monitor prese a riesaminare le sue memorie a velocità massima; l’immagine di Diaspar continuava a recedere nel passato a milioni di anni al minuto, e i cambiamenti si succedevano così rapidi che l’occhio non riusciva a seguirli. Alvin notò che quei cambiamenti si verificavano ciclicamente; a lunghi periodi di stasi seguivano periodi di larga ricostruzione, poi altre pause e così via. Era come se Diaspar fosse un organismo vivente, che dovesse recuperare le forze tra una fase e l’altra del suo sviluppo. Nonostante tutti i cambiamenti, il disegno base della città non mutava. Edifici apparivano e scomparivano, ma il tracciato delle strade sembrava eterno, e il Parco continuava a restare il verde cuore di Diaspar. Alvin cercò di immaginare fino a che periodo potesse retrocedere il monitor. Poteva arrivare fino ai giorni in cui avevano fondato la città e superare quel velo che separava la storia vera e conosciuta dai miti e dalle leggende delle origini? Erano già retrocessi di cinquecento milioni di anni. Fuori dalle mura di Diaspar, oltre ciò che conoscevano i monitor, doveva esserci una Terra differente. Forse c’erano oceani e foreste, e forse anche altre città, quelle che l’uomo non aveva ancora abbandonato prima di ritirarsi in una città unica. I minuti passavano, e ogni minuto, nel piccolo universo dei monitor, erano eoni. Presto avrebbero raggiunto le primissime memorie conservate nelle macchine, pensò Alvin, e la regressione sarebbe finita. Ma, per quanto affascinante fosse quella lezione, non riusciva a comprendere di che utilità gli sarebbe stata per evadere dalla città. Con un’improvvisa e silenziosa implosione Diaspar divenne una frazione di quella attuale. Il Parco svanì. La muraglia che collegava le torri titaniche evaporò in un istante. La città era aperta, dato che le strade radiali si spingevano, senza incontrare barriere, fino ai limiti di immagine del monitor. Quella era la Diaspar dei giorni in cui l’umanità non era ancora cambiata. «Impossibile andare oltre» disse Khedron a un tratto, indicando lo schermo del monitor. Sul pannello era apparsa la scritta: «Termine della regressione». «Dev’essere la versione più antica della città conservata dalle celle-memoria. Prima di allora è probabile che non fossero usati i circuiti di eternità; gli edifici si logoravano e invecchiavano secondo leggi naturali.» Alvin restò a lungo a fissare il modello della città antica, prima della grande trasformazione della storia del genere umano. Pensava al traffico che si era svolto su quelle strade che si spingevano oltre i limiti della città, quando gli uomini erano liberi di spostarsi da un capo all’altro del mondo… e addirittura su altri mondi. Quegli uomini erano suoi antenati; sentì d’essere molto più affine a loro che ai suoi contemporanei. Desiderò di vederli, di conoscere i loro pensieri mentre si muovevano per le strade della Diaspar di un miliardo di anni prima. Eppure quei pensieri non dovevano essere stati sereni, poiché l’umanità era vissuta allora sotto la minaccia degli Invasori. In pochi secoli, quegli uomini avevano dovuto chinare lo sguardo a terra e costruire una parete che nascondesse loro il resto dell’universo. Khedron azionò il monitor avanti e indietro una dozzina di volte, lungo il breve periodo di storia in cui si era verificata la trasformazione. Il passaggio della piccola città aperta alla metropoli chiusa era avvenuto in mille anni all’incirca. Durante quel tempo dovevano essere state disegnate e costruite le macchine che avevano servito Diaspar così fedelmente, e pure in quel tempo erano state registrate su circuiti-memoria le cognizioni che le avrebbero messe in grado di esplicare il loro compito. In quei circuiti, inoltre, erano entrati anche gli schemi essenziali degli uomini viventi a quell’epoca, così che, ogni volta che l’impulso vitale li avesse richiamati, avrebbero potuto essere rivestiti di materia e sarebbero usciti rinati dalla Sala della Creazione. Alvin era certo di essere già esistito in quel mondo remoto. Forse, addirittura, la sua personalità era stata costruita con attrezzi di inconcepibile complessità da un artista-tecnico che aveva un suo scopo particolare. Tuttavia gli sembrava molto più probabile che lui fosse semplicemente la fusione di parecchi uomini che avevano camminato sulla Terra tanto tempo prima. Nella nuova Diaspar restava ben poco della vecchia città; quasi l’intera area antica era stata assorbita dal Parco. Ma anche prima della trasformazione, nel centro di Diaspar c’era una spianata erbosa, dalla quale si dipartivano radialmente tutte le strade. In quel periodo era stata costruita la Tomba di Yarlan Zey; aveva preso il posto di una grossa costruzione circolare che un tempo sorgeva al punto d’incontro di tutte le strade. Alvin, che non aveva mai creduto alle leggende che parlavano dell’antichità della Tomba, era adesso costretto a ricredersi. «Scommetto» disse, colpito da un’intuizione improvvisa «che è possibile esplorare la vecchia Diaspar così come si fa con la moderna.» Le dita di Khedron azionarono subito il monitor e lo schermo rispose alla proposta di Alvin. La città d’un tempo cominciò a sfilare sotto i loro occhi. L’immagine della vecchia Diaspar era nitida e precisa quanto quella della città attuale. Per mille milioni di anni i circuiti di informazione l’avevano conservata, in attesa di qualcuno che volesse vedere com’era fatta. Quello che stava osservando non era un puro e semplice ricordo, pensò Alvin. Era il ricordo di un ricordo… Non riusciva ancora a capire se tutto ciò poteva essergli di aiuto, o se avrebbe trovato una soluzione alle sue ricerche. Ma non aveva importanza. Era affascinante guardare nel passato, e vedere un mondo che era esistito nei giorni in cui gli uomini vagavano ancora in mezzo alle stelle. Indicò il basso edificio circolare che sorgeva nel cuore della città. «Cominciamo da quello» disse a Khedron. «Dobbiamo pur partire da un punto, no?» Forse fu una combinazione fortunata, forse una rimembranza vaga del subcosciente, o forse effetto di logica elementare. La cosa non aveva importanza, poiché prima o poi sarebbero arrivati a quel punto, proprio dove convergevano tutte le strade radiali della città. Alvin impiegò dieci minuti per capire che le strade non s’incontravano là per ragioni di semplice simmetria… Dieci minuti per scoprire che la sua lunga ricerca era stata compensata. 9 Alystra era riuscita a seguire Alvin e Khedron senza che loro se ne accorgessero. Pareva che avessero una gran fretta, cosa strana a Diaspar, e non si erano mai voltati indietro. Per Alystra era stato un gioco divertente pedinarli lungo la strada mobile, confondendosi tra la folla senza perderli d’occhio. Alla fine la loro meta fu chiara. Quando abbandonarono l’intrico delle vie per addentrarsi nel Parco, non potevano essere diretti che verso la Tomba di Yarlan Zey. Il Parco non conteneva altri edifici, e due individui che andavano di fretta come Alvin e Khedron non potevano essere lì per godere lo spettacolo del paesaggio. La ragazza li seguì fino alla Tomba di Yarlan Zey, e poiché attorno al monumento non c’era modo di nascondersi, aspettò che Alvin e Khedron sparissero sotto la cupola di marmo. Poi, come furono entrati, si affrettò su per la breve salita erbosa. Era quasi certa che sarebbe riuscita a nascondersi dietro uno dei grossi pilastri, per sorvegliare di là cosa stessero facendo. La Tomba era formata da due anelli concentrici di colonne, che racchiudevano una corte circolare. Le colonne, tranne che in un settore, nascondevano completamente l’interno. Alystra evitò di avanzare in quella direzione, e fece il giro della Tomba per entrare da uno dei lati. Raggiunse il primo cerchio di colonne, vide che non c’era nessuno, e andò in punta di piedi fino al secondo. Tra un pilastro e l’altro, poté intravedere Yarlan Zey che, immobile, vegliava da millenni sul parco e sulla città. Ma non c’era nessun altro in quella solitudine marmorea. La Tomba era vuota. In quel momento, Alvin e Khedron si trovavano parecchi metri sottoterra, in una cabina le cui pareti sembravano fuggire velocemente verso l’alto. Quella era l’unica indicazione di movimento; nessun’altra traccia di vibrazione mostrava che stessero penetrando rapidamente nel sottosuolo, lanciati verso una meta che nessuno di loro due conosceva ancora. Tutto era stato facile, e la via era stata creata apposta per loro. (Da chi? si chiedeva Alvin. Dal Computer Centrale? O da Yarlan Zey stesso, quando aveva trasformato la città?) Lo schermo del monitor aveva mostrato loro il pozzo che si immergeva nelle viscere della terra, ma aveva potuto seguirne il corso solo per poco, perché ben presto l’immagine era sfumata. Questo indicava che il monitor aveva esaurito le sue informazioni. Alvin stava appunto riflettendo sul fatto, quando sullo schermo era apparso un nuovo messaggio, scritto in quello stile semplificato che le macchine usavano per comunicare con gli uomini prima che tutti raggiungessero un identico grado intellettuale: «Fermati nel punto fissato dalla statua. E ricorda: Diaspar non è sempre stata così.» Le ultime parole erano scritte a caratteri più grandi, e il significato di tutto il messaggio era stato subito chiaro per Alvin. Da secoli si usavano dei codici mentali per aprire porte e mettere macchine in movimento. «Quante persone avranno letto queste parole?» disse pensoso. «Quattordici, a quanto mi risulta» rispose Khedron senza spiegare meglio. «E forse qualcuna di più.» Non potevano sapere se il meccanismo avrebbe risposto all’impulso. Quando erano arrivati alla Tomba, avevano identificato senza fatica la pietra dell’impiantito su cui si fissava lo sguardo della statua. La prima impressione era che il simulacro di Yarlan Zey guardasse verso la città, ma se ci si metteva di fronte ci si accorgeva che gli occhi erano rivolti verso il basso e che il sorriso misterioso di Yarlan Zey era diretto a una pietra proprio appena varcato l’ingresso. Alvin, notato il fatto, aveva mosso per prova qualche passo avanti; subito si era accorto che lo sguardo di Yarlan Zey non era più diretto verso di lui. Dunque la pietra era proprio quella. Tornò vicino a Khedron e mentalmente ripeté le parole che il Buffone stava dicendo a voce alta: «Diaspar non è sempre stata così». Immediatamente le macchine si misero in movimento, come se i milioni di anni trascorsi dalla loro ultima operazione non fossero mai esistiti. La grossa pietra su cui erano fermi si era mossa dolcemente, trasportandoli nelle profondità del suolo. Sopra di loro il riquadro di azzurro scomparve all’improvviso. La botola si era richiusa. Non c’era più pericolo che qualcuno cadesse incidentalmente nell’apertura. Alvin si domandò se una seconda pietra si fosse materializzata per rimpiazzare quella su cui lui e Khedron stavano appoggiando i piedi. Poi decise che non era possibile. Con tutta probabilità, nel pavimento della tomba era tornata la pietra originale. Quella su cui si trovavano doveva esistere soltanto per infinitesime frazioni di secondo, e ricrearsi di continuo a profondità sempre maggiori per dare la sensazione di un movimento verso il basso. Né Alvin né Khedron parlarono durante il tragitto. Il Buffone si stava chiedendo se per caso non fosse andato troppo oltre. Non poteva immaginare dove li avrebbe portati quella strada, ammesso che portasse in qualche posto, e per la prima volta in vita sua aveva paura. Alvin invece non temeva nulla; era troppo eccitato. Provava la stessa sensazione sperimentata nella Torre di Loranne, quando aveva guardato il deserto e aveva visto le stelle spandersi nel cielo della notte. Allora si era limitato a guardare cose sconosciute; ora stava andando verso l’ignoto. Le pareti rallentarono la loro corsa verso l’alto. Un raggio di luce apparve improvvisamente da un lato e, facendosi sempre più luminoso, rivelò infine una porta aperta. I due la attraversarono, mossero qualche passo nel piccolo corridoio e si trovarono in una vasta caverna circolare le cui pareti si riunivano a cupola circa cento metri sopra le loro teste. La colonna che avevano percorso nella discesa sembrava troppo esile per sorreggere i milioni di tonnellate di roccia, e anzi dava l’impressione che non facesse neppur parte integrante della immensa sala, come se fosse stata costruita in un secondo tempo. Khedron, seguendo lo sguardo di Alvin, giunse immediatamente alla stessa conclusione. «Questa colonna» disse parlando in fretta, come nell’ansia di cercare parole adatte ai pensieri «è stata costruita soltanto per alloggiare il condotto attraverso cui siamo scesi. Ma non deve essere mai stata sufficiente a convogliare tutto il traffico di quando Diaspar era ancora aperta sul mondo. Il vero traffico si svolgeva attraverso quei tunnel laggiù. Immagino che tu abbia capito cosa sono.» Alvin guardò verso il fondo della grande sala. A un centinaio di metri da loro le pareti erano traforate a intervalli regolari da dodici grandi tunnel che puntavano un poco verso l’alto. Alvin riconobbe il materiale grigio delle strade mobili. Quelle erano edizioni ridotte delle grandi strade. Il curioso materiale che dava loro vita si era cristallizzato nell’immobilità. Quando avevano costruito il Parco, la rete di vie mobili era stata sepolta. Alvin si avviò verso il tunnel più vicino. Aveva fatto solo pochi passi quando notò che qualcosa di strano avveniva nel terreno su cui camminava: stava diventando trasparente. Ancora qualche metro, e ad Alvin parve di essere sospeso a mezz’aria. Si fermò e fissò il vuoto sotto di sé. «Khedron!» chiamò. «Vieni a vedere!» L’altro lo raggiunse, e insieme guardarono quella meraviglia sotto i loro piedi. Debolmente visibile, a una profondità infinita, si stendeva una mappa enorme, le cui linee convergevano verso un punto centrale. Rimasero per qualche istante a osservare in silenzio. «Riesci a immaginare di che si tratti?» domandò Khedron, piano. «Credo di sì. È la mappa dell’intero sistema di trasporti, e quei circoletti devono essere le altre città della Terra. Vedo i nomi scritti accanto, ma non riesco a leggerli.» «Un tempo doveva esserci un’illuminazione interna» disse Khedron. Poi si mise a seguire con gli occhi le varie linee della mappa che si spingevano verso le pareti della sala. «Lo dicevo, io!» esclamò a un tratto. «Vedi che ognuna di queste linee si ricongiunge a uno dei tunnel più piccoli?» Alvin aveva notato che oltre alle dodici arcate delle strade mobili c’erano moltissimi altri tunnel più piccoli, tunnel che si dirigevanoverso il basso, non verso l’alto. Khedron continuò, senza aspettare risposta: «Il sistema più semplice che si possa immaginare. La gente scendeva con le strade mobili, sceglieva la località in cui voleva recarsi, e seguiva la linea esatta sulla mappa». «Che cosa succedeva, poi?» chiese Alvin. Khedron tacque. I suoi occhi indagavano nel mistero di quei tunnel discendenti. Erano trenta o quaranta, tutti uguali. Solo i nomi sulla mappa avrebbero permesso di distinguerli, e quei nomi erano ormai indecifrabili. Alvin si era allontanato, e stava facendo il giro del pilastro centrale. In quel momento, la sua voce giunse a Khedron leggermente alterata dall’eco della sala. «Che c’è?» Khedron era quasi riuscito a decifrare uno dei nomi e non voleva muoversi. Ma la voce di Alvin era insistente, e il Buffone corse a vedere. Molto al di sotto si stendeva l’altra metà della grande mappa. Nell’intrico sfuocato di linee, una era ben distinta e fortemente illuminata. Pareva non aver alcun nesso col resto del grafico e puntava, come una freccia scintillante, in direzione di uno dei tunnel discendenti. Verso la fine la freccia formava un cerchio di luce dorata nel quale si leggeva una sola parola: Lys. Alvin e Khedron fissarono a lungo in silenzio la segnalazione luminosa. Per Khedron si trattava di una sfida che lui non avrebbe mai avuto il coraggio di accettare, ma per Alvin quella freccia significava la realizzazione di tutti i suoi sogni. Per quanto la parola Lys non gli dicesse niente, la ripeté diverse volte, assaporando la sillaba quasi fosse un frutto di sapore esotico. Il sangue gli scorreva nelle vene con violenza, e le guance gli si erano infuocate come se avesse la febbre. Si guardò attorno e cercò di immaginare come poteva essere stato quel luogo, quando erano cessati i trasporti aerei ma le diverse città della Terra avevano continuato a mantenersi in contatto. Pensò agli incalcolabili milioni di anni passati, al traffico che diminuiva a poco a poco, e alle luci che si spegnevano, a una a una, finché ne era rimasta una soltanto. Per quanto tempo aveva brillato, da sola, quella luce in attesa di guidare i passi di qualcuno che non era mai arrivato? Dal giorno in cui Yarlan Zey aveva isolato Diaspar dal resto del mondo erano trascorsi ormai mille milioni di anni. Doveva essere da quel periodo che Lys aveva perso ogni contatto con Diaspar. Sembrava impossibile che avesse potuto sopravvivere. Forse, dopo tutto, quella luce accesa non aveva più nessun significato. Khedron interruppe le sue fantasticherie. Sembrava nervoso e a disagio; non aveva più niente dell’individuo calmo e sicuro di sé. «Non dobbiamo andare oltre. Potrebbe essere pericoloso finché… finché non saremo più preparati.» Le parole erano sagge, ma Alvin colse una nota di paura nella voce del compagno. Se non fosse stato per questo, forse le avrebbe ascoltate. Ma la troppa fiducia che nutriva in se stesso, combinata al disprezzo per la paura di Khedron, lo convinsero a proseguire. Gli sembrava stupido essere arrivato fino a quel punto solo per volgere la schiena, quando la meta poteva essere a portata di mano. «Io scendo in quel tunnel» rispose, quasi sfidando Khedron a fermarlo. «Voglio vedere dove porta.» Si mosse risoluto. Dopo un attimo di esitazione, l’altro lo seguì. Nel tunnel, il campo peristaltico li afferrò trasportandoli in meno di un minuto in fondo alla galleria e deponendoli all’ingresso di una stretta camera semicilindrica. All’estremità opposta, altri due tunnel si dipartivano verso l’infinito. Gli uomini delle civiltà che erano esistite prima della fondazione di Diaspar avrebbero trovato quel luogo del tutto familiare. Tuttavia per Alvin e Khedron era un lembo di un altro mondo. La funzione di quella macchina affusolata con la punta rivolta verso la lunga galleria era evidente. I due uomini la osservarono con grande meraviglia. La parte superiore era di un materiale trasparente, e guardando all’interno Alvin scorse alcune file di elegantissimi sedili. Non era possibile distinguere lo sportello di quella macchina sospesa a trenta centimetri sopra la rotaia metallica che scompariva nella galleria. Pochi passi più in là, un binario identico spariva nell’altro tunnel, ma lì non c’erano macchine in attesa. Alvin ebbe la certezza che nella lontana, sconosciuta Lys, la seconda macchina fosse in attesa in una stazione assolutamente identica. Khedron cominciò a parlare con troppa rapidità. «Che strano mezzo di trasporto! Può ospitare al massimo un centinaio di persone, quindi non ci deve essere mai stato un traffico molto intenso. Poi, perché prendersi il disturbo di scavare sotto terra, quando le vie del cielo erano ancora aperte? Forse gli Invasori avevano anche proibito di volare. Però stento a crederlo. O hanno costruito i tunnel nel periodo di transizione, quando gli uomini viaggiavano ancora ma non volevano più sentir parlare dello spazio? In questo modo potevano spostarsi da una città all’altra, senza mai vedere il cielo e le stelle.» Scoppiò in una risata nervosa. «Sono certo di una cosa, Alvin. Quando Lys esisteva, doveva essere precisa a Diaspar. Le città si assomigliano tutte. È logico che alla fine siano state abbandonate e gli uomini si siano riuniti nella sola Diaspar. A che scopo averne più di una?» Alvin non lo udiva nemmeno. Cercava l’entrata del lungo proiettile. Se la macchina era controllata da un codice d’ordine verbale o mentale, non sarebbe mai riuscito a farsi obbedire, forse, e quell’enigma lo avrebbe perseguitato per tutto il resto della vita. Lo sportello che si aprì in silenzio lo colse alla sprovvista. Non ci fu né rumore né avvertimento quando la parete sparì lasciando intravedere l’interno. Quello era il momento di fare la scelta. Fino a un attimo prima avrebbe potuto tornare sui suoi passi. Ma se varcava quella soglia, sapeva cosa sarebbe accaduto, anche se non poteva immaginare come sarebbe finita la sua avventura. Non sarebbe più stato in grado di controllare il suo destino; si sarebbe messo completamente nelle mani di forze sconosciute. Non esitò. Aveva paura di tirarsi indietro, perché quel momento tanto atteso poteva non ripresentarsi mai più. Se si ritirava, voleva dire che il suo coraggio era assai inferiore alla sua voglia di sapere. Khedron fece per parlare, ma Alvin ormai era già nella macchina. Il giovane si voltò a guardare il compagno, rimasto immobile oltre il rettangolo della porta. Cadde tra loro uno strano silenzio, mentre ognuno dei due aspettava che l’altro parlasse. La decisione venne da sé. Ci fu un debole luccichio trasparente e la parete della macchina si richiuse. Alvin alzò la mano in segno d’addio, mentre già il lungo cilindro balzava in avanti. Prima di imboccare il tunnel, il bolide aveva già raggiunto un’accelerazione notevole. C’era stato un tempo in cui, ogni giorno, milioni di uomini facevano viaggi del genere, in macchine quasi uguali a quella, per spostarsi da casa loro verso gli studi o gli affari. Da quell’epoca remota, l’uomo aveva esplorato l’universo ed era ritornato sulla Terra, aveva vinto un Impero e se l’era lasciato sfuggire; ora uno di quei viaggi veniva rifatto, con una macchina sulla quale legioni di uomini dimenticati si erano sentiti perfettamente a loro agio. Doveva essere il viaggio più sensazionale che un essere umano avesse mai compiuto da miliardi di anni. Alystra aveva ispezionato la Tomba una dozzina di volte, anche se i luoghi dove nascondersi non erano molti. Poi si era chiesta se per caso, invece di seguire Khedron e Alvin, non avesse seguito soltanto le loro proiezioni. Ma era assurdo! La propria proiezione poteva essere materializzata nel punto stesso che si desiderava visitare. Non c’era senso nel farla «passeggiare» per strada, buttando via una buona mezz’ora di tempo. No, erano il vero Alvin e il vero Khedron che lei aveva seguito fino alla Tomba. Da qualche parte, dunque, doveva esserci un’entrata segreta. Tanto valeva cercarla mentre li aspettava. Khedron riapparve proprio mentre Alystra stava guardando dietro una colonna. Lei udì dei passi, si voltò e vide subito che il Buffone era solo. «Dov’è Alvin?» gridò. Passò del tempo prima che il Buffone potesse rispondere. Sembrava agitato e smarrito, e Alystra fu costretta a ripetere la domanda. Non parve minimamente sorpreso di trovare la ragazza in quel luogo. «Non so dove sia» disse infine. «Posso dirti solo che è in viaggio per Lys. Adesso ne sai quanto me.» Non era prudente, di solito, prendere alla lettera le parole di Khedron. Ma Alystra capì subito che il Buffone non stava giocandole uno dei suoi scherzi. Khedron diceva la pura verità… qualsiasi cosa questa potesse significare. 10 Quando la porta si chiuse dietro di lui, Alvin si lasciò cadere sul sedile più vicino. Le gambe non lo reggevano; ora capiva, per la prima volta, il terrore dell’ignoto che dominava tutti i suoi compagni. La vista gli si annebbiò; tremava. Se avesse potuto fuggire dalla velocissima macchina, l’avrebbe fatto a costo di abbandonare tutti i suoi sogni. Non era solo paura, era anche un senso di indicibile solitudine. Tutto ciò che conosceva e amava era a Diaspar; anche se non correva alcun pericolo, poteva forse non vedere mai più il suo mondo. Provò, come mai nessun altro aveva provato da secoli, cosa significhi lasciare la propria patria per sempre. In quell’attimo di smarrimento, il fatto di andare forse incontro a dei pericoli non aveva nessuna importanza. Ciò che importava era che si stava allontanando da casa. A poco a poco si riebbe. Le ombre oscure sgombrarono dalla sua mente, e Alvin cominciò a guardarsi attorno per osservare il veicolo incredibilmente antico sui quale stava viaggiando. Ma non lo stupì il fatto, strano o meraviglioso, che il sistema di trasporto fosse ancora perfettamente funzionante dopo anni di immobilità. Non era conservato nei circuiti di eternità di Diaspar, ma, forse, in qualche altro luogo dovevano esserci circuiti analoghi che gli impedivano di cadere in rovina. Per la prima volta notò che il quadrante indicatore che gli stava di fronte. Portava una scritta breve, ma rassicurante: LYS — 35 minuti. Mentre guardava, il numero si cambiò in 34. Era un’informazione utile, anche se, non avendo idea della velocità della macchina, non poteva stabilire quale fosse la distanza. Le pareti del tunnel continuavano a essere una grigia macchia confusa, e la sola sensazione di movimento era data da una leggera vibrazione che non si sarebbe potuta notare senza prestare grande attenzione. Forse a quell’ora Diaspar era lontana mille chilometri. Forse la macchina stava correndo sotto le colline che si vedevano dalla Torre di Loranne. Cominciò a pensare a Lys, come se la sua mente volesse raggiungerla prima del corpo. Che tipo di città poteva essere? Riusciva solo a formarsi un’immagine identica a Diaspar, anche se più in piccolo. Si chiese se poteva esistere ancora, poi disse a se stesso che solo così poteva spiegarsi la corsa della macchina attraverso le viscere della Terra. Improvvisamente ci fu un cambiamento distinto nelle vibrazioni dell’impiantito. Il veicolo aveva diminuito la velocità, non c’era dubbio. Il tempo doveva essere trascorso con maggiore velocità di quanto avesse pensato. Piuttosto sorpreso, Alvin guardò l’indicatore: LYS — 23 minuti. Perplesso e un po’ spaventato, schiacciò la faccia contro la parete trasparente. Le mura del tunnel fuggivano via in un grigiore uniforme, ma di tanto in tanto Alvin intravedeva delle scritte che sparivano con la stessa rapidità con cui erano apparse. E ogni volta le scritte sembravano restargli davanti agli occhi per un periodo un po’ più lungo. Poi, senza nessun avvertimento, le pareti del tunnel vennero strappate dai fianchi del veicolo. Stava attraversando, sempre a grande velocità, un enorme spazio vuoto, molto più grande della sala che si trovava sotto Diaspar. Osservando pieno di meraviglia attraverso la parete trasparente, Alvin riuscì a scorgere verso il basso una complicata rete di rotaie che si incrociavano e riincrociavano per scomparire negli innumerevoli tunnel che si aprivano ai due lati. Una luce azzurra scendeva dalla cupola e, stagliati contro il chiarore, si potevano distinguere i contorni di macchine immense. La luce era tanto brillante da far socchiudere gli occhi, e Alvin comprese che quello non era un posto per esseri umani. Un attimo dopo il suo veicolo saettava accanto a una fila di cilindri sospesi immobili sulla rotaia di guida. Erano molto più grandi di quello su cui stava viaggiando lui. Con tutta probabilità erano stati adibiti al trasporto delle merci. Attorno erano sparpagliati incomprensibili e complicati meccanismi, tutti immobili e silenziosi. Quasi con la stessa velocità con cui era comparsa, la grande sala abbandonata sparì dietro il veicolo. Immediatamente dopo aver superato la grande sala, Alvin si sentì afferrare da un senso di rispetto. Per la prima volta riusciva veramente a comprendere il significato di quella immensa mappa senza luci che aveva osservato nella stazione di Diaspar. Il mondo era assai più ricco di meraviglie di quanto avesse potuto immaginare. Tornò a guardare l’indicatore. La cifra non era cambiata. Per attraversare la grande caverna avevano impiegato meno di un minuto. Il veicolo riprese velocità, anche se continuava a non esserci la sensazione di movimento. E le pareti ripresero a scorrere a una velocità che non si poteva minimamente calcolare. Gli parve che fosse trascorsa un’eternità prima che si verificasse un nuovo cambio di velocità. Ora l’indicatore diceva: LYS — 1 minuto. E quel minuto fu il più lungo che Alvin avesse mai trascorso. La velocità della macchina diminuiva gradatamente. Si stava per fermare. Il lungo cilindro scivolò fuori dal tunnel in una caverna che avrebbe potuto essere la gemella dell’altra nel sottosuolo di Diaspar. Alvin era tanto eccitato da non capire più nulla; la porta era aperta da parecchio quando lui si rese conto che poteva lasciare il veicolo. Mentre si affrettava a scendere a terra, gettò un’occhiata all’indicatore. Il messaggio era cambiato, le parole erano infinitamente più rassicuranti: DIASPAR — 35 minuti. Nel cercare la via per uscire dalla sala, Alvin scoprì il primo indizio di una civiltà diversa dalla sua. La strada per tornare alla superficie si apriva chiaramente attraverso una larga galleria… e al termine si vedeva una scala. Quella scala indicava una civiltà diversa. A Diaspar era rarissimo vederne. Dal tempo in cui la maggior parte dei robot erano stati dotati di ruote, gli architetti di Diaspar si erano affrettati a sostituirle con piani inclinati o a spirale. La scala, brevissima, terminava in una porta che si aprì automaticamente di fronte ad Alvin. Il giovane vide una cella simile all’altra che l’aveva trasportato giù nella Tomba di Yarlan Zey. Vi entrò. Pochi minuti dopo la porta si aprì di nuovo, rivelando un corridoio a volta che saliva dolcemente fino a un arco nel quale s’inquadrava un rettangolo di cielo. Non c’era stata alcuna sensazione di movimento, ma Alvin sapeva che doveva essere salito di parecchi metri. Si affrettò su per il corridoio, verso l’entrata inondata di sole. Aveva dimenticato ogni timore nell’ansietà di vedere ciò che si stendeva di fronte a lui. Si trovò sul ciglio di una collinetta e per un attimo credette di essere ancora nel Parco di Diaspar. Ma se si trattava davvero di un parco, era talmente grande che la sua mente si smarriva. La città che si era aspettato di trovare era ancora invisibile. Fin dove l’occhio poteva giungere non c’era che prato e foresta. Poi Alvin puntò lo sguardo all’orizzonte. Laggiù, al di sopra degli alberi, si stendeva da destra a sinistra una grande arco di pietra che avrebbe fatto apparire nane le più imponenti costruzioni di Diaspar. Era così lontano che i particolari si perdevano nella distanza, ma nei contorni c’era qualcosa di strano che Alvin non poteva afferrare. Poi i suoi occhi si abituarono alle dimensioni di quel colossale paesaggio; comprese allora che quelle mura laggiù non erano opera delle mani dell’uomo. Il Tempo non aveva distrutto ogni cosa; la Terra possedeva ancora montagne di cui poteva essere orgogliosa. Alvin rimase a lungo nell’imbocco della galleria, abituandosi gradatamente allo strano mondo in cui era arrivato. Ciò che più lo aveva colpito erano le dimensioni dello spazio. L’anello di montagne che lo circondava avrebbe potuto contenere una dozzina di città della grandezza di Diaspar. Ma per quanto cercasse, non c’era traccia di esseri umani. La strada che conduceva giù dalla collina, però, sembrava ben tenuta; non restava che incamminarsi. Ai piedi della collina, la strada s’insinuava in mezzo a grandi alberi che quasi nascondevano la vista del sole. Sotto quegli alberi Alvin percepì uno strano miscuglio di suoni e di profumi. Conosceva il fruscio del vento tra le foglie, ma sotto c’erano migliaia di rumori vaghi che non gli ricordavano nulla. Era stordito da quei ronzii, da quei colori sconosciuti, da quei profumi di cui non esisteva ricordo nella memoria della sua razza. Il calore, la profusione di colori e di profumi, e la presenza invisibile di milioni di esseri viventi, lo colpirono quasi con violenza fisica. Tutt’a un tratto si trovò sulla sponda di un lago. Gli alberi a destra terminarono bruscamente. Davanti a lui c’era un’immensa distesa di acqua, con alcuni isolotti sparsi qua e là. Mai in vita sua Alvin aveva visto tanta acqua; al confronto, le più grandi piscine di Diaspar non erano che pozzanghere. Si avviò lentamente lungo la sponda e raccolse un po’ d’acqua nel cavo delle mani, lasciandola scivolare tra le dita. Il grosso pesce argenteo, che apparve all’improvviso in mezzo alle canne, fu la prima creatura non umana che Alvin avesse mai visto. Avrebbe dovuto apparirgli estremamente strana, tuttavia la forma del pesce gli risultò familiare. Mentre restava sospeso nel vuoto verde pallido, con le pinne in lento movimento, il pesce sembrava l’essenza della forza e della velocità. Qui, incorporate nella carne viva, c’erano le linee slanciate delle grandi astronavi che avevano solcato i cieli della Terra. Evoluzione e scienza erano giunte a un’identica conclusione. E l’opera della natura era durata assai più a lungo. Si strappò all’incanto del lago e riprese a camminare. La foresta lo circondò di nuovo, ma solo per poco. La via terminava in una radura larga circa settecento metri e lunga il doppio, e Alvin comprese perché non aveva visto tracce di esseri umani. La spianata era piena di edifici a due piani, dipinti in colori pastello, che riposavano la vista anche sotto la luce vivida del sole. Alcuni erano semplici e funzionali, altri costruiti in un complesso stile architettonico ornato da colonnine scanalate e di fregi. In questi edifici dall’aspetto molto antico imperava l’antichissima sagoma dell’arco a sesto acuto. Mentre si avviava verso il villaggio, Alvin si sforzava di assuefarsi al paesaggio. Nulla gli era familiare; perfino l’aria era diversa, e la gente alta e bionda che si muoveva tra le case con grazia naturale apparteneva chiaramente a un’altra razza. Nessuno si occupò di Alvin, il che era perlomeno strano, perché gli abiti dello straniero erano completamente diversi dai loro. A Diaspar la temperatura era condizionata, e perciò gli abiti erano puramente ornamentali. Lì, invece, erano soprattutto funzionali, e generalmente consistevano in una specie di peplo avvolto attorno alla persona. Solo quando Alvin giunse nel cuore del villaggio, un gruppo di cinque uomini usciti da una casa avanzarono decisamente verso di lui, quasi fossero stati in attesa del suo arrivo. Alvin provò un’emozione improvvisa, il sangue cominciò a pulsargli nelle vene. E pensò a tutti i fatali incontri che nel lontano passato l’uomo aveva avuto con gli esseri dei mondi lontani. Gli esseri che lui stava per incontrare erano della sua stessa specie, ma fino a che punto erano mutati durante gli anni in cui erano stati separati dalla gente di Diaspar? La delegazione si arrestò a qualche passo da lui. Il capo sorrise e tese la mano nell’antichissimo segno di saluto. «Abbiamo giudicato più opportuno aspettarvi qui» disse. «La nostra patria è molto diversa da Diaspar, e la passeggiata dal capolinea fin qui dà ai nostri visitatori un po’ di tempo per ambientarsi.» Alvin strinse la mano dell’ospite, troppo sorpreso per rispondere. Ora capiva perché gli altri indigeni l’avevano ignorato così totalmente. «Sapevate del mio arrivo?» disse infine. «Certo. Sappiamo sempre quando c’è qualcuno in arrivo. Ditemi, come avete scoperto la linea? È passato tanto tempo dall’ultima visita. Temevamo che il segreto fosse andato perduto.» Il delegato fu interrotto da uno dei compagni. «Sarà meglio frenare la nostra curiosità, Gerane. Seranis ci aspetta.» Il nome «Seranis» fu preceduto da una parola sconosciuta che Alvin immaginò fosse un titolo. Ma non ebbe difficoltà nel comprendere tutte le altre, e non si rese conto che si trattava di un fatto sorprendente. Diaspar e Lys dividevano la stessa eredità linguistica, e l’antica invenzione che permetteva di registrare il suono aveva fissato un modello perenne di lingua. Gerane fece un gesto di ironica rassegnazione. «Benissimo» sorrise. «Seranis ha pochi privilegi, non dobbiamo privarla di questo.» Mentre avanzavano verso il centro del villaggio, Alvin studiò gli uomini che gli stavano attorno. Apparivano cortesi e intelligenti, ma queste erano virtù che lui aveva sempre considerato normali, quindi cercava qualcosa che li potesse differenziare dagli uomini di Diaspar. C’era qualche differenza, ma comunque era difficile poterla definire con esattezza. Erano più alti di Alvin, abbronzati, e due di loro mostravano gli inconfondibili segni dell’età fisica. I loro movimenti rivelavano un vigore e un’agilità che ad Alvin parvero attraenti e insieme preoccupanti. Sorrise ricordando Khedron, il quale era convinto che tutte le città si assomigliassero. Ora la popolazione del villaggio fissava Alvin con franca curiosità. All’improvviso da alcuni cespugli a destra arrivò un vocìo acuto, confuso, e un gruppo di esserini agitati saltò fuori di corsa e fece cerchio attorno ad Alvin. Il giovane si fermò strabiliato, incapace di credere ai suoi occhi. Era qualcosa che il suo mondo aveva perduto da tempo immemorabile. Ecco come un tempo incominciava la vita; quelle rumorose, affascinanti creature erano bambini. Una sensazione dolorosa e sconosciuta turbò il cuore di Alvin. Nessun’altra vista avrebbe potuto fargli capire in modo così vivido quanto lui fosse lontano dal mondo che conosceva. Diaspar aveva pagato, e pagato in pieno, il prezzo dell’immortalità. Il gruppetto si fermò davanti a un grande edificio che sorgeva proprio al centro del villaggio. Sul pennone infisso nella torretta sventolava una fiammante bandiera verde. Solo Gerane entrò con Alvin. L’interno era fresco e tranquillo. La luce che filtrava attraverso le pareti trasparenti accendeva ogni cosa di un chiarore riposante. Il pavimento era liscio e soffice, con una bella decorazione a mosaico. Sulle pareti un artista di grande valore aveva dipinto una serie di scene di foresta. Tra queste ce n’erano di quelle che Alvin non riusciva comprendere, tuttavia le guardava con grande piacere. Incastrato in una parete c’era uno schermo con una massa di colori in movimento. Forse era un visifono, anche se molto piccolo. Salirono insieme per una scala a chiocciola che portava sul tetto piatto dell’edificio. Da quel punto si vedeva l’intero villaggio che consisteva in un centinaio di edifici. In lontananza, oltre gli alberi, si scorgevano vasti prati dove pascolavano animali di razze diverse. Alvin non sapeva riconoscerli: alcuni erano quadrupedi, altri sembravano avere sei e persino otto gambe. Seranis lo aspettava all’ombra della torre. Alvin si chiese quanti anni potesse avere. I capelli biondi della donna erano striati di grigio, segno probabilmente di età matura. La vista dei bambini, con tutte le conseguenze inerenti, l’aveva lasciato molto confuso. Dove c’erano nascite doveva esserci certamente anche la morte, e forse qui la durata della vita era molto diversa che a Diaspar. Seranis poteva avere cinquanta, cinquecento, o cinquemila anni, ma nei suoi occhi c’era la stessa espressione di saggezza e di esperienza che brillava a volte in quelli di Jeserac. La donna indicò un sedile, ma sebbene sorridesse in segno di benvenuto, non disse nulla finché Alvin non si fu accomodato. Infine sospirò e si rivolse all’ospite in tono gentile. «Questa è un’occasione che non si presenta spesso, per cui vogliate scusarmi se non conosco le maniere adatte. Prima di tutto, c’è una cosa di cui devo informarvi. Posso leggervi nel pensiero.» Sorrise, vedendo l’aria costernata di Alvin, e soggiunse prontamente: «Non avete ragione di preoccuparvi. Qui si ha il massimo rispetto per il segreto dei pensieri altrui. Entrerò nella vostra mente solo se me ne darete il permesso. Certo non sarebbe stato simpatico nascondervi questa nostra facoltà, e la cosa vi aiuterà a capire perché per noi la parola è un mezzo un po’ lento e incompleto. Non la usiamo molto spesso». La rivelazione non sorprese Alvin. Un tempo uomini e macchine avevano posseduto quel potere, e le macchine, immutabili, potevano ancora leggere gli ordini nella mente dei padroni. Poi, a Diaspar, l’uomo aveva perso quella facoltà che un tempo divideva con le macchine sue schiave. «Non so cosa vi abbia condotto a Lys» continuò Seranis «ma se siete in cerca di zone abitate, le vostre ricerche terminano qui. A parte Diaspar, oltre le nostre montagne non c’è altro che deserto.» Strano come Alvin, che aveva contrastato tanto spesso le opinioni universalmente condivise, non dubitò affatto in quel momento delle parole di Seranis. Pensava soltanto con amarezza che tutto quanto gli avevano insegnato rispondeva quasi alla verità. «Parlatemi di Lys» pregò. «Perché siete stati tagliati fuori da Diaspar? E come fate a sapere tante cose di noi?» «Vi accontenterò. Ma prima vorrei sapere qualcosa di voi. Come avete trovato la linea di trasporto, e perché siete venuto qua?» Dapprima esitante, poi sempre con maggiore confidenza, Alvin raccontò la sua storia. Non aveva mai parlato con tanta libertà; qui almeno c’era qualcuno che non avrebbe riso dei suoi sogni, poiché a Lys sapevano che quei sogni erano veri. Una o due volte Seranis lo interruppe con qualche domanda, quando lui menzionò alcuni aspetti di Diaspar che le erano sconosciuti. Era difficile per Alvin rendersi conto che certi particolari della sua vita di ogni giorno potevano essere privi di significato per chi non aveva mai vissuto nella città e non ne conosceva la complessa cultura e l’organizzazione sociale. Seranis ascoltò con grande interesse, e Alvin capì che aveva perfettamente compreso ogni cosa. In seguito si rese conto che molte altre menti avevano ascoltato le sue parole. Quand’ebbe finito, ci fu un istante di silenzio. Poi Seranis lo guardò e chiese dolcemente: «Perché siete venuto a Lys?». Alvin la guardò senza capire. «Ve l’ho detto» ripeté. «Volevo esplorare il mondo. Tutti mi dicevano che all’esterno non c’era che deserto, ma io volevo accertarmene coi miei occhi.» «È stata la sola ragione?» Alvin esitò. Quando rispose, non fu l’indomito esploratore a parlare, ma il ragazzo smarrito, venuto al mondo in un ambiente a lui estraneo. «No» fece lentamente «non è stata questa la sola ragione… Sebbene me ne renda conto soltanto ora. Mi sentivo molto solo.» «Solo? A Diaspar?» Seranis sorrise, ma i suoi occhi erano pieni di comprensione e simpatia. Alvin capì che si aspettava quella risposta. Ora che aveva raccontato la sua storia, aspettò che Seranis adempisse la promessa. La donna si era alzata in piedi, e percorreva il terrazzo in su e in giù. «So quel che volete conoscere» disse. «Potrei tentare di rispondere alle vostre domande, ma sarebbe faticoso farlo a parole. Se volete aprire la mente, dirò tutto molto più chiaramente. Potete fidarvi; non leggerò nel vostro pensiero senza il vostro permesso.» «Che dovrei fare?» s’informò Alvin, prudentemente. «Guardatemi negli occhi… ecco… dimenticate tutto il resto.» Alvin non capì mai ciò che avvenne dopo. Ci fu l’eclissi totale di tutti i suoi sensi, e sebbene non potesse ricordare come l’avesse acquistata, quando ritornò in sé la sua mente possedeva la conoscenza. Poté guardare indietro nel passato, non chiaramente, ma come qualcuno che da un’alta cima osservi una pianura sconfinata. Comprese che l’Uomo non aveva sempre abitato nelle città e che, dal tempo in cui le macchine l’avevano affrancato dal lavoro, c’era sempre stata rivalità tra i due differenti tipi di civiltà. Nei tempi antichissimi esistevano migliaia di città, ma una larga parte dell’umanità aveva preferito vivere in comunità extraurbane relativamente piccole. Trasporti e comunicazioni permettevano qualsiasi contatto col resto del mondo, mentre si poteva evitare di vivere in quei grossi agglomerati insieme a molti milioni di altri individui. Lys si era costituita come molte altre comunità. Col tempo, però, aveva sviluppato una propria cultura indipendente, di un livello superiore a qualsiasi altra. Era una cultura basata sull’uso diretto delle facoltà mentali, il che la separava da tutte le altre comunità umane che si servivano sempre più della tecnica. Attraverso gli eoni, con il procedere su strade diverse, l’abisso morale tra Lys e le altre città si era allargato. I contatti erano stati ripresi solo nei momenti di grande crisi: quando la Luna era uscita dalla sua orbita, erano stati gli scienziati di Lys a distruggerla. Gli stessi avevano tenuto a bada gli Invasori nella battaglia finale di Shalmirane. Il grande sforzo aveva esaurito l’umanità; una per una le città erano morte, e il deserto le aveva ingoiate. Gli uomini avevano cominciato la grande migrazione che doveva fare di Diaspar l’ultima e la più grande città. Lys era rimasta indenne, ma aveva dovuto combattere la sua battaglia col deserto. La barriera naturale delle montagne non era sufficiente, e c’erano volute intere ere per rendere sicura la grande oasi. A questo punto la visione si offuscò. Alvin non poté scoprire con quale mezzo Lys si fosse assicurata l’eternità. La voce di Seranis parve giungere da un punto lontanissimo, ma non fu la sua voce sola. Fu una sinfonia di parole, come se molte voci stessero cantando all’unisono con lei. «Questa, in breve, è la nostra storia. Come avete visto, fin dai tempi più remoti avevamo poco in comune con le altre città. Quando le altre si sono estinte abbiamo lottato per non essere trascinati nella distruzione. Con la fine dei trasporti aerei è restata un’unica via di allacciamento con Lys: la sotterranea Lys-Diaspar. Dalla parte vostra, è stata chiusa quando hanno costruito il Parco, e voi ci avete dimenticati. Noi, però, non vi abbiamo dimenticati. «Diaspar ci ha sorpresi. Ci aspettavamo che seguisse il destino delle altre città, mentre invece ha raggiunto una cultura stabile che può durare fin che dura la Terra. Non è una cultura che ammiriamo, però siamo contenti che quelli che desiderano sfuggirvi siano in grado di farlo. Questo viaggio l’hanno fatto più di quanti possiate pensare, ed erano tutti uomini di valore che, venendo a Lys, ci hanno portato il loro contributo.» La voce svanì; la paralisi dei sensi di Alvin cessò e il giovane riprese perfettamente coscienza. Si accorse meravigliato che il sole era basso nel cielo, e che già da oriente avanzava la notte. In distanza una campana fece udire un sonoro rintocco, che lasciò l’aria piena di mistero e di solennità. Alvin ebbe un brivido. Era tardi e si trovava lontano da casa. Provò il bisogno improvviso di rivedere i suoi amici, di ritrovarsi nell’ambiente familiare di Diaspar. «Debbo tornare» disse «Khedron… i miei genitori… saranno in pensiero.» Non era l’intera verità. Certamente Khedron si stava chiedendo cosa poteva essergli capitato, ma, per quanto ne sapeva, nessun altro era a conoscenza della sua fuga da Diaspar. Non sapeva spiegarsi la ragione della piccola bugia, e si vergognò di se stesso non appena pronunciate le parole. Seranis lo guardò pensosa. «Temo che non sia tanto facile.» «Perché? La sotterranea che mi ha condotto fin qui non può ricondurre a Diaspar?» L’aveva sfiorato il sospetto che forse avrebbe dovuto restare per sempre prigioniero a Lys, ma si rifiutava di credervi. Seranis, per la prima volta, parve leggermente a disagio. «Abbiamo parlato di voi» disse, senza spiegare cosa intendesse con «abbiamo», né come avesse fatto a consultarsi con gli altri. «Se ritornerete a Diaspar, l’intera città saprà della nostra esistenza. Anche se ci promettete di non dir nulla, vi sarà impossibile mantenere il segreto.» «Perché dovrei tenerlo? Sarebbe un’ottima cosa per i nostri popoli rimettersi in contatto.» «Non siamo di questo parere.» Seranis pareva contrariata. «Se apriremo le porte, la nostra terra verrà invasa dai curiosi e dai tipi in cerca di avventure. Finora, solo i migliori di voi sono giunti fin qua.» La risposta era piena di inconscia superiorità, tuttavia era basata su presupposti sbagliati. Alvin si sentì seccato, tanto da dimenticare la paura. «Non è vero. E poi, nessuno a Diaspar vorrebbe lasciare la città, anche se sapesse che c’è un altro luogo abitato. Lasciatemi tornare a casa; per Lys la cosa non porterà nessun cambiamento.» «Non sta a me decidere. Del resto, sottovalutate le facoltà della mente se pensate che le barriere che tengono la vostra gente rinchiusa a Diaspar non possano crollare. Comunque, non possiamo trattenervi contro la vostra volontà, ma se tornerete a Diaspar dobbiamo prima cancellare dalla vostra mente il ricordo di Lys.» Seranis esitò. «Questo, però, non è mai accaduto. Tutti i vostri predecessori hanno chiesto di restare.» Alvin si rifiutava di accettare quella scelta. Voleva esplorare Lys, scoprirne i segreti, sapere quanto fosse diversa dalla sua patria. Nello stesso tempo era ben deciso a tornare a Diaspar, per provare ai suoi amici di non essersi illuso. Non poteva capire perché dovesse mantenere il segreto. Doveva prendere tempo, o convincere Seranis che gli stava chiedendo una cosa impossibile. «Khedron sa che sono qui. Non potete cancellare anche i suoi ricordi.» Seranis sorrise. Il sorriso era dolce, cordiale, ma Alvin non s’illuse. Dietro quel sorriso si nascondeva una volontà implacabile. «Ci sottovalutate, Alvin. Sarebbe una cosa da nulla. Posso raggiungere Diaspar più presto di quanto impieghi ad attraversare Lys. Altri, venuti prima di voi, avevano detto ai loro amici dove erano diretti. Ma gli amici li hanno dimenticati ed essi sono spariti dalla storia di Diaspar.» Alvin era stato uno stupido a ignorare quella possibilità. Era ovvia, ora che Seranis ne aveva parlato. Si domandò quante volte, nei milioni di anni da che le due culture si erano separate, uomini di Lys erano entrati a Diaspar per fare in modo che la loro esistenza non venisse scoperta. E si domandò anche quale estensione poteva avere la loro potenza mentale. Quella potenza che non esitavano a usare. Era prudente fare dei piani? Seranis aveva promesso che non avrebbe letto nella sua mente senza permesso. Ma potevano esserci delle circostanze in cui la promessa non sarebbe stata mantenuta… «Non potete pretendere che prenda una decisione su due piedi. Posso vedere qualcosa del vostro paese prima di fare la mia scelta?» «Certo. Potete restare finché vi piacerà, e tornare a Diaspar in qualunque momento, qualora cambiaste idea. Ma se potete prendere questa decisione nei prossimi giorni, sarà meglio. Non voglio che i vostri amici si spaventino, e quanto più resterete lontano da casa, tanto più mi sarà difficile prendere i provvedimenti necessari.» Alvin sarebbe stato curioso di sapere quali fossero quei provvedimenti. Forse qualcuno di Lys si sarebbe messo in contatto con Khedron, senza che il Buffone se ne rendesse conto, e ne avrebbe alterato i ricordi. La scomparsa di Alvin sarebbe stata notata, ma le notizie che lui e Khedron avevano raccolto sarebbero andate perdute. Col passare dei secoli, il nome di Alvin si sarebbe aggiunto a quello degli altri Unici misteriosamente scomparsi senza lasciare traccia, e sarebbe stato dimenticato. C’erano molti misteri in quel luogo, e per ora gli sembravano insolubili. Il collegamento unilaterale tra Lys e Diaspar era un banale incidente storico o nascondeva qualche segreto proposito? Chi e cosa erano gli Unici, e se la gente di Lys poteva entrare in Diaspar, perché nessuno aveva mai cancellato dai circuiti-memoria quel filo che conduceva alla scoperta dell’esistenza di Lys? Forse quella era l’unica domanda cui Alvin poteva rispondere. Il Computer Centrale era un avversario troppo potente, che non si sarebbe lasciato impressionare nemmeno dai più progrediti cultori di tecnica mentale… Mise da parte il problema; un giorno, grazie a una maggiore esperienza, ci sarebbe tornato sopra. Era inutile speculare, costruire piramidi di congetture su una base di ignoranza. «Benissimo» disse, seccato per quell’imprevisto ostacolo sulla sua strada. «Vi darò la risposta al più presto possibile… ma dovete mostrarmi la vostra terra.» «D’accordo.» Il sorriso di Seranis non conteneva più alcuna minaccia. «Siamo fieri di Lys. Sarà un piacere mostrarvi come gli uomini possono vivere senza l’aiuto delle città. Nel frattempo, non preoccupatevi… I vostri amici non saranno allarmati per la vostra assenza. Provvederemo noi, solo per misura precauzionale.» Per la prima volta, Seranis aveva fatto una promessa che non avrebbe potuto mantenere. 11 Nonostante ogni sforzo, Alystra non riuscì a cavare altro da Khedron. Il Buffone si era riavuto abbastanza presto dal colpo iniziale e dal panico che l’aveva spinto a tornare alla superficie quando si era trovato da solo nella profondità della Tomba. Era un po’ vergognoso del suo contegno di codardo e si domandava se avrebbe mai trovato il coraggio di ridiscendere. Alvin, se non proprio incosciente, era stato un po’ più ardito, e Khedron era certo che non avrebbe corso nessun pericolo e che ben presto sarebbe ritornato. Be’, quasi certo; c’era quel tantino di dubbio che giustificava una certa precauzione. Sarebbe stato prudente, quindi, tenere la cosa segreta o far credere a uno dei suoi soliti scherzi. Purtroppo non era riuscito a mascherare la sua agitazione agli occhi di Alystra. Lei gli aveva letto la paura negli occhi e l’aveva interpretata come un segno che Alvin si trovava in pericolo. Khedron aveva cercato invano di rassicurarla. La ragazza se l’era presa con lui, e si era sempre più incollerita mentre attraversavano il Parco, In un primo momento Alystra aveva deciso di restare alla Tomba e aspettare che Alvin tornasse nella stessa misteriosa maniera in cui era scomparso. Khedron aveva fatto in modo di convincerla che sarebbe stata una inutile perdita di tempo, e si era sentito sollevato quando l’aveva vista riprendere con lui la strada per tornare in città. C’era la possibilità che Alvin tornasse subito, e Khedron non voleva che qualcun altro scoprisse il segreto di Yarlan Zey. Quando raggiunsero la città era ormai evidente che la tattica evasiva di Khedron era fallita in pieno e che la situazione gli era seriamente sfuggita di mano. Si trovava, per la prima volta nella sua vita, con le spalle al muro, e non si sentiva in grado di fronteggiare i problemi che potevano nascere. L’improvvisa e irrazionale paura venne lentamente rimpiazzata da un profondo e più fondato allarme. Fino a quel momento Khedron non aveva mai dato un grande valore a quelle che potevano essere le conseguenze dei suoi atti. La sua stessa curiosità e la lieve ma vera simpatia che provava per Alvin erano state un motivo sufficiente per fare tutto ciò che aveva fatto. Anche se aveva dato il suo incoraggiamento e il suo aiuto ad Alvin, non aveva mai creduto che sarebbe veramente capitata una cosa del genere. Nonostante l’abisso di anni e di esperienza che li separava, la volontà di Alvin era sempre stata più forte della sua. In quel momento era troppo tardi per fare qualcosa. Khedron sentiva che gli eventi lo stavano trascinando verso una situazione completamente al di fuori del suo controllo. Date tutte queste cose, era ingiusto che Alystra lo considerasse il cattivo genio di Alvin e che lo accusasse di tutto quel che era accaduto. Alystra non era vendicativa, ma era in collera, e parte della sua irritazione si sfogò su Khedron. Se ciò che stava per fare gli avrebbe procurato dei guai, lei non se ne sarebbe certo rammaricata. Si separarono nel più gelido silenzio, all’uscita del Parco. Khedron restò a fissare Alystra che spariva in lontananza, chiedendosi cosa avrebbe combinato ora quella ragazza. C’era solo una cosa di cui poteva essere certo: per un po’ la noia non avrebbe costituito un problema. Alystra agì con prontezza e intelligenza. Scartò subito l’idea di informare Eriston ed Etania; i genitori di Alvin erano due simpatiche nullità per cui lei provava un certo affetto, ma nessun rispetto. Oltre a sprecare tempo in chiacchiere inutili avrebbero potuto fare solo quel che lei aveva già in mente: rivolgersi al tutore. Jeserac ascoltò il racconto dominando benissimo ogni emozione. Tanto bene, che Alystra ne restò quasi seccata. Le sembrava che una cosa tanto importante e straordinaria non fosse mai successa prima di allora, e il comportamento indifferente di Jeserac la deluse. Quando la ragazza ebbe finito di parlare, Jeserac le fece altre domande, lasciando intendere che, secondo lui, aveva preso un abbaglio. Per quale ragione credere che Alvin avesse lasciato la città? Non poteva essere uno scherzo fatto a lei? Era probabilissimo, data la presenza di Khedron. Magari, proprio in quel momento, Alvin, nascosto da qualche parte, se la stava ridendo beatamente. L’unica reazione positiva che riuscì a strappare a Jeserac fu la promessa che avrebbe fatto un’inchiesta, e che le avrebbe fatto sapere qualcosa. Lei, dal canto suo, non avrebbe fatto parola con nessuno. Era illogico spargere l’allarme per un incidente che si sarebbe forse chiarito in poche ore. Alystra si congedò da Jeserac piuttosto frustrata. Sarebbe stata di tutt’altro umore se avesse potuto seguire il contegno del tutore subito dopo la sua partenza. Jeserac, che aveva fatto parte un tempo del Consiglio, aveva parecchi amici influenti. Chiamò i tre più fidati e accennò loro la cosa. Come tutore di Alvin si trovava in una posizione delicata. Per il momento, era bene essere in pochi al corrente del fatto. Furono tutti d’accordo: il primo passo da fare era mettersi in contatto con Khedron. Ma Khedron, che l’aveva previsto, si era reso irreperibile. Se c’era qualcosa di ambiguo nella posizione di Alvin, i suoi ospiti avevano tanto tatto da non ricordarglielo. Era libero di andare dovunque gli piacesse, ad Airlee, il piccolo villaggio sul quale Seranis governava. Governare era forse una parola troppo forte per esprimere le reali funzioni di Seranis. A volte la donna sembrava un dittatore benevolo, a volte pareva non avere alcun potere. Per ora Alvin non era riuscito affatto a comprendere il sistema sociale di Lys, forse perché era troppo semplice, o forse perché tanto complesso che i suoi ordinamenti gli sfuggivano. Per certo Alvin sapeva che Lys era divisa in innumerevoli villaggi, dei quali Airlee era un esempio tipico. E tuttavia non esistevano esempi tipici, poiché gli avevano assicurato che ogni villaggio faceva di tutto per essere il più possibile diverso dai suoi vicini. C’era da fare una confusione spaventosa. Airlee, così piccolo e con meno di mille abitanti, era pieno di sorprese. Non c’era un solo aspetto della vita che non differisse in pieno dall’equivalente a Diaspar. E questo perfino in cose fondamentali come la parola. Qui solo i piccoli parlavano; gli adulti di rado, e quando lo facevano era più che altro per un riguardo ad Alvin. Era sconcertante trovarsi solo in mezzo a quella rete di comunicazioni senza suono, indistinguibili. Ma poco alla volta Alvin ci fece l’abitudine. Trovava strano che la parola fosse sopravvissuta, dato che era diventata inutile, ma in seguito si accorse che alla gente di Lys piaceva molto cantare e che amava ogni forma musicale. Senza quell’incentivo, forse da lungo tempo sarebbero stati completamente muti. Tutti erano occupatissimi, intenti a problemi e compiti che parevano ad Alvin incomprensibili. A suo giudizio, facevano un sacco di cose inutili. Invece di usare cibi sintetici, coltivavano quasi tutto. Se Alvin faceva un commento, gli spiegavano pazientemente che era bello veder crescere le piantine, fare esperimenti genetici, ottenere nuovi sapori e aromi. Airlee era famosa per la sua frutta, ma Alvin non la trovò affatto migliore di quella che avrebbe potuto materializzare a Diaspar con un semplice cenno della mano. Dapprima si chiese se la gente di Lys avesse perduto, o non avesse mai posseduto, le forze e le macchine sulle quali si basava la vita a Diaspar. Ben presto si rese conto che non si trattava di questo. Le macchine e la tecnica esistevano, ma si ricorreva a esse solo quando era indispensabile. Il sistema di trasporti, per esempio, se poteva essere degno di questo nome. Per le distanze brevi, la gente andava a piedi e ci trovava gusto. Se avevano fretta, o dovevano trasportare un piccolo carico, si servivano di animali. C’erano gli animali da tiro, bestie basse, a sei gambe, docili e non molto intelligenti. Gli animali da corsa erano invece a quattro zampe, ma se dovevano correre alla massima velocità si servivano soltanto delle zampe posteriori. Potevano attraversare Lys in poche ore e il passeggero se ne stava a cavalcioni su una seggiolina legata alla groppa con cinghie. Niente al mondo avrebbe indotto Alvin a correre un simile rischio, sebbene quello sport fosse molto popolare tra i giovani. I corsieri di razza erano l’aristocrazia del mondo animale, e lo sapevano benissimo. Erano in grado di parlare, e Alvin li sentì vantarsi di vittorie passate e future. Quando cercava di mostrarsi cordiale e tentava di unirsi alla loro conversazione, loro facevano finta di non capirlo, e se insisteva, si allontanavano con aria di dignità oltraggiata. Quelle due qualità di animali riuscivano a soddisfare tutte le normali necessità, e potevano dare ai padroni un piacere che nessuna macchina sarebbe riuscita a supplire. Se invece occorreva una velocità massima, o c’erano grossi carichi da trasportare, si ricorreva alle macchine. Il mondo animale era per Alvin una continua scoperta, ma quel che proprio l’affascinava erano le due età estreme della popolazione: i giovanissimi e i vecchi. Il più anziano di Airlee aveva sì e no toccato il secondo secolo di vita, e non gli restava molto, ormai. A quell’età, pensava Alvin, lui sarebbe stato circa come ora, mentre quel vecchio, che non aveva davanti a sé una catena di esistenze future come compenso, era arrivato al limite delle sue forze fisiche. I capelli erano tutti candidi, la faccia era una massa incredibilmente intricata di rughe. Passava la maggior parte del tempo seduto al sole, o passeggiando nel villaggio e scambiando saluti con quelli che incontrava. Per quel che poteva dire Alvin, sembrava assolutamente contento, non chiedeva di vivere ancora a lungo, e non era affatto rattristato all’idea della morte. La filosofia di quella gente era così in antitesi con quella di Diaspar che Alvin non ci si raccapezzava. Perché si doveva accettare di morire quando c’era la possibilità di vivere per migliaia di anni e poi di restare in letargo per qualche altro millennio, preparandosi a rinascere per vivere in quel mondo che si aveva contribuito a creare? Era ben deciso a risolvere quel mistero non appena gli fosse capitata l’occasione di discuterne con franchezza. Gli era difficile credere che Lys avesse fatto di sua volontà quella scelta, sapendo che esisteva un’alternativa. Trovò parte della risposta tra i bambini, quelle piccole creature più strane degli animali. Trascorse gran parte del suo tempo in mezzo a loro, osservandoli giocare o prendendo parte ai loro giochi. Certe volte non gli sembravano nemmeno umani con quella loro logica e perfino quel linguaggio così particolari. Guardava incredulo gli adulti, chiedendosi come era possibile che fossero stati prima simili a quelle straordinarie creature che parevano passare la vita in un mondo loro proprio. Eppure, anche quando lo sconcertavano, facevano nascere nel suo cuore un sentimento che lui non aveva mai conosciuto. Quando, come accadeva a volte, scoppiavano in lacrime di delusione o di rabbia, i loro piccoli crucci gli sembravano più tragici della reclusione dell’Uomo. La perdita dell’Impero Galattico era qualcosa di troppo grande e di troppo remoto per la comprensione di oggi, mentre il pianto di un bambino faceva male al cuore. Alvin aveva incontrato l’amore a Diaspar; ora stava imparando qualcosa di altrettanto prezioso, senza il quale l’amore stesso non avrebbe mai potuto raggiungere il suo più alto appagamento, ma avrebbe dovuto rimanere incompleto per sempre. Stava imparando la tenerezza. Mentre Alvin studiava Lys, Lys studiava Alvin e ne era piuttosto soddisfatta. Tre giorni dopo, Seranis propose all’ospite di visitare il resto del territorio. Alvin accettò con entusiasmo, a condizione che non pretendessero di farlo cavalcare su uno di quegli scalpitanti animali. «Vi assicuro» rise Seranis, divertita «che nessuno si sognerebbe di rischiare una di quelle preziose bestie. Dato il caso eccezionale, vi offrirò il più comodo dei nostri mezzi di trasporto. Hilvar vi farà da guida, ma potrete andare dove volete.» Alvin fece le sue brave riserve su questo. Sapeva che, se avesse tentato di ritornare in cima alla collina dalla quale era arrivato, avrebbe incontrato parecchie obiezioni. Comunque, per il momento non aveva fretta di ritornare a Diaspar e, per la verità, dopo il primo incontro con Seranis non aveva più pensato al problema. La vita a Lys era nuova e interessante, e per il momento Alvin si accontentava di vivere alla giornata. Apprezzò il gesto di Seranis, che gli aveva offerto suo figlio come guida anche se dovevano aver certamente dato a Hilvar l’incarico di badare che non si cacciasse in qualche guaio. C’era voluto un po’ di tempo perché Alvin si abituasse a Hilvar, per una ragione che non avrebbe potuto confessare senza ferire i sentimenti dell’altro. La perfezione fisica era così universale a Diaspar, che la bellezza personale era una qualità priva di valore e nessuno ci faceva caso. A Lys le cose erano diverse. L’attributo più lusinghiero che poteva essere usato per Hilvar era «un tipo alla buona». Secondo i concetti di Alvin, Hilvar era decisamente brutto, tanto che all’inizio l’aveva evitato. Se anche Hilvar se n’era accorto, non l’aveva dato a vedere, e dopo non molto il suo carattere dolce e cordiale spezzò la barriera sorta tra loro. Ben presto Alvin doveva fare una tale abitudine al largo sorriso di Hilvar, alla sua forza e alla sua simpatia, da non poter più capacitarsi del perché l’avesse trovato repellente, e da non volerlo cambiare per nessun motivo. I due lasciarono Airlee poco dopo l’alba, in un piccolo veicolo che Hilvar chiamava vettura e che era basato sullo stesso principio di quello che aveva trasportato Alvin da Diaspar. Fluttuava nell’aria a pochi centimetri dal suolo, e sebbene non esistesse alcun segno di binario, Hilvar spiegò che le vetture potevano seguire solo determinati percorsi. Tutti i centri abitati erano legati tra loro in quel mondo, ma durante la sua intera permanenza a Lys, Alvin non vide un solo veicolo terrestre in funzione. Hilvar ci teneva alla spedizione quasi quanto Alvin; e s’era dato un gran daffare per organizzare i preparativi. Aveva stabilito l’itinerario tenendo cura di certi suoi interessi particolari. La storia naturale era la sua grande passione. Sperava di scoprire insetti sconosciuti nelle regioni poco abitate che aveva intenzione di visitare. Aveva stabilito che sarebbero andati a sud finché la macchina li avesse portati, e poi avrebbero proseguito a piedi. Alvin, senza rendersi conto di ciò che questo implicava, non mosse obiezioni. Nel loro viaggio li accompagnava anche Krif, il più spettacolare degli animali di Hilvar. Quando Krif riposava, le sei ali trasparenti stavano ripiegate lungo il corpo facendolo somigliare a uno scettro ricoperto di gioielli. Quando veniva disturbato, si alzava nell’aria con un fremito di colori. Il grosso insetto rispondeva quando veniva chiamato e obbediva a certi semplici ordini, ma era quasi totalmente senza cervello. Tuttavia aveva una sua personalità definita, e per qualche ragione particolare era sospettoso di Alvin, tanto da rendere inutile ogni tentativo di farglisi amico. Il viaggio attraverso Lys pareva ad Alvin come un sogno. La macchina, silenziosa come un fantasma, si apriva la via nei boschi senza mai deviare dal suo invisibile binario. Andava dieci volte più in fretta di un uomo a piedi; raramente, a Lys, la premura esigeva maggiore velocità. Oltrepassarono parecchi villaggi, alcuni più grandi, ma quasi tutti simili ad Airlee. Alvin stava attento a cogliere le leggere ma significative differenze degli abiti, e un poco anche dei caratteri somatici, che c’erano tra una comunità e l’altra. Lys si componeva di centinaia di culture distinte, ciascuna delle quali apportava un suo talento particolare alla società. Il veicolo era abbondantemente provvisto del più famoso prodotto di Airlee: delle piccole pesche gialle che venivano sempre ricevute con gioia ogni volta che Hilvar le distribuiva. Hilvar si fermava spesso per chiacchierare con amici e presentarli ad Alvin, e ogni volta Alvin restava impressionato dalla cortesia che usavano verso di lui, ricorrendo al linguaggio parlato non appena venivano a sapere chi fosse. A volte doveva essere noioso per loro ma, da quanto poteva giudicare, riuscivano sempre a resistere alla tentazione di comunicare telepaticamente, e lui non si sentì mai escluso dalla conversazione. La sosta più lunga avvenne in un paesino seminascosto da un’alta erba dorata che ondeggiava dolcemente al vento, al di sopra delle loro teste. Avanzando venivano continuamente colpiti dagli steli che ondeggiavano sopra di loro. In un primo momento fu irritante, perché Alvin aveva la sensazione che l’erba si piegasse per osservarlo, poi ci si abituò. Alvin scoprì ben presto la ragione della fermata. Tra la piccola folla che si era fatta incontro alla vettura c’era una timida ragazza bruna che Hilvar presentò come Nyara. Nyara e Hilvar erano evidentemente felici di vedersi, e Alvin provò un po’ d’invidia per quella gioia a lui sconosciuta. Hilvar era combattuto fra i suoi doveri di guida e il desiderio di restare solo con Nyara; Alvin lo salvò subito dalla difficile situazione allontanandosi per una passeggiatina. Non c’era molto da vedere nel villaggio, ma il giovane fece di tutto per perdere tempo. Quando si rimisero in cammino, avrebbe voluto fare a Hilvar molte domande. Non riusciva a immaginare come potesse essere l’amore in una società telepatica. Prese il coraggio a due mani e affrontò l’argomento. Hilvar lo accontentò di buon grado, sebbene Alvin avesse il sospetto di avergli fatto interrompere un tenero e prolungato scambio di addii mentali. A Lys, spiegò Hilvar, tutti gli amori cominciavano con un contatto mentale e potevano passare mesi, perfino anni, prima che una coppia si incontrasse. In questo modo non potevano esserci impressioni false, né tradimenti. Due persone non potevano avere segreti l’una per l’altra se le loro menti erano in contatto diretto. Se uno dei due nascondeva qualcosa, l’altro se ne accorgeva immediatamente. Solo personalità mature e ben equilibrate potevano affrontare tanta onestà; solo un amore privo di qualsiasi egoismo poteva sopravvivere. Alvin capiva benissimo che un simile amore sarebbe stato più profondo e più ricco di quelli che nascevano fra la sua gente; sarebbe stato così perfetto, anzi, che quasi stentava a credere che potesse davvero realizzarsi. Pure Hilvar assicurava di sì e restò con gli occhi fissi, perduto nei suoi sogni, quando Alvin lo pregò di essere più esplicito. C’erano cose che non si potevano comunicare: o uno le sentiva, oppure no. Alvin concluse con tristezza che non sarebbe mai riuscito a raggiungere quel grado di comprensione reciproca che per questa gente fortunata rappresentava la base dell’esistenza. La savana terminò bruscamente, come se ci fosse tracciato un confine oltre il quale l’erba non poteva più crescere. Di fronte si ergeva una catena di dolci colline boscose. La catena, spiegò Hilvar, era una propaggine del bastione principale posto a guardia di Lys. Le montagne vere e proprie erano al di là, ma per Alvin perfino quelle collinette rappresentavano una vista imponente e piena di fascino. La vettura si arrestò in una valletta illuminata dagli ultimi raggi del sole ormai al tramonto. Hilvar gettò ad Alvin un’occhiata candida e, si sarebbe potuto giurare, del tutto innocente. «E ora dobbiamo metterci in cammino» disse allegro, mettendosi a scaricare il bagaglio. «In vettura non è possibile proseguire oltre.» Alvin guardò le colline, poi il comodo sedile sul quale aveva viaggiato. «Non c’è una strada che giri attorno?» chiese, con poca speranza. «C’è, ma noi non giriamo attorno. Andiamo sulla cima, il che è molto interessante. Inserisco il comando automatico sulla vettura, così la troveremo ad aspettarci quando scenderemo dall’altro versante.» Alvin, ben deciso a non arrendersi senza combattere, fece un ultimo tentativo. «Tra poco sarà buio. Non ce la faremo a fare tutta quella strada prima di notte.» «Appunto» fece Hilvar, scaricando pacchi e attrezzature con la massima rapidità. «Passeremo la notte sulla cima, e domattina scenderemo.» Alvin capì di essere battuto. L’equipaggiamento che dovevano trasportare sembrava enorme, ma in pratica non pesava nulla. Tutto era imballato in scatole con polarizzatore di gravità che neutralizzavano il peso, per cui bisognava vincere solo la resistenza dell’inerzia. Finché tirava diritto, Alvin non si accorgeva affatto di essere carico, ma quegli imballaggi richiedevano un po’ di pratica perché appena tentava di cambiare un poco direzione i bagagli sembravano sviluppare una personalità ostinatissima e parevano voler proseguire nella direzione di prima. Quando Hilvar ebbe legate tutte le cinghie, e dopo essersi assicurato che tutto era in ordine, cominciarono a salire lentamente. Alvin si voltò un attimo a guardare con occhi di desiderio la vettura che spariva alla loro vista, chiedendosi quante ore sarebbero trascorse prima di potersi abbandonare di nuovo su quei comodi cuscini. Nonostante ciò, era piacevole salire col sole che batteva sulla nuca e vedere che al di sotto il paesaggio si faceva sempre più ampio. Stavano percorrendo un sentiero poco battuto che spariva di tanto in tanto, ma Hilvar riusciva a seguirlo anche quando Alvin credeva che se ne fosse perduta la traccia. Hilvar spiegò che il sentiero era stato fatto da certe bestiole che vivevano su quelle colline, alcune solitarie, altre in piccole comunità che riproducevano vagamente gli schemi della società umana. Alcune avevano persino scoperto, o lo avevano appreso da altri, l’uso degli utensili e del fuoco. Ad Alvin non venne mai il sospetto che quelle creature potessero anche essere ostili. Tutti e due, sia lui che Hilvar, davano per scontato il contrario. Da tempi immemorabili, nessuno aveva mai cercato, sulla Terra, di ostacolare la supremazia dell’Uomo. Camminavano da circa mezz’ora quando Alvin colse nell’aria un lontano mormorio. Non riusciva a stabilirne l’origine, poiché non pareva venire da alcuna particolare direzione. Era un brontolio incessante, che aumentava a mano a mano che il paesaggio si allargava sotto di loro. Avrebbe voluto chiedere spiegazioni a Hilvar, ma preferiva risparmiare il fiato per cose più essenziali. Alvin era sanissimo, anzi non aveva mai conosciuto un’ora di malessere in tutta la sua vita. Ma la robustezza non era sufficiente per quella sfacchinata; occorreva l’esercizio. I passi leggeri di Hilvar, l’agilità con la quale si arrampicava su per il pendio, lo riempivano d’invidia. Era deciso a non darsi per vinto finché gli fosse restato un po’ di fiato. Sapeva benissimo che Hilvar lo stava mettendo alla prova, ma non era offeso. La competizione era in un certo senso divertente e Alvin ne apprezzava lo spirito, anche se cominciava a sentire i muscoli indolenziti. A due terzi di strada Hilvar s’impietosì e propose una piccola sosta. Il brontolio era fortissimo, ora, ma Hilvar rifiutò di dare spiegazioni. Voleva fare una sorpresa ad Alvin, disse, e non intendeva rovinare tutto. Per fortuna l’ultimo pezzo di strada saliva dolcemente. Gli alberi che coprivano la parte bassa della collina si erano diradati, come stanchi di combattere contro la forza di gravità, e negli ultimi cinquecento metri il terreno era coperto da un’erba grassa e folta su cui era piacevole camminare. Hilvar bruciò le ultime energie guadagnando di corsa la cima. Alvin ignorò la sfida. Era già molto se ce la faceva a continuare la salita, e appena ebbe raggiunto Hilvar si lasciò cadere soddisfattissimo a fianco dell’amico. Solo quand’ebbe ripreso un po’ di fiato fu in grado di ammirare il panorama che si stendeva ai suoi piedi e di scoprire l’origine del tuono che ora riempiva l’aria. Poco lontano il terreno scendeva ripido sulla pianura, tanto ripido da diventare, in breve, una parete quasi verticale. E proprio dalla cresta della collina scaturiva un potente nastro d’acqua che andava a perdersi tra le rocce dopo un salto di circa trecento metri. Là si frangeva in una miriade di spruzzi scintillanti, mentre dalla profondità si levava quel tuono incessante che si ripercuoteva in sordi echi tra le colline. Quasi tutta la cascata era in ombra, ma i raggi del sole riuscivano ancora a illuminare il terreno sottostante, dando un magico tocco finale alla scena. Alla base della cascata, vibrante in tutta la sua sfumata bellezza, si alzava l’arcobaleno, l’ultimo arcobaleno della Terra. Hilvar mosse il braccio in un gesto che abbracciava l’intero orizzonte. «Di qui» disse, alzando la voce per farsi udire sopra il frastuono della cascata «è possibile vedere tutta Lys.» A nord si stendevano chilometri e chilometri di foresta, rotta qua e là da radure, da campi, e dai nastri serpeggianti di centinaia di fiumi. Nascosto in qualche angolo del vasto panorama doveva esserci il villaggio di Airlee, ma era inutile cercarlo. Alvin ebbe la sensazione di vedere lo scintillio del lago presso cui correva il sentiero che portava all’ingresso di Lys, poi si convinse che i suoi occhi lo avevano ingannato. Più lontano, sempre a nord, piante e radure si confondevano in un tappeto a macchie verdi rotto qua e là dalle cime delle colline. Dietro tutto questo, all’estremo limite dell’orizzonte, le montagne che dividevano Lys dal deserto si allungavano come un banco di nuvole. A est e a ovest il panorama era quasi identico, ma a sud le montagne sembravano soltanto a pochi chilometri di lontananza. Alvin le poteva vedere distintamente, e si rese conto che erano molto più alte della cima su cui si trovava. Le separava da lui una zona molto più selvaggia di quella che avevano attraversato. Dava una sensazione di deserto e di vuoto, come se l’uomo non l’avesse più percorsa da molti e molti anni. Hilvar rispose alla domanda muta di Alvin. «Una volta questa parte di Lys era abitata» disse. «Non so perché l’abbiano abbandonata, e forse un giorno torneremo a occuparla. Ora è regno esclusivo degli animali.» Infatti non si vedeva traccia di vita umana; nessun campo, o canale, che indicasse il lavoro dell’uomo. Ma c’era qualcosa a testimoniare che l’uomo vi aveva vissuto. Lontano, dal tetto della foresta, una solitaria rovina bianca si ergeva simile a una zanna spezzata. Tutto attorno la foresta aveva ripreso il suo dominio. La luce rossa del sole che stava per calare dietro le montagne aggiungeva un tocco magico alla scena. Per un attimo meraviglioso, le lontane montagne parvero incendiarsi di fiamme dorate; poi la terra fu rapidamente inghiottita dalle ombre. Era notte. Hilvar, sempre pratico, si mise all’opera per disfare i bagagli. «Dobbiamo far presto» disse. «Tra cinque minuti sarà buio pesto, e farà anche freddo.» Strani oggetti venivano estratti e posati sull’erba. Fra essi un piccolo treppiede con un’asta verticale allungabile, in cima alla quale c’era una protuberanza a forma di pera. Hilvar alzò l’asta fino a che la pera fu proprio al di sopra delle loro teste e diede alcuni ordini mentali che Alvin non riuscì a intercettare. Subito la pera cominciò a diffondere luce e calore. Hilvar, reggendo il treppiede in una mano e il suo zaino con l’altra, cominciò a discendere lungo il pendio, mentre Alvin lo seguiva con altri involti, facendo del suo meglio per tenersi nella piccola zona illuminata. Hilvar scelse un piccolo spiazzo e si accinse a sistemare il resto dell’equipaggiamento. Per prima comparve una larga cupola di materiale rigido e trasparente, che li avvolse proteggendoli dalla brezza fredda che aveva cominciato a soffiare. La cupola era generata da una scatoletta rettangolare che Hilvar posò a terra e poi dimenticò completamente, al punto da seppellirla sotto il mucchio degli altri aggeggi. Forse la stessa scatola proiettava le due cuccette su cui Alvin non vedeva l’ora di buttarsi. Era la prima volta che Alvin vedeva oggetti materializzati a Lys dove, a suo giudizio, le case erano troppo ingombre di quei manufatti permanenti che sarebbe stato molto più conveniente conservare nelle Banche Memoria. Poco dopo Hilvar, che non smetteva di armeggiare tra le strane scatolette, presentò all’amico un completo pasto sintetico. Da un’apertura in cima alla cupola entrava un forte soffio d’aria: il convertitore di materia risucchiava i materiali necessari per compiere il normalissimo miracolo. Tutto sommato, Alvin fu molto più soddisfatto dei cibi sintetici. Il modo in cui gli altri alimenti venivano preparati gli sembrava spaventosamente anti-igienico. Se non altro, con il convertitore di materia si sapeva esattamente cosa si mangiava… Quand’ebbero finito di mangiare era ormai notte fonda. Al limite del cerchio di luce in cui si trovavano, Alvin riuscì a scorgere un movimento di sagome confuse. Erano le creature notturne che lasciavano i loro nascondigli. Di tanto in tanto poteva vedere il bagliore della luce riflessa negli occhi degli animali che lo stavano guardando; nessuna bestia, però, ebbe il coraggio di avvicinarsi, così Alvin non riuscì a vederle bene. Alvin, in quella pace dolcissima, si sentiva sereno e felice. Sdraiati sulle cuccette, i due giovani chiacchierarono delle cose che avevano visto, del mistero che avvolgeva entrambi e dei vari aspetti in cui le loro culture differivano. Hilvar era affascinato dal miracolo dei Circuiti d’Eternità, e Alvin faceva del suo meglio per rispondere alle domande dell’amico. «Quel che non capisco» disse Hilvar «è in che modo i progettisti di Diaspar potevano avere la certezza che i circuiti non si sarebbero mai guastati. Tu mi hai detto che le informazioni che definiscono la città, e tutta la gente che la abita, sono conservate sotto forma di carica elettrica all’interno di certi cristalli. Bene, i cristalli possono durare in eterno… ma tutti i circuiti collegati con loro? Non ci sono mai stati guasti di qualche genere?» «È la stessa domanda che ho fatto io a Khedron. Mi ha detto che le Banche Memoria sono triple. Ognuno dei tre gruppi può alimentare la città, e se uno si guasta, gli altri automaticamente lo correggono. Il danno ci sarebbe solo nel caso in cui lo stesso errore si formasse in due gruppi su tre, ma le probabilità sono infinitesimali.» «E come viene mantenuta la relazione tra il modello conservato nell’unità-memoria e la struttura della città? Tra il progetto, come era, e la cosa che esso descrive?» Ora Alvin brancolava nel buio. La risposta implicava conoscenze tecniche basate sull’alterazione dello spazio stesso… Ma come si potesse fissare rigidamente un atomo in una posizione definita con dei dati accumulati in un altro luogo, lui non l’avrebbe saputo minimamente spiegare. Con una ispirazione improvvisa, indicò la cupola invisibile che li proteggeva nella notte. «Dimmi come fa questa scatola a creare questo tetto sulla nostra testa, e poi io ti spiegherò come funzionano i Circuiti di Eternità.» Hilvar scoppiò a ridere. «Il paragone è ottimo. Dovresti chiederlo a uno dei nostri esperti del campo teorico, se vuoi saperlo. Io non lo so di certo.» La risposta lasciò Alvin molto pensoso. Dunque a Lys c’erano ancora uomini in grado di capire come funzionavano le macchine; non si poteva dire altrettanto di Diaspar. Continuarono a chiacchierare e a discutere, poi Hilvar sbadigliò. «Sono stanco. Dormiamo, adesso?» «Mi piacerebbe.» Alvin si fregò gli occhi. «Ma non so se ci riuscirò. Mi sembra un’abitudine così strana.» «Qualcosa di più di un’abitudine» sorrise Hilvar. «Mi hanno detto che anticamente era una necessità per ogni essere vivente. Noi ancora oggi dormiamo almeno qualche ora al giorno. Riposa il corpo e la mente. A Diaspar non dormite propriomai?» «Rarissimo. Jeserac, il mio tutore, ha dormito solo una volta o due dopo aver fatto sforzi mentali eccezionali. Un corpo ben costruito non dovrebbe aver bisogno di periodi di riposo; sono milioni di anni che noi ne facciamo a meno.» E proprio mentre parlava con tanta sicurezza, le sue azioni lo smentirono. Cominciò a provare una pesantezza sconosciuta; pareva salire dalle gambe e spargersi in tutto il corpo. Era una sensazione tutt’altro che spiacevole. Hilvar lo stava osservando con un sorriso divertito. Alvin si chiese se l’amico non stesse esercitando qualcuno dei suoi poteri mentali su di lui. In quel caso, non si sarebbe opposto di certo. La luce che emanava dalla pera di metallo si attenuò, ma il calore rimase costante. Nella penombra, la mente assonnata di Alvin registrò un particolare curioso e si ripromise di parlarne al mattino seguente. Hilvar si era tolto gli abiti, e per la prima volta Alvin si accorse di quanto le due ramificazioni della razza umana si fossero differenziate. Alcuni cambiamenti erano solo di proporzione; altri, come organi genitali esterni e presenza di unghie, denti, capelli, erano fondamentali. Ma ciò che colpì Alvin più di tutto, fu la presenza di un misterioso buchetto nella cavità dello stomaco di Hilvar. Alcuni giorni dopo se ne ricordò improvvisamente; ne venne fuori una lunga serie di spiegazioni. Alla fine Hilvar riuscì a far capire chiaramente ad Alvin il perché della presenza dell’ombelico; gli ci erano volute, però, parecchie migliaia di parole e almeno una dozzina di disegni. Ma entrambi avevano fatto un grosso passo avanti nella comprensione delle basi della loro reciproca cultura. 12 Alvin si svegliò nel cuore della notte. Qualcosa l’aveva disturbato, un leggero rumore che era arrivato fino a lui nonostante il frastuono incessante della cascata. Si mise a sedere nel buio, cercando di scrutare la penombra e tendendo l’orecchio allo scroscio dell’acqua e ai rumori appena percettibili e fuggevoli degli animali notturni. Non si vedeva niente. La luce delle stelle non bastava a illuminare i chilometri di paesaggio che si stendevano centinaia di metri più in basso. Soltanto la linea più scura, frastagliata, che nascondeva le stelle del sud indicava dov’erano le montagne. Accanto a lui, Hilvar si girò su un fianco e si appoggiò sul gomito. «Che c’è?» bisbigliò. «Mi sembra di sentire un rumore.» «Che rumore?» «Non so. Forse mi sono sbagliato.» Nel silenzio, due paia d’occhi scrutarono il mistero della notte. All’improvviso Hilvar afferrò il braccio di Alvin. «Guarda!» sussurrò. A sud, lontano, scintillava un solitario punto luminoso, troppo basso nel cielo per essere una stella. Mentre guardavano, si fece sempre più intenso, fino a che l’occhio non riuscì più a fissarlo. Poi esplose… Fu come se un fulmine avesse colpito gli estremi confini del mondo. Per un attimo le montagne si orlarono di fuoco contro il buio del cielo. Passò un’eternità prima che si udisse il fantasma di un’esplosione lontana, e un’improvvisa raffica di vento agitò gli alberi dei boschi sottostanti. Poi, tutto tornò tranquillo e, una alla volta, le stelle si riaccesero nel cielo. Per la seconda volta in vita sua, Alvin conobbe la paura. Non un sentimento personale e imminente quale aveva provato nella sala dei veicoli sotterranei, quando aveva preso la decisione che lo aveva portato a Lys. Forse, più che paura adesso era stupore. Stava fissando l’ignoto, ed era come se avesse avuto la certezza che oltre quelle montagne c’era qualcosa da scoprire. «Cos’era?» mormorò. «Sto cercando di scoprirlo» fece Hilvar, e si richiuse nel silenzio. Alvin immaginò quel che stava tentando di fare e non volle disturbarlo. Infine Hilvar diede un sospiro di disappunto. «Dormono tutti. Non c’è nessuno che mi possa rispondere. Dobbiamo aspettare che sia mattina. Potrei svegliare qualcuno, ma non voglio farlo senza una ragione veramente importante.» Alvin si chiese cosa intendesse Hilvar per ragione importante. Stava per ribattere, con un certo sarcasmo, che quello gli sembrava proprio il caso di interrompere il sonno di qualcuno, ma Hilvar lo prevenne. «Ora ricordo» disse, quasi in tono di scusa. «È molto tempo che non vengo da queste parti e non sono sicuro del mio orientamento. Ma quella dev’essere Shalmirane.» «Shalmirane! Esiste ancora?» «Sì. Me n’ero quasi dimenticato. Una volta Seranis mi ha detto che la fortezza è laggiù, tra quelle montagne. È in rovina da tempo immemorabile, si sa, ma potrebbe esserci ancora qualcuno.» Shalmirane! Per i figli delle due razze, così diverse tra loro per cultura e per storia, quel nome aveva lo stesso suono magico. Tutta la storia del mondo non conosceva un fatto epico più grande della battaglia di Shalmirane contro l’invasore che aveva conquistato tutto l’Universo. Per quanto i fatti veri si fossero completamente persi nella nebbia che aveva avvolto l’Alba del Mondo, le leggende non erano mai state dimenticate, e avrebbero resistito finché l’Umanità fosse vissuta. La voce di Hilvar si fece nuovamente sentire nel buio. «Quelli che abitano al sud potrebbero dirci qualcosa di più. Ho diversi amici in quella zona. Domani mattina li chiamerò.» Alvin non lo stava quasi ascoltando. Si era immerso nei suoi pensieri e cercava di ricordare tutto ciò che aveva sentito su Shalmirane. Era pochissimo, purtroppo. Dopo l’immenso periodo di tempo trascorso, nessuno poteva ricavare la verità da una leggenda. Ma una cosa era certa: la battaglia di Shalmirane aveva segnato la fine delle conquiste dell’Uomo e l’inizio del suo lungo declino. Tra quelle montagne, pensava Alvin, giaceva forse la risposta a tutti i problemi che lo tormentavano. «Quanto ci vuole per raggiungere la fortezza?» «Non ci sono mai stato, ma è molto lontano. Non credo che ce la faremmo in un giorno.» «Possiamo usare la vettura?» «No. Sono strade di montagna, nessun mezzo può arrivarci.» Alvin rimase soprappensiero. Era stanco, aveva i piedi indolenziti, e i muscoli delle gambe erano ancora affaticati per l’insolito sforzo compiuto. Era quasi tentato di rimandare il viaggio a un’altra volta. Ma forse non ci sarebbe stata un’altra volta… Sotto la debole luce delle stelle cadenti — quante stelle erano morte dal giorno in cui era stata fondata Shalmirane! — Alvin prese la sua decisione. Niente era cambiato. Le montagne avevano ripreso la loro guardia sulla pianura addormentata. Ma la svolta decisiva della storia era stata superata. L’Umanità si stava muovendo verso un nuovo, strano futuro. Alvin e Hilvar non dormirono più per quella notte, e alle prime luci dell’alba levarono il campo. La collina era umida di rugiada e Alvin ammirò stupito le goccioline luccicanti che piegavano i fili d’erba e le foglie. Quando ripresero il cammino, il fruscio dei passi sull’erba bagnata lo affascinò. Guardando indietro verso la cima della collina, vedeva il sentiero che si erano lasciati alle spalle: era simile a un nastro nero disteso in mezzo a un prato luccicante. Il sole si era appena alzato sulle mura a oriente di Lys quando raggiunsero il limite della foresta. Qui, la Natura era tornata primitiva. Perfino Hilvar sembrava un po’ smarrito tra gli alberi giganteschi che impedivano alla luce di filtrare, creando grandi macchie d’ombra sul terreno della giungla. Dalia cascata, il fiume scendeva verso sud con un percorso troppo rettilineo per essere naturale, e camminando sulla riva riuscirono a evitare il più denso groviglio di piante. La più grande preoccupazione di Hilvar era quella di badare a Krif, che a volte spariva nella giungla, o si lanciava in volo sulle acque. Alvin, per il quale tutto era novità, notò che la foresta aveva un fascino diverso da quelle più piccole e più curate che si stendevano a nord. Poche piante erano identiche fra loro. Per lo più si trovavano a diversi stadi di involuzione, e alcune, durante i millenni, erano tornate alla loro forma originale. Parecchie non erano della Terra… e forse neppure del Sistema solare. Sulle piante più piccole si ergevano come sentinelle le gigantesche sequoie, che superavano i cento metri di altezza. Una volta erano state definite le più vecchie forme di vita della Terra, e riuscivano ancora a essere più anziane dell’Uomo. Il fiume si allargava sempre più, formando ogni tanto piccoli laghi con minuscole isole. Molti erano gli insetti, creature a colori vivaci, che volavano disordinatamente sull’acqua. Una volta, nonostante gli ordini di Hilvar, Krif si allontanò veloce per andarsi a unire a un gruppo di lontani cugini. Scomparve all’istante in una nuvola di ali scintillanti, e nell’aria si sparse un ronzio rabbioso. Un attimo dopo la nuvola si aprì e Krif ne uscì di scatto, volando verso di loro a velocità vertiginosa. Da quel momento rimase sempre vicino a Hilvar, e non fece altri tentativi di cercare nuove amicizie. Verso sera, i due giovani riuscirono a intravedere di nuovo le montagne. Il fiume, la loro guida preziosa, scorreva ora pigramente, come se si stesse preparando al riposo della notte. Era chiaro comunque che loro non sarebbero riusciti a raggiungere le montagne prima del calar del sole. La foresta, ancora prima che facesse buio, si era avvolta d’ombra e un vento freddo aveva cominciato a soffiare tra le foglie. I due esploratori si accamparono sotto una sequoia gigante i cui rami più alti erano illuminati dai raggi del sole. Quando il sole calò dietro le montagne, sulle acque danzanti del fiume rimase per un poco una certa luce. I due esploratori, perché tali si consideravano, e in fondo lo erano, si misero ad aspettare la notte, osservando il fiume e pensando a tutto ciò che avevano visto. Alvin stava riprovando quel delizioso torpore che aveva conosciuto la notte precedente, e assaporò la gioia di concedersi al sonno. Nella vita senza fatiche di Diaspar era inutile dormire, ma qui diventava indispensabile. Proprio nel momento in cui stava per chiudere gli occhi si chiese chi fosse stato l’ultimo essere umano a percorrere quel cammino, e quanto tempo prima. Il sole era alto quando lasciarono la foresta e si fermarono ai piedi delle montagne che formavano le mura di Lys. Davanti a loro, la roccia s’inerpicava verso l’alto con ripidi strapiombi. Il fiume terminava in modo spettacolare, come quando era apparsa di colpo la cascata: il terreno si apriva, e le acque del fiume scomparivano rombando nel sottosuolo. Alvin cercò di immaginare attraverso quali caverne sotterranee scorresse prima di riemergere alla luce del giorno. Forse gli oceani della Terra esistevano ancora, persi nella profondità, e il vecchio fiume sentiva ancora il richiamo che lo portava al mare. Hilvar rimase per qualche istante a osservare i gorghi e il terreno selvaggio che si stendeva attorno, poi indicò un passaggio tra i monti. «Shalmirane è in quella direzione» affermò. Alvin capì che Hilvar si era messo mentalmente in contatto con qualcuno dei suoi amici. Non ci volle molto per raggiungere il passaggio, e quando l’ebbero attraversato si trovarono in vista di un altopiano i cui lati salivano con dolce pendenza. Ora Alvin non provava più stanchezza né paura, solo un’ansia tesa per la rivelazione vicina. Non riusciva a immaginare cosa avrebbe scoperto. Ma sul fatto che avrebbe finito per scoprire qualcosa non c’erano dubbi. Mentre si avvicinavano alla cima, la natura del suolo cambiò bruscamente. Ai piedi della montagna il pendio era stato di pietre vulcaniche, porose, accumulate qua e là in grossi mucchi. Ora la superficie si era fatta dura, lucida, e pericolosamente levigata, come se un tempo la roccia fusa fosse corsa a fiumi giù per la montagna. Giunsero a pochi passi dalla cima. Hilvar fu il primo a balzare sull’orlo dell’altopiano. Alvin lo raggiunse e si fermò stupito al suo fianco. Non erano sul ciglio di un altopiano, come immaginavano, ma sull’orlo di un gigantesco cratere, profondo un chilometro e mezzo e con più di quattro chilometri di diametro. Davanti a loro il terreno scendeva ripido, livellandosi leggermente verso il fondo della buca per poi risalire dalla parte opposta. La parte più bassa della conca era occupata da un laghetto circolare la cui superficie tremava continuamente, come se fosse agitata da onde incessanti. Sebbene fossero completamente illuminate dal sole, le pareti interne erano nere come l’ebano. Alvin e Hilvar non riuscivano nemmeno a immaginare di quale materiale fosse composto il cratere, ma era nero, come roccia di un mondo che non ha mai conosciuto la luce del sole. Ma la cosa più strana era la fascia di metallo che ne orlava la bocca. Era larga circa trenta metri, annerita dal tempo, ma non mostrava il minimo segno di corrosione. A mano a mano che i loro occhi si abituavano alla scena, Alvin e Hilvar si accorsero che il nero della conca non era così assoluto come era sembrato al primo momento. Qua e là, piccoli sprazzi di luce si accendevano rapidissimi sulle pareti di ebano. E svanivano immediatamente come stelle che si riflettessero su un mare agitato. «È meraviglioso!» mormorò Alvin. «Ma cos’è?» «Sembra una specie di riflettore.» «Ma è così nero!» «Solo ai nostri occhi, non dimenticarlo. Non sappiamo che genere di radiazioni usassero.» «Ma ci dev’essere qualcos’altro. Dov’è la fortezza?» Hilvar indicò il lago. «Guarda bene.» Alvin fissò la superficie increspata del lago, cercando di carpire il segreto nascosto in quelle acque. Dapprima non vide nulla; poi, vicino agli orli, distinse un debole reticolo di luce e ombra. Riuscì a seguirne lo schema fino al centro del lago, dove andava a perdersi nell’acqua più profonda. Il lago scuro aveva sommerso la fortezza. Laggiù giacevano le rovine di edifici una volta potenti, ora sopraffatti dal tempo. Ma non tutto era stato sommerso, perché sull’altro lato del cratere Alvin scorse mucchi di pietre e grossi blocchi che un tempo avevano fatto parte delle massicce pareti. L’acqua le lambiva, ma non era ancora riuscita a ingoiarle del tutto e completare la sua vittoria. «Facciamo il giro del lago» propose Hilvar, parlando sottovoce, come se la maestosa desolazione lo intimorisse. «Forse troveremo qualcosa fra quelle rovine laggiù.» Per i primi cento metri la discesa era così ripida e liscia che fu difficile tenersi in piedi; ma ben presto giunsero dove il declivio si raddolciva, e poterono camminare senza difficoltà. Vicino alle sponde del lago la superficie d’ebano levigato era coperta da un sottile strato di terriccio, forse portato dal vento di secoli. Poche centinaia di metri più in là, titanici blocchi di pietra erano accumulati l’uno sull’altro, come balocchi abbandonati da un bambino gigante. Qui si riconosceva ancora una massiccia sezione di parete; là, due obelischi scolpiti indicavano un’antica porta. Dovunque crescevano piante rampicanti e muschio. Anche il vento sembrava soffiare sottovoce. Così Alvin e Hilvar raggiunsero le rovine di Shalmirane. Contro quelle mura, e contro le energie che esse contenevano, avevano tuonato e fiammeggiato forze capaci di ridurre in polvere un intero mondo, ed erano state sconfitte. Un tempo, in quel cielo tranquillo avevano brillato fuochi strappati al cuore di antichi soli, e le montagne di Lys dovevano aver tremato come creature vive sotto la furia dei loro padroni. Nessuno aveva mai espugnato Shalmirane. Ora, però, la fortezza, l’inespugnabile fortezza, era vinta dai pazienti viticci dell’edera, dalle generazioni dei vermi, dalla lenta crescita delle acque del lago. Attoniti di fronte a tanta maestà, Alvin e Hilvar camminavano in silenzio verso le colossali rovine. Passarono sotto l’ombra di un muro diroccato e scesero in un canalone fiancheggiato da massi enormi. Davanti a loro si stendeva il lago. Andarono a fermarsi dove l’acqua scura già lambiva i loro piedi. Piccole onde venivano a rompersi incessantemente sulla riva. Hilvar fu il primo a parlare. Nella sua voce c’era una nota d’incertezza che spinse Alvin a guardarlo sorpreso. «C’è qualcosa che non capisco» disse lentamente. «Non ce vento. Perché allora queste increspature? L’acqua dovrebbe essere perfettamente calma.» Alvin non ebbe tempo di formulare una risposta. Hilvar si era gettato in ginocchio col capo piegato, e aveva immerso l’orecchio destro nell’acqua. Alvin si domandò cosa sperasse di scoprire in quella ridicola posizione, poi si rese conto che stava ascoltando. Dopo un attimo di esitazione, Alvin seguì l’esempio dell’amico. La sensazione di gelo durò pochi secondi; poi il giovane cominciò a sentire, debole ma distinta, una pulsazione continua, ritmica. Era come se dalle profondità del lago salisse il battito di un cuore gigante. I due si rialzarono e si fissarono in silenzio. Nessuno osava dire ciò che pensava, cioè che il lago era vivo. «Sarebbe meglio» fece infine Hilvar «se cercassimo tra le rovine, tenendoci lontani dal lago.» «Credi che ci sia qualcosa laggiù?» domandò Alvin indicando le misteriose onde che si frangevano ai piedi. «Qualcosa di pericoloso?» «Niente che possegga una mente può essere pericoloso» rispose Hilvar («Sarà vero?» pensò Alvin. «E gli Invasori, allora?») «Non riesco a captare nessun pensiero, qui, eppure ho la sensazione che non siamo soli. È molto strano.» Tornarono lentamente verso le rovine, senza riuscire a scacciare dalla mente l’eco di quel battito sordo. Pareva ad Alvin che il mistero andasse facendosi sempre più fitto, e che ogni sforzo lo allontanasse ancora di più dalla verità che cercava. Non sembrava che quelle rovine potessero dire loro qualcosa, ma frugarono con cura fra i cumuli di macerie e di sassi. Lì, forse, era nascosta la tomba di macchine misteriose… quelle macchine che erano state in funzione molto tempo prima. Nel caso di un ritorno degli Invasori, pensò Alvin, le macchine sarebbero state inservibili. Perché non erano più tornati? Questo era un altro mistero. Ma aveva già troppi problemi da risolvere, per cercarne altri. A pochi metri dal lago trovarono una piccola spianata fra i sassi. Un tempo era coperta d’erba che ora appariva tutta bruciacchiata e carbonizzata. Al centro della radura c’era un treppiede di metallo, ben infisso nel terreno, che reggeva un anello circolare inclinato sul proprio asse in modo da esser rivolto verso un punto a mezza via tra la terra e il cielo. In un primo momento parve che l’anello non racchiudesse nulla; poi, dopo un esame più attento, Alvin vide che vi gravitava dentro una sostanza evanescente che affaticava l’occhio vibrando all’orlo dello spettro visivo. Era il riverbero della potenza che emanava da quei meccanismi, Alvin ne era certo. Da lì doveva essersi prodotta l’esplosione di luce che li aveva condotti a Shalmirane. Non osarono avvicinarsi e restarono a guardare la macchina da una prudente distanza. Erano su una buona strada; ora non restava che scoprire chi, o cosa, avesse sistemato là l’apparecchio, e con quale scopo. L’anello puntava chiaramente verso lo spazio. Forse la luce che avevano scorto era una specie di segnale? Quella possibilità implicava preoccupanti ipotesi. «Alvin» fece all’improvviso Hilvar «abbiamo visite.» Alvin si girò sui talloni. Vide tre occhi senza ciglia, disposti a triangolo, che lo fissavano. Quella, per lo meno, fu la sua prima impressione; poi dietro gli occhi scorse la sagoma di una piccola macchina, molto complessa. Fluttuava nell’aria a poche decine di centimetri dal suolo e differiva da qualsiasi robot che avesse mai visto. Passato il primo momento di sorpresa, Alvin si sentì padrone della situazione. Per tutta la vita aveva dato ordini alle macchine, e il fatto che questa gli fosse sconosciuta aveva poca importanza. Del resto aveva visto soltanto una piccola percentuale dei tipi di robot che in città provvedevano a tutti i fabbisogni giornalieri. «Puoi parlare?» chiese. Silenzio. «Qualcuno ti controlla?» Ancora silenzio. «Allontanati. Avvicinati. Alzati. Abbassati.» Nessuno dei comandi convenzionali produceva alcun effetto. La macchina restava sprezzantemente immobile. C’erano due possibilità: o era priva di intelligenza o era troppo intelligente, dotata inoltre di volontà e di capacità di scelta. In questo caso bisognava trattarla da pari a pari. L’aveva forse sottovalutata, ma essa non gli avrebbe serbato nessun rancore, perché la presunzione non è un difetto dei robot. Hilvar non poté fare a meno di ridere davanti all’aria sconfitta di Alvin. Stava per proporgli di lasciargli fare un tentativo, ma le parole gli morirono sulle labbra. Il silenzio di Shalmirane fu rotto da un suono inconfondibile: il rumoroso gorgoglio di un corpo enorme che emerge dall’acqua. Per la seconda volta da che aveva lasciato Diaspar, Alvin desiderò essere a casa. Poi si ricordò che quello non era lo spirito adatto per affrontare un’avventura, e si mosse risolutamente verso il lago. L’essere che stava uscendo dall’acqua sembrava la mostruosa copia, in sostanza vivente, del robot che continuava a tenerli sotto il suo silenzioso controllo. Lo stesso triangolo d’occhi non poteva essere una pura coincidenza; perfino lo schema di tentacoli e piccoli arti snodabili era stato rozzamente riprodotto. La rassomiglianza, però, non era assoluta. Il robot non possedeva, poiché non ne aveva bisogno, la frangia di palpi pelosi che battevano l’acqua con ritmo regolare, le numerose zampe tozze sulle quali la bestia cercava di trascinarsi a terra, né le valvole respiratorie, ammesso che fossero tali, che ora ansimavano aspirando l’aria. La maggior parte del corpo del mostro era ancora sommersa; solo la parte superiore si rizzava verso l’aria con uno sforzo che dimostrava quanto l’elemento gli fosse estraneo. L’essere misurava circa quindici metri, e non occorreva possedere alcuna cognizione di biologia per comprendere quanto fosse anormale. Aveva tutta l’aria di una cosa improvvisata senza logica, come se le parti fossero state prodotte senza pensarci troppo e accostate fra loro a casaccio. Né Alvin né Hilvar provarono il più leggero senso di sgomento quand’ebbero esaminato l’abitante del lago. Il mostro aveva un aspetto così sconclusionato che era impossibile considerarlo pericoloso. La specie umana aveva da lungo tempo imparato a superare il terrore infantile di ciò che si presenta orrido alla vista. Era una paura che dopo i primi amichevoli contatti con le razze extraterrestri non poteva più sussistere. «Lascia che me ne occupi io» disse Hilvar. «Sono abituato a trattare con gli animali.» «Ma questo non è un animale» bisbigliò Alvin di rimando. «Scommetto che è intelligente e che il robot è suo.» «O il robot possiede lui. Comunque, deve avere una mentalità molto strana. Non riesco a intercettare nessuna traccia di pensiero. Ciao… Che succede?» Il mostro non si era mosso dalla sua posizione, ma una membrana semi-trasparente aveva cominciato a formarsi al centro del suo triangolo d’occhi, una membrana che pulsava e tremava e che tutta un tratto prese a emettere dei suoni. Erano suoni bassi, gutturali, e creavano parole inintelligibili, sebbene fosse facile capire che l’essere stava cercando di comunicare. Era doloroso assistere a quel disperato tentativo di esprimersi. Il mostro si agitò invano per parecchi minuti, poi parve rendersi conto di non aver ottenuto nulla. La membrana si contrasse ed emise suoni più alti di parecchie ottave di frequenza che rientrarono nello spettro del linguaggio normale. Cominciarono a formarsi vere parole, se pure inframmezzate da mugolii inarticolati. Era come se la creatura stesse cercando di ricordare suoni imparati molto tempo prima, ma che non aveva avuto occasione di adoperare da molti anni. Hilvar fece del suo meglio per aiutarla. «Ora riusciamo a capirti» disse, parlando con lentezza e marcando le sillabe. «Possiamo fare qualcosa per te? Abbiamo visto la luce. Ci ha portato qui da Lys.» Alla parola «Lys» l’essere parve afflosciarsi come per un’amara delusione. «Lys» ripeté. «Sempre Lys. Non viene mai nessun altro. Noi chiamiamo i Grandi ma loro non ci odono.» «Chi sono i Grandi?» chiese Alvin, chinandosi in avanti. I palpi frangiati si stesero fremendo verso il cielo. «I Grandi. Dai pianeti del giorno eterno. Verranno. Il Maestro che l’ha promesso.» Questo non aiutava per niente a mettere le cose in chiaro. Prima che Alvin potesse riprendere il suo interrogatorio, Hilvar intervenne. Le sue domande erano così pazienti, così incoraggianti e tuttavia così penetranti che Alvin preferì non interromperlo. Soffocò la sua impazienza. Gli seccava ammettere che Hilvar gli fosse superiore come intelligenza, ma non c’era dubbio che la sua abilità nel trattare con gli animali fosse eccezionale. Perfino quell’essere fantastico riusciva a rispondergli. La sua parlata si faceva più distinta col procedere della conversazione. Ora le risposte erano più elaborate, e il mostro aggiungeva informazioni spontanee. Alvin perse la cognizione del tempo mentre Hilvar ricostruiva l’incredibile storia. Non riuscirono a scoprire l’intera verità. Rimanevano ampie lacune su cui fare congetture e discussioni. Il mostro rispondeva di buon grado alle domande di Hilvar, ma il suo aspetto aveva cominciato a mutare. Era affondato un poco nel lago, e le gambe che io sorreggevano si erano come ritratte nel resto del corpo. A un tratto avvenne un cambiamento anche più sconcertante: i tre grandi occhi si chiusero, si raggrinzirono, e sparirono del tutto, come se la creatura avesse visto tutto ciò che desiderava vedere per il momento, e ormai non avesse più bisogno degli occhi. Alterazioni quasi impercettibili si susseguivano continuamente. Ormai alla superficie dell’acqua non restava che il diaframma vibrante per mezzo del quale il mostro si esprimeva. Senza dubbio anche quel diaframma, quando ne fosse cessata l’utilità, sarebbe tornato alla massa amorfa originale di protoplasma. Alvin stentava a credere che in una forma così instabile potesse risiedere un’intelligenza, ma la sorpresa più grande doveva ancora venire. Sebbene fosse evidente che la strana creatura non era di origine terrestre, perfino Hilvar, con tutta la sua conoscenza della biologia, impiegò parecchio tempo prima di rendersi conto che l’organismo con cui stava parlando non era una singola entità. L’essere si era espresso sempre riferendosi a «noi»: infatti non era altro che una colonia di esseri indipendenti, organizzata e controllata da forze sconosciute. Animali di tipo vagamente simile, le meduse, ad esempio, erano un tempo esistiti negli antichi oceani della Terra. Alcuni erano stati di grandi dimensioni, con corpi traslucidi e foreste di tentacoli e di ventose, ma nessuno aveva mai posseduto un guizzo d’intelligenza, a parte alcune reazioni a stimoli elementari. Qui c’era un’intelligenza, anche se debole e in declino. Alvin non doveva mai più dimenticare quell’incontro assurdo, con Hilvar che ricostruiva lentamente la storia del Maestro, il polpo che tentava di emettere parole umane, il lago torbido che lambiva le rovine di Shalmirane, e il robot che li fissava con i suoi tre occhi. 13 Il Maestro era giunto sulla Terra durante il caos dei Secoli di Transizione, quando già l’Impero Galattico stava andando in rovina, ma quando ancora le linee di comunicazione tra le stelle non erano completamente interrotte. Aveva avuto un’origine umana, anche se la sua patria era un pianeta che ruotava attorno a uno dei Sette Soli. Ancora giovane, era stato costretto a lasciare il mondo natale, il cui ricordo l’aveva perseguitato per tutta la vita. Dava la colpa di quell’espulsione a nemici vendicativi, ma in verità soffriva di una malattia che, a quanto pare, attaccava solo l’homo sapiens tra tutte le specie intelligenti dell’universo. Quella malattia era la mania religiosa. Durante i primi periodi della propria storia, la specie umana aveva prodotto una serie interminabile di profeti, veggenti, messia ed evangelisti capaci di convincere se stessi e i loro seguaci che solo a loro erano stati rivelati i segreti dell’universo. Alcuni avevano fondato religioni che erano sopravvissute e avevano influenzato miliardi di uomini; altri erano stati dimenticati ancor prima di morire. Il progredire della scienza, che con monotona regolarità rifiutava le cosmologie dei profeti e produceva miracoli contro cui non si potevano mettere a confronto, aveva distrutto tutte queste fedi. Non aveva distrutto, però, il rispetto, né la riverenza e l’umiltà che tutti gli esseri intelligenti provavano nel contemplare lo stupendo universo in cui vivevano. Quelle che indebolirono, e vennero alla fine dimenticate, furono le innumerevoli religioni, tutte intente a proclamare con incredibile arroganza di essere le uniche depositarie della verità, dichiarando che i milioni di rivali, e i predecessori, erano in errore. Tuttavia, per quanto non avessero mai posseduto una qualsiasi vera potenza dopo che l’umanità aveva raggiunto un livello elementare di civiltà, durante le ere erano continuati a comparire culti isolati, e per quanto fantastico fosse il loro credo, erano sempre riusciti a radunare alcuni discepoli. Questi culti avevano prosperato soprattutto nei periodi di confusione e di disordine, e non era strano che i Secoli di Transizione avessero visto una forte esplosione di irrazionalità. Quando la realtà è deprimente, gli uomini si rifugiano nei miti. Il Maestro, sebbene espulso dal proprio mondo, non si era lasciato abbattere. I Sette Soli erano stati il centro del potere galattico e della scienza, ed egli doveva aver avuto alcuni amici influenti… Aveva compiuto la sua Egira in una piccola ma velocissima nave, una delle più veloci che fossero state costruite. In esilio aveva portato con sé un altro perfetto prodotto della scienza galattica: il robot che ancora oggi stava fissando Alvin e Hilvar. Nessuno aveva mai conosciuto a fondo tutte le facoltà e le funzioni di quel robot. In un certo senso esso era divenuto l’alter ego dei Maestro; senza quel robot, la religione dei Grandi sarebbe probabilmente scomparsa dopo la morte del suo profeta. Insieme avevano vagabondato in mezzo alle stelle, seguendo un cammino a zig-zag che portava al mondo dal quale erano partiti gli antenati del Maestro. Intere biblioteche erano state scritte su quella leggenda, e ogni opera aveva ispirato una quantità di commenti, fino al giorno in cui, come per una specie di reazione a catena, i volumi originali si erano persi dietro montagne di esami critici e interpretazioni. Il Maestro si era fermato in molti mondi e aveva adunato discepoli tra molte razze. Doveva aver avuto una personalità immensamente forte, tanto da convertire razze umane e non umane, e senza dubbio, per aver esercitato tale richiamo, la sua religione doveva aver contenuto parecchi nobili concetti. Forse era stato l’ultimo e il più ascoltato di tutti i messia dell’umanità. Nessuno dei suoi predecessori aveva mai avuto tanti seguaci, né i loro insegnamenti avevano mai superate tali barriere di tempo e di spazio. Ma né Alvin né Hilvar riuscirono a scoprire quali fossero stati i suoi insegnamenti. Il grosso polpo faceva del suo meglio per comunicarli, ma usava termini privi di significato, e ripeteva frasi e citazioni con tale meccanica rapidità che era impossibile seguirlo. Hilvar cercò di stornare la conversazione da quell’incomprensibile filastrocca teologica per scendere a fatti più concreti. Il Maestro e un gruppo dei più fedeli discepoli erano scesi sulla Terra prima che le città fossero scomparse, e quando ancora l’astroporto di Diaspar era aperto alle stelle. Dovevano essere arrivati su astronavi di specie diverse. I polpi, per esempio, in un’astronave piena di quell’acqua che era il loro elemento naturale. Non era chiaro se la nuova dottrina era stata bene accolta sulla Terra, comunque non aveva incontrato opposizioni violente. E dopo diversi vagabondaggi i discepoli si erano stabiliti tra le foreste e le montagne di Lys. Alla fine della sua lunga vita, i pensieri del Maestro si erano nuovamente rivolti verso il mondo da cui era esiliato, e aveva chiesto agli amici di portarlo all’aperto, per poter contemplare le stelle. Aveva aspettato di vedere i Sette Soli, e verso la fine, quando le forze lo stavano abbandonando, aveva mormorato alcune frasi che nelle età future avrebbero ispirato altre miriadi di interpretazioni. Aveva parlato in continuazione dei «Grandi» che avevano lasciato questo universo di spazio e materia; aveva incaricato i suoi seguaci di rimanere ad attendere per dare loro il benvenuto. Quelle erano state le sue ultime parole razionali. Poi aveva perso conoscenza. Ma poco prima della fine aveva pronunciato una frase che avrebbe tormentato le menti di tutti coloro che erano in ascolto. Aveva detto: «È bello guardare le ombre colorate sui pianeti di luce eterna». Poi era morto. Con la scomparsa del Maestro molti seguaci si erano dispersi, ma altri erano rimasti fedeli ai suoi insegnamenti, elaborandoli lentamente attraverso i secoli. In un primo tempo avevano creduto che i Grandi, chiunque fossero, sarebbero presto tornati. Poi la speranza si era indebolita. A questo punto la storia divenne confusa, e verità e leggenda parvero mescolarsi con frequenza. Alvin ebbe solo un’immagine di fanatici in attesa di un grande evento che non capivano e che sarebbe accaduto in un momento non precisato del futuro. I Grandi non tornarono mai. La morte e la delusione dei discepoli fecero via via perdere forza al movimento. Gli esseri umani dalla breve vita furono i primi ad andarsene. E non era senza ironia che l’ultimo seguace di un profeta umano fosse una creatura completamente diversa dall’uomo. Il grosso polpo era l’ultimo dei discepoli del Maestro, e per una semplice ragione: era immortale. I miliardi di cellule che formavano il suo corpo erano soggette alla morte, ma prima di morire si riproducevano. A lunghi intervalli il mostro si disintegrava in miliardi di cellule separate che, in ambiente adatto, avrebbero avuto una loro vita e si sarebbero moltiplicate per scissione. Durante questa fase il polpo cessava d’esistere come entità intelligente e autocosciente… E qui Alvin ricordò, per associazione di idee, il modo in cui gli abitanti di Diaspar passavano i loro quiescenti millenni nelle Banche Memoria della città. A tempo opportuno, misteriose forze biologiche rimettevano insieme le componenti disperse, e il polpo cominciava un nuovo ciclo di esistenza. Tornava alla coscienza e ricordava le esistenze trascorse, anche se spesso in modo imperfetto: talora, qualche incidente danneggiava le delicate cellule che contenevano gli schemi della memoria. Forse nessun’altra forma di vita avrebbe potuto tener fede a un credo ormai dimenticato da milioni di anni. Il grosso polpo, in fondo, era una vittima della sua stessa natura. La sua immortalità non gli permetteva di cambiare, e lo costringeva a riprodurre eternamente lo stesso schema. La religione dei Grandi aveva finito per identificarsi con la venerazione dei Sette Soli. Poiché i Grandi non si decidevano a ritornare, venivano fatti dei segnali per richiamare la loro attenzione. Da lungo tempo, ormai, la segnalazione era però un rito senza alcun significato, e veniva osservato soltanto da un animale che non sapeva più apprendere e da un robot che non aveva mai saputo dimenticare. Mentre la voce antichissima moriva nell’aria tranquilla, Alvin si sentì sopraffare da un’ondata di pietà. Quell’inutile devozione, quella lealtà che aveva tenuto fede al suo inutile scopo mentre soli e pianeti erano tramontati… Alvin non avrebbe mai potuto credere a una simile favola se non avesse constatato l’evidenza coi suoi stessi occhi. E si rese conto con tristezza di quanto immensa fosse la sua ignoranza. Un piccolo frammento del passato lo aveva illuminato per qualche istante: ora il buio completo lo avvolgeva nuovamente. La storia dell’Universo doveva essere un cumulo di frammenti sconnessi, dei quali nessuno avrebbe saputo dire con sicurezza se erano importanti o senza significato. Il fantastico racconto sul Maestro e sui Grandi sembrava una delle innumerevoli leggende che erano in qualche modo sopravvissute dai tempi delle primitive civiltà. Tuttavia l’esistenza del polpo immenso e del silenzioso robot rendeva impossibile credere che la storia fosse frutto di illusioni fondate su basi sciocche. Quale poteva essere la relazione tra quelle due entità, tanto differenti tra loro, che avevano mantenuto la loro straordinaria unione per epoche intere? Alvin aveva la sensazione che il robot fosse in qualche modo il più importante dei due. Era stato il confidente del Maestro, e doveva conoscere tutti i suoi segreti. Fissò l’enigmatico robot. Perché non voleva parlare? Quali pensieri passavano attraverso la sua mente complicata e sconosciuta? Eppure, se era stato costruito per servire il Maestro, doveva saper rispondere agli ordini umani. Alvin, pensando a tutti i segreti che la macchina muta doveva contenere, provò il desiderio quasi spasmodico di conoscerli. Gii sembrava un delitto che tanta conoscenza fosse sprecata e celata al mondo. Doveva conoscere cose ignorate anche dal Computer Centrale di Diaspar. «Perché il tuo robot non vuole parlare con noi?» chiese al polpo, approfittando di un momento di silenzio di Hilvar. E la riposta fu quasi quella che si aspettava. «Il Maestro voleva che il robot parlasse solo per suo ordine, e ora la voce del Maestro è spenta.» «Ma a te obbedirebbe?» «Sì. Il Maestro l’ha messo ai nostri ordini. Possiamo vedere attraverso i suoi occhi, dovunque esso vada. Il robot fa funzionare la macchina che preserva e tiene pure le acque di questo lago. Noi lo consideriamo un nostro simile, non il nostro servo.» Alvin tacque, meditando. Un’idea ancora vaga cominciava a prendere forma nella sua mente. Forse era ispirata da un semplice desiderio di conoscenza e di potere. Quando, in seguito, gli capitò di ripensare a quel momento, non seppe mai definire quali fossero stati i suoi veri motivi. Potevano essere largamente egoistici, ma potevano anche contenere qualche elemento di compassione. Se fosse riuscito, avrebbe posto termine a quell’inutile stato di cose, e avrebbe liberato quelle creature dal loro fantastico e assurdo destino. Forse non poteva fare niente per il polpo, ma sperava almeno di recuperare il robot, e farsi dire tutti i preziosi ricordi che la sua mente conteneva. «Sei certo» disse lentamente, guardando il polpo, ma indirizzando le sue parole al robot «che rimanendo qui esegui realmente i desideri del Maestro? Lui voleva che il mondo conoscesse i suoi insegnamenti, che sono andati perduti mentre voi ve ne stavate qui a Shalmirane. Noi vi abbiamo scoperto solo per caso, e forse altri vorrebbero apprendere queste dottrine.» Hilvar gli lanciò un’occhiata penetrante. Il polpo sembrava agitato: il fremito del suo apparato respiratorio si arrestò per un attimo, poi l’essere disse con voce alterata: «Abbiamo discusso questo problema per molti anni. Ma noi non possiamo lasciare Shalmirane, per cui il mondo deve venire a noi. Il tempo non conta». «Ho un’idea migliore» fece Alvin. «È vero chetudevi restare nel lago, ma non c’è ragione che il tuo compagno non debba venire con noi. Può tornare quando vuole o ogni volta che ne avrai bisogno. Da quando il Maestro è morto, sono accadute tante cose, cose che dovreste sapere ma che non comprendereste mai se resterete sempre qui.» Il robot era sempre immobile, ma il polpo, nella sua angosciosa indecisione, s’immerse completamente nel lago e restò sott’acqua per parecchi minuti. Diverse volte parve riemergere, ripensarci, e sparire nuovamente sott’acqua. Hilvar colse l’occasione per scambiare qualche parola con Alvin. «Che cerchi di fare?» mormorò, tra il serio e il faceto. «O non lo sai nemmeno tu?» «Non ti fanno pena queste creature? Non credi che sarebbe una buona azione liberarle?» «Ah, lo so. Ma credo di conoscerti piuttosto bene. L’altruismo non è il tuo sentimento dominante. Tu hai qualcosa in mente, Alvin.» Alvin sorrise un po’ a disagio. Se Hilvar non gli stava leggendo il pensiero, perché di nascosto non l’avrebbe mai fatto, leggeva però molto bene il suo carattere. «La tua gente ha dei notevoli poteri mentali» disse, per stornare un argomento troppo pericoloso. «Potranno fare qualcosa per il robot, se non per il polpo.» Parlò a bassa voce, per non essere sentito. La precauzione poteva essere inutile, comunque il robot non diede segno di aver ascoltato. Per fortuna, prima che Hilvar potesse fare altre domande, il polpo riemerse dal lago. Negli ultimi minuti si era fatto sensibilmente più piccolo e i movimenti erano ancora più caotici. Mentre Alvin lo guardava, un altro pezzo del corpo trasparente si staccò e si disintegrò in una miriade di particelle minutissime che si dissolsero rapidamente. La creatura stava sfaldandosi davanti ai loro occhi. La voce, quando parlò, era malsicura e poco comprensibile. «Comincia il prossimo ciclo» rantolò. «Non me lo aspettavo tanto presto… Mi restano pochi minuti… Stimoli troppo forti… Non potrò resistere molto.» I due giovani fissavano la creatura, sconvolti e affascinati. Anche se il processo che stavano osservando era naturale, non era piacevole vedere una creatura intelligente negli attimi dell’agonia. Loro poi sentivano un oscuro senso di colpa. Era irrazionale, dato che non aveva particolare importanzaquandoil polpo avrebbe ricominciato un nuovo ciclo di vita, ma avevano la sensazione che lo sforzo e l’agitazione causati dalla loro presenza potevano essere responsabili della prematura metamorfosi. Alvin capì che doveva far presto, o la sua occasione sarebbe sfumata, forse per pochi anni, forse per secoli. «Cos’hai deciso?» incalzò. «Vuoi che il robot venga con noi?» Ci fu una pausa penosissima, mentre il polpo tentava di dominare con la volontà il corpo agonizzante. Il diaframma parlante palpitò, ma non ne uscì alcun suono. Poi, in un disperato gesto d’addio, l’essere agitò debolmente i palpi e li lasciò ricadere nell’acqua, dove immediatamente si dispersero in frammenti minutissimi. La trasformazione si concluse in pochi secondi. Della creatura non rimasero altro che frammenti non più grandi di un centimetro. L’acqua si riempì di piccole macchie verdastre con una loro vita e mobilità, che rapidamente si dispersero nella vastità del lago. Le onde che increspavano la superficie erano scomparse, e Alvin comprese che anche la pulsazione della profondità doveva essere cessata. Il lago era di nuovo morto… O così sembrava. Ma un giorno le misteriose forze che mai avevano mancato di compiere il loro dovere in passato sarebbero tornate a esercitarlo, e il polpo sarebbe rinato. Era uno strano e meraviglioso fenomeno. Ma era poi molto più strano dell’organizzazione del corpo umano? Non si trattava anche qui di una grande colonia di cellule viventi separate? Alvin non perse tempo a pensarci. Si sentiva oppresso da un senso di fallimento, anche se non aveva mai ben capito quale fosse la meta che voleva raggiungere. Aveva perso un’occasione che forse non si sarebbe mai più ripresentata. Guardò con amarezza il lago, e passò parecchio tempo prima che Alvin potesse registrare ciò che Hilvar stava mormorandogli all’orecchio. «Alvin» stava dicendo l’amico «hai vinto.» Si girò di scatto. Il robot, che fino a quel momento non si era mai avvicinato a più di cinque o sei metri, era fermo poco al di sopra di lui. Gli occhi immobili non fissavano alcun punto in particolare, ma Alvin ebbe la certezza che l’attenzione della macchina convergesse su di lui. Il robot aspettava una sua mossa; era, almeno in un certo senso, sotto il suo controllo. Poteva seguirlo a Lys, forse anche a Diaspar. Almeno per il momento, Alvin poteva considerarsene padrone. 14 Il viaggio di ritorno ad Airlee durò quasi tre giorni, anche perché Alvin, per ragioni personali, non aveva alcuna fretta di ritornarvi. L’esplorazione di Lys era passata in secondo piano di fronte alla nuova, eccitante impresa: mettersi lentamente in contatto con l’intelligenza strana della macchina che era diventata la sua indivisibile compagna. Sospettava che il robot volesse servirsi di lui per suoi scopi particolari, cosa che sarebbe risultata una specie di giustizia poetica. Quali potessero essere questi motivi non riusciva a immaginarlo, dato che il robot si rifiutava di parlare. Il Maestro, per qualche suo particolare motivo, forse per tema che i suoi segreti venissero rivelati, doveva aver bloccato i circuiti vocali della macchina, e i tentativi di Alvin per sbloccarli non approdarono a nulla. Nemmeno con tranelli del tipo: «Se non rispondi penserò che sei d’accordo» si riusciva a prenderlo in trappola; il robot era troppo intelligente per lasciarsi ingannare da trucchi del genere. Per tutto il resto, comunque, eseguiva qualsiasi ordine. Dopo un po’ Alvin imparò a comandarlo col solo pensiero, come faceva con le macchine di Diaspar. Era un gran passo in avanti, e un po’ alla volta la macchina, sebbene sembrasse quasi impossibile considerarla tale, si fece socievole, al punto di permettere al nuovo padrone di vedere per mezzo dei suoi tre occhi. Al contrario, ignorava completamente l’esistenza di Hilvar; non rispondeva agli ordini e teneva la mente chiusa a ogni suo sondaggio. Dapprima, Alvin si dispiacque del fatto, poiché contava sui grandi poteri mentali di Hilvar per forzare la volontà di tacere del robot; ben presto, però, si rallegrò del vantaggio di possedere un servo che ubbidisse solo a lui. Il membro della spedizione energicamente contrario al robot era Krif. Forse temeva in lui un rivale, o forse diffidava, per principio, di tutto ciò che poteva volare senz’ali. Diverse volte, quando nessuno lo stava osservando, aveva assalito il robot, ma si era infuriato maggiormente perché la macchina non gli aveva minimamente badato. Finalmente Hilvar era riuscito a calmarlo, e durante il viaggio sul veicolo terrestre, Krif parve rassegnato alla situazione. Robot e insetto scortarono il mezzo di locomozione che scivolava silenziosamente attraverso foreste e campi, ciascuno tenendosi dalla parte del suo padrone e ignorando completamente il rivale. Seranis sapeva già del loro arrivo quando la vettura giunse ad Airlee. Impossibile, pensava Alvin, cogliere questa gente di sorpresa. La possibilità di comunicare mentalmente li teneva informati su tutto ciò che avveniva nel loro territorio. Alvin era curioso di sapere come avessero reagito alla notizia dell’avventura di Shalmirane, poiché di certo tutti ne erano già al corrente. Seranis sembrava preoccupata e incerta, più di quando l’aveva lasciata, e Alvin ricordò la scelta che avrebbe dovuto fare. Negli avvenimenti degli ultimi giorni se n’era completamente dimenticato, e tra l’altro non avrebbe sprecato energie per pensare a problemi non immediati. Ma adesso era arrivato il momento di decidere in quale dei due mondi vivere. Seranis cominciò a parlare un po’ a disagio, e Alvin ebbe la netta impressione che, nei piani fatti a Lys sul suo conto, qualcosa fosse andato di traverso. Cos’era accaduto durante la sua assenza? Forse degli emissari si erano recati a Diaspar per alterare i ricordi di Khedron ed erano falliti nel loro intento? «Alvin» cominciò Seranis «ci sono molte cose che non vi ho ancora detto, ma bisogna che lo sappiate per comprendere il nostro modo di agire. Voi conoscete una delle ragioni per cui le nostre due razze si sono chiuse nell’isolamento. Il terrore degli Invasori, questo cupo fantasma che si cela in ogni mente umana, ha fatto sì che il vostro popolo si mettesse contro il resto del mondo per rinchiudersi nei propri sogni. Qui a Lys sentiamo meno questo terrore, anche se abbiamo dovuto sopportare tutto il peso dell’attacco finale. Le nostre azioni hanno un motivo, e ciò che facciamo viene compiuto a occhi aperti. «Tanto e tanto tempo fa, Alvin, il vostro popolo ha cercato l’immortalità e l’ha ottenuta, dimenticando che per bandire la morte, bisogna bandire anche la nascita. La possibilità di estendere la propria vita all’infinito può contentare il singolo, ma impedisce l’evoluzione della specie. Noi abbiamo preferito sacrificare la nostra immortalità, Diaspar invece non ha voluto rinunciare ai suoi falsi sogni. Ecco perché ci siamo divisi, ed ecco perchénon dobbiamo mai più incontrarci." Per quanto si aspettasse quelle parole, l’effetto che produssero su di lui fu violento. Tuttavia Alvin si rifiutava di ammettere il fallimento di tutti i suoi piani, anche se formati appena a metà, e da quel momento solo una parte della sua mente continuò ad ascoltare ciò che Seranis stava dicendo. Capiva e annotava ogni parola, ma la parte più attiva del suo cervello stava percorrendo la strada che portava a Diaspar, cercando di immaginare quali ostacoli avevano potuto mettere lungo il percorso. Seranis era chiaramente triste. Aveva una voce supplicante, e non parlava solo per lui, ma anche per Hilvar. Alvin lo capiva benissimo. La donna era conscia della comprensione e dell’affetto che si era stabilito tra i due giovani in quei giorni passati insieme. Hilvar fissava la madre mentre questa parlava, e nei suoi occhi c’era uno sguardo di disapprovazione. «Non vogliamo far nulla contro la vostra volontà, ma certo voi vi rendete conto di ciò che questo incontro significherebbe per il nostro popolo. Tra la nostra cultura e la vostra c’è un abisso grande quanto quello che separava la Terra dalle sue colonie. Pensate solo a questo, Alvin: voi e Hilvar avete circa la stessa età. Eppure sia lui sia io saremo morti da secoli quando voi sarete appena alle soglie dell’età matura. E la vostra è solo la prima di una serie infinita di esistenze.» La stanza era silenziosa, tanto silenziosa che vi giungevano perfino i più leggeri rumori dall’esterno. «Cosa volete che faccia?» mormorò Alvin a voce bassissima. «Desideravamo offrirvi l’alternativa fra restare e tornare a Diaspar, ma ora è impossibile. Sono accadute troppe cose. Nel breve tempo che siete rimasto con noi avete prodotto molti scombussolamenti. Non vi rimprovero: so che non l’avete fatto apposta. Sarebbe stato meglio, però, lasciare le creature incontrate a Shalmirane al loro destino. «Quanto a Diaspar…» Seranis ebbe un gesto di disappunto. «Troppa gente sa dove siete andato. Non abbiamo agito in tempo e, quel che è peggio, l’uomo che vi ha aiutato a scoprire Lys è scomparso. Né il vostro Consiglio né i nostri agenti sanno scoprire dove sia, e quell’uomo costituisce un pericolo per la nostra sicurezza. Forse vi sorprenderà che io vi dica tutto questo, ma so di poterlo fare senza timore. Purtroppo una sola cosa è possibile: rimandarvi a Diaspar con ricordi falsi. Abbiamo studiato accuratamente questi ricordi. Quando sarete a casa non saprete più nulla di noi e crederete di aver avuto strane avventure in misteriose caverne sotterranee che crollavano di continuo alle vostre spalle, e che siete rimasto in vita cibandovi di muschio dal sapore sgradevole e bevendo l’acqua che sgorgava dalla roccia. Per tutto il resto della vostra vita crederete che sia questa la verità. Tutti presteranno fede ai vostri racconti. Così più nessuno, a Diaspar, si lascerà prendere dalla voglia di uscire all’esterno, poiché saranno convinti che quei po’ che si poteva esplorare è già stato conosciuto.» Seranis fece una pausa e fissò Alvin con occhi ansiosi. «Ci spiace che questo si renda necessario, e vi chiediamo perdono adesso, che ancora possiamo. Forse non approvate il nostro verdetto, ma noi conosciamo molte cose che voi ignorate. Se non altro, però, non avrete rimpianti, perché sarete convinto di avere scoperto tutto ciò che c’era da scoprire.» Alvin si domandò se poteva essere vero. Dubitava di potersi riabituare alla monotona vita di Diaspar, anche se riuscivano a convincerlo che oltre le mura della città non esisteva niente d’interessante. Comunque, non aveva nessuna intenzione di fare l’esperimento. «Quando dovrei sottopormi a questo trattamento?» chiese. «Subito. Noi siamo pronti. Aprite la vostra mente, come avete fatto l’altra volta, e non saprete più nulla finché non vi ritroverete a Diaspar.» Alvin restò un poco in silenzio. «Vorrei congedarmi da Hilvar» disse, calmissimo. Seranis annuì. «Capisco. Vi lascerò soli e tornerò appena sarete pronti.» Si avviò verso le scale che conducevano al piano terreno, e li lasciò soli sul terrazzo. Alvin tacque a lungo prima di parlare all’amico. Si sentiva infinitamente triste e tuttavia ben deciso a non abbandonare le speranze. Contemplò ancora una volta il villaggio in cui aveva conosciuto una nuova vita, il villaggio che forse non avrebbe mai più rivisto se coloro che si schieravano dalla parte di Seranis fossero riusciti nel loro intento. La vettura era ancora ferma sotto un albero, col paziente robot che fluttuava poco sopra. Alcuni bambini guardavano incuriositi quello strano personaggio, ma gli adulti non vi badavano nemmeno. «Hilvar» fece Alvin bruscamente. «Sono molto addolorato.» «Anch’io» rispose Hilvar, con voce alterata dall’emozione. «Speravo che tu potessi rimanere con noi.» «Ti sembra giusto ciò che vuol fare Seranis?» «Non biasimare mia madre. Fa soltanto quello che le chiedono di fare.» La risposta era evasiva, ma Alvin non ebbe il coraggio di insistere. «Dimmi, allora. Se cercherò di partire con tutti i miei ricordi intatti, come potrà fermarmi la tua gente?» «Sarà presto fatto. Se cercherai di scappare, guadagneremo il controllo della tua mente e ti costringeremo a tornare indietro.» Alvin se l’aspettava, e non si scoraggiò. Avrebbe voluto confidarsi con Hilvar, che era sinceramente sconvolto per l’imminente separazione, ma non osava mettere a repentaglio il suo piano. Lentamente, con la massima precisione, tracciò mentalmente l’unica strada che avrebbe potuto riportarlo a Diaspar nei termini che voleva. C’era un solo rischio da affrontare, contro il quale non poteva prendere alcuna precauzione: se Seranis avesse rotto il patto e gli avesse letto nel pensiero, tutto il suo stratagemma sarebbe andato in fumo. Tese la mano a Hilvar, che la strinse, incapace di dir parola. «Scendiamo a raggiungere Seranis» disse Alvin. «Vorrei anche salutare qualche persona del villaggio, prima di andarmene.» Hilvar lo seguì silenzioso, nella tranquilla frescura dell’interno, poi attraverso l’atrio e fuori sul prato che circondava la casa. Seranis li stava aspettando con aria calma e risoluta. Capiva che Alvin le nascondeva qualcosa e, come chi tende i muscoli prima di uno sforzo fisico, chiamò a raccolta tutta la sua forza mentale. «Siete pronto, Alvin?» «Prontissimo.» C’era una nota nella voce del giovane che la fece trasalire. «Allora distendete i nervi e non pensate a nulla. Tra poco vi ritroverete a Diaspar.» Alvin si avviò verso Hilvar e mormorò, in modo che Seranis non potesse udire: «Arrivederci, Hilvar. Non preoccuparti…Tornerò!». Poi fissò di nuovo Seranis. «Non vi biasimo per quel che state cercando di fare» disse. «Voi siete certa di agire per il meglio, ma io non sono d’accordo. Diaspar e Lys non devono restare separate per sempre. Un giorno potrebbero avere un disperato bisogno l’una dell’altra. Così me ne tornerò a casa con tutto ciò che ho appreso,e voi non potrete fermarmi." Non indugiò oltre, e fece appena in tempo. Seranis era rimasta immobile, ma lui sentiva che stava perdendo il controllo dei propri movimenti. La forza che stava tentando di annientare la volontà era più forte di quel che avrebbe immaginato. Capì che molte altre menti stavano correndo in aiuto a Seranis. Disperato, si sforzò di rientrare nella casa, e per un istante interminabile temette di doversi dare per vinto. Poi ci fu un luccicare di acciaio e di cristalli, e due braccia di metallo si chiusero rapidamente attorno a lui. Il terreno cominciò ad allontanarsi sotto di lui. Colse la visione di Hilvar, immobile per la sorpresa e con un’espressione attonita. Il robot lo stava trasportando, a parecchi metri dal suolo, a una velocità maggiore di quella di un uomo in corsa. Seranis comprese immediatamente quali fossero le intenzioni di Alvin, e nello stesso istante Alvin sentì cessare la pressione esercitata sulla sua mente. Ma Seranis non era ancora vinta. Alvin sentì accadere ciò che aveva temuto, e fece del suo meglio per resistere. In lotta nel suo cervello c’erano ora due separate entità, e una delle due stava supplicando il robot di rimetterlo a terra. Alvin aspettò, senza fiato, cercando di resistere contro quelle forze che sapeva di non poter vincere. Aveva corso il rischio; non aveva la certezza che il robot avrebbe ubbidito ai complessi ordini che gli aveva dato. Per nessun motivo, così aveva detto Alvin al robot, avrebbe dovuto obbedire a nuovi suoi ordini prima di giungere a Diaspar. Senza esitare, la macchina correva al di sopra del sentiero che Alvin le aveva accuratamente indicato. Una parte della mente di Alvin stava ancora supplicando di essere deposto a terra, ma l’altra metà si rallegrava di essere salvo. E anche Seranis dovette comprendere che era inutile lottare, perché Alvin si sentì liberare definitivamente il cervello da ogni pressione. Ritrovò la pace, come l’antico navigatore nell’attimo in cui, legato all’albero della nave, aveva sentito il canto delle sirene morire in lontananza. 15 Alvin si rilassò solo quando rivide attorno a sé la camera delle Vie Mobili. Fino all’ultimo aveva temuto che quelli di Lys sarebbero riusciti a fermare la sotterranea, riportandolo al punto di partenza, invece il viaggio era stato la pacifica ripetizione di quello d’andata: quaranta minuti dopo aver lasciato Lys, Alvin era nella tomba di Yarlan Zey. Alcuni emissari del Consiglio lo stavano aspettando, paludati nei severi abiti neri che non avevano più indossato da secoli. Alvin non ne fu né sorpreso né allarmato. Aveva superato tanti ostacoli che uno di più non gli faceva paura. Le cose che aveva appreso da quando aveva lasciato Diaspar gli davano una grande sicurezza e inoltre aveva un alleato potente, anche se un po’ imprevedibile. Le migliori menti di Lys non avevano potuto intralciare i suoi piani; Diaspar, tutto sommato, non poteva fare di più. C’era un motivo razionale in questa sua convinzione, ma era basato in parte su qualcosa che andava oltre la logica: la fede nel suo destino. Il mistero delle sue origini, l’aver fatto cose che nessuno aveva mai compiute, il modo in cui nuovi orizzonti gli si erano aperti, tutto ciò aumentava la fiducia che Alvin aveva in se stesso. La fiducia nel proprio destino è uno dei doni più preziosi che gli dèi abbiano elargito all’uomo, ma Alvin non immaginava quanti ne avesse portati alla completa rovina. «Alvin» esordì il capo dei censori della città «abbiamo ordine di accompagnarti ovunque tu vada, finché il Consiglio non avrà ascoltato il tuo caso ed emesso un verdetto.» «Di che cosa sono accusato?» s’informò Alvin. Era ancora felice per il modo com’era riuscito a scappare da Lys, e non riusciva a prendere sul serio questi nuovi sviluppi. Forse Khedron aveva parlato; provò un po’ di risentimento contro il Buffone che non aveva saputo starsene zitto. «Nessuna accusa, per ora. Vogliamo prima ascoltarti.» «Quando?» «Prestissimo, credo.» Il censore era a disagio, non sapeva come comportarsi. Un momento trattava Alvin come un qualsiasi cittadino, poi si ricordava tutt’a un tratto di averlo in consegna e prendeva un’aria ufficiale e impacciata. «Questo robot» fece bruscamente indicando il compagno di Alvin «da dove viene? È uno dei nostri?» «No. L’ho portato da Lys, la terra che ho visitato. Voglio farlo incontrare col Computer Centrale.» Quelle parole produssero una grandissima impressione. Il fatto che esistesse qualche luogo fuori di Diaspar era già difficile da accettare, ma che poi Alvin si fosse tirato dietro uno degli abitanti col proposito di presentarlo al Computer Centrale era addirittura sbalorditivo. I censori si guardarono senza sapere che dire. Alvin riuscì a stento a trattenere una risata. Mentre attraversava il Parco, coi guardiani che si tenevano a rispettosa distanza bisbigliando fra loro, agitatissimi, Alvin meditava sulla prossima mossa. Per prima cosa doveva scoprire con esattezza cos’era accaduto durante la sua assenza. Seranis gli aveva comunicato che Khedron era scomparso. A Diaspar erano innumerevoli i posti in cui un uomo poteva nascondersi, e dato che il Buffone conosceva perfettamente la città sarebbe stato molto difficile trovarlo prima del giorno in cui avesse deciso di tornare in circolazione. Forse, pensò Alvin, avrebbe potuto lasciare un messaggio in un posto dove Khedron avrebbe finito col vederlo, e combinare un appuntamento. Ma la presenza delle persone che gli erano state messe a guardia poteva renderlo impossibile. Doveva ammettere che la sorveglianza era molto discreta. Quando raggiunse il suo appartamento aveva quasi dimenticato di essere seguito. Probabilmente non gli avrebbero dato noia, a meno che non avesse tentato di lasciare Diaspar, cosa che per il momento non aveva intenzione di fare. Del resto, doveva essere impossibile tornare a Lys con la sotterranea. A quest’ora Seranis e i suoi amici l’avevano certamente messa fuori uso. I censori non si introdussero in casa; sapevano che c’era una sola uscita e si fermarono fuori, di guardia. Poiché non avevano istruzioni per il robot, lo lasciarono con Alvin. Era una macchina con cui non volevano avere niente a che fare, dato che proveniva dall’esterno. Da come si comportava, non potevano stabilire se il robot fosse servo passivo di Alvin, o se agiva di sua volontà. Nel dubbio, pensarono conveniente lasciarlo alle cure di Alvin. Appena la parete si fu chiusa alle sue spalle, Alvin materializzò il suo divano preferito e vi si gettò di peso. Felice di ritrovarsi tra le cose familiari, richiamò dalle unità-memoria gli ultimi suoi tentativi di pittura e scultura e li esaminò con occhio critico. Se prima non lo avevano soddisfatto, ora gli facevano addirittura orrore. Non poteva nemmeno soffrirne la vista. La personalità che li aveva creati aveva cessato di esistere. Ad Alvin, nei pochi giorni passati lontano da Diaspar sembrava di aver accumulato le esperienze di una vita intera. Cancellò tutti i prodotti della sua adolescenza. In modo completo, per evitare di ritrovarli nelle Banche Memoria, e la stanza tornò vuota. Erano rimasti soltanto il divano su cui sedeva e il robot, che continuava a guardarlo con grandi occhi impassibili. Che ne pensava di Diaspar? Poi Alvin ricordò che il robot aveva già visto la città, nei giorni degli ultimi contatti con le stelle. Quando si sentì nuovamente a suo agio, Alvin si decise a chiamare gli amici. Cominciò con Eriston ed Etania. Più per dovere che per un vero desiderio di vederli e parlare con loro. Quando il comunicatore rispose che erano irreperibili, non ebbe nessun dispiacere. Lasciò comunque un breve messaggio per annunciare il suo ritorno, per quanto fosse superfluo, dato che l’intera città doveva esserne ormai al corrente. Ma lo fece sperando che avrebbero apprezzato il suo pensiero. Cominciava a imparare ad avere considerazione per gli altri, anche se non si era ancora reso conto che, come tutte le virtù, se non era spontanea non aveva un grande valore. Poi, mosso da un improvviso impulso, chiamò il numero che Khedron gli aveva dato tanto tempo prima nella Torre di Loranne. Non si aspettava nessuna risposta, ma c’era la possibilità che Khedron avesse lasciato un messaggio. La supposizione era esatta, ma il messaggio in sé era sconcertante e inaspettato. La parete si dissolse e il Buffone gli apparve dinanzi. Sembrava stanco e nervoso; non era più l’individuo sicuro di sé, un po’ cinico, che Alvin aveva salutato nella sotterranea. Aveva un’espressione smarrita e parlava come se non gli restasse che poco tempo. «Alvin» cominciò «ti lascio una registrazione. Solo tu la puoi ricevere, e puoi usarla nel modo che credi più opportuno. Quando sono uscito dalla Tomba di Yarlan Zey mi sono accorto che Alystra ci aveva seguiti. Deve aver detto al Consiglio che tu avevi lasciato Diaspar e che io ti avevo aiutato. Poco dopo i censori sono venuti a cercarmi, così ho deciso di nascondermi. Ci sono abituato, l’ho fatto altre volte, quando i miei scherzi non venivano apprezzati. Loro non sarebbero riusciti a trovarmi neppure tra mille anni, ma qualcun altro ci è quasi riuscito. Ci sono degli stranieri a Diaspar, Alvin: non possono che essere venuti da Lys, e mi stanno dando la caccia. Non so cosa vogliano, ma non mi piace. Il fatto che siano quasi riusciti a trovarmi, sebbene la città sia completamente nuova per loro, mi fa pensare che abbiano poteri telepatici. Posso tener testa al Consiglio, ma questo è un pericolo sconosciuto e non mi sento di affrontarlo. «Così ho deciso di anticipare un passo che certo il Consiglio mi avrebbe obbligato a fare, come già altre volte hanno minacciato. Vado dove nessuno può seguirmi, dove posso sfuggire a qualsiasi cambiamento che stia per prodursi a Diaspar. Forse sono uno sciocco; solo il tempo potrà provarlo. Un giorno saprò la risposta. «A quest’ora avrai già capito che sono rientrato nella Sala della Creazione, nella pace delle Banche Memoria. Qualsiasi cosa accada, spero nel Computer Centrale e nelle forze che esso controlla per il bene di Diaspar. Se qualcuno manometterà il Computer Centrale, siamo perduti. Se no, non ho niente da temere. Quando rinascerò, che sia tra cinquecento o tra centomila anni, sarà come se avessi dormito solo un istante. Come ritroverò la città? Tu forse non ci sarai, ma un giorno o l’altro ci incontreremo di nuovo. Non saprei dire se sono ansioso di vivere quell’incontro o se lo temo. Non ti ho mai capito, Alvin, anche se c’è stato un tempo in cui sono stato tanto sciocco da crederlo. Soltanto il Computer Centrale sa la verità, ed è il solo a sapere che ne è stato degli altri Unici. Hai per caso scoperto che fine hanno fatto? «Forse una delle ragioni per cui cerco rifugio nel futuro è che sono impaziente. Voglio vedere i risultati di ciò che hai iniziato, ma preferisco non esserci durante gli stadi intermedi, che potrebbero essere poco piacevoli. Sarà interessante vedere, nel mondo che mi troverò davanti al mio risveglio, se ti ricorderanno come un creatore o come un distruttore, o se ti avranno dimenticato. «Arrivederci, Alvin. Avevo pensato di darti qualche consiglio, ma tanto so che non li seguiresti. Farai la tua strada, come hai sempre fatto, e i tuoi amici non saranno che strumenti da usare o scartare secondo le circostanze. Questo è tutto. Non ho altro da aggiungere.» Per un attimo Khedron, il Khedron che ormai non era altro che una piccola massa di cariche elettriche nelle celle-memoria della città, guardò Alvin con rassegnazione e tristezza. Poi l’immagine si dissolse. Alvin restò a lungo immobile. Per la prima volta nella sua vita stava facendo un esame di coscienza; doveva ammettere la verità di ciò che aveva detto Khedron. Quando mai, preso dai suoi progetti e dalle sue avventure, si era fermato a considerare se le sue azioni potevano danneggiare i suoi amici? Li aveva lasciati in ansia, e forse, fra poco, avrebbe procurato loro dispiaceri anche maggiori… Tutta la sua insaziabile curiosità e il desiderio di scoprire cose che non dovevano essere conosciute. Non aveva mai provato affetto per Khedron; il carattere chiuso del Buffone non permetteva forti legami d’amicizia. Ma più ripensava alle parole di congedo di Khedron, più si sentiva assalire dai rimorsi. Per colpa sua, il Buffone aveva deciso di scomparire per rifugiarsi nell’ignoto futuro. Tuttavia, cercava di consolarsi Alvin, quel fatto provava solo quel che aveva sempre sospettato: Khedron era un codardo. Forse non più codardo di chiunque altro a Diaspar, ma con la sfortunata aggravante di possedere una fantasia molto accesa. Alvin si sentiva responsabile del destino dell’amico, ma solo in parte. Chi altro aveva danneggiato e deluso a Diaspar? Ripensò a Jeserac, il tutore, che aveva usato tanta pazienza col più insubordinato dei suoi pupilli. Ricordò tutte le gentilezze che i genitori gli avevano prodigato in tanti anni, e soprattutto ripensò ad Alystra. Alystra l’aveva amato, e lui aveva accettato quell’amore o l’aveva ignorato a capriccio. Forse la ragazza sarebbe stata più felice se lui l’avesse disprezzata del tutto? Ora capiva anche perché non aveva mai amato Alystra, né alcun’altra ragazza di Diaspar. Questa era un’altra lezione ricevuta da Lys. Diaspar aveva dimenticato molte cose, e fra esse il vero significato dell’amore. Ad Airlee aveva visto le mamme cullare i piccini sulle ginocchia e aveva lui stesso provato un senso di tenera protezione verso quelle creaturine indifese. Ma nessuna donna a Diaspar conosceva o si curava di ciò che era stato un tempo il fine ultimo di un vero amore. Non c’erano emozioni sincere, né passioni profonde nella città immortale, forse perché quei sentimenti non potevano durare in eterno, e facevano quindi parte dei concetti che Diaspar aveva bandito. Fu in quel momento, se mai tale momento ci fu, che Alvin comprese quale doveva essere il suo destino, in che cosa poteva risiedere la felicità. Fino a quel momento era stato l’inconscio agente dei suoi impulsi. Se avesse potuto conoscere un’analogia arcaica, si sarebbe paragonato a un cavaliere in groppa a un cavallo imbizzarrito. Quella sua cavalcatura l’aveva portato in molti luoghi bizzarri, e poteva rifarlo. Ora, però, lui aveva imparato a governarla, e si sarebbe fatto portare dove voleva veramente andare. Le fantasticherie di Alvin vennero bruscamente interrotte dal tintinnio discreto dello schermo murale. Era il segnale che qualcuno desiderava entrare. Rispose col segnale d’ammissione, e un attimo dopo si trovò davanti Jeserac. Il tutore aveva un’aria grave, ma non ostile. «Sono incaricato di accompagnarti di fronte al Consiglio, Alvin» disse. «È riunito per ascoltarti.» Poi Jeserac vide il robot e lo esaminò attentamente. «Dunque, questo è il compagno che hai condotto dai tuoi viaggi. Sarà meglio portarlo con noi.» Era quel che Alvin intendeva fare. Il robot lo aveva già salvato da una situazione pericolosa e poteva essergli ancora utile. Si domandò cosa poteva pensare di tutte le avventure e vicissitudini in cui l’aveva coinvolto, e desiderò, forse per la millesima volta, poter capire cosa stava passando per quella mente ermeticamente chiusa. Alvin ebbe l’impressione che il robot avesse deciso di osservare, analizzare, trarre le conclusioni, e non far niente di sua volontà fino al momento in cui non l’avesse ritenuto necessario. Avrebbe cominciato ad agire all’improvviso, e forse in modo non aderente ai piani di Alvin. Lui e il robot erano uniti da un sottile filo che si poteva rompere da un momento all’altro. Alystra li stava aspettando sulla rampa che portava giù in strada. Anche se Alvin avesse voluto biasimarla per essersi immischiata in cose che non la riguardavano, gliene sarebbe mancato il coraggio. La ragazza era fin troppo mortificata, e gli occhi le brillavano di lacrime, quando gli corse incontro. «Oh, Alvin!» gridò. «Che cosa ti faranno?» Alvin le prese le mani con una tenerezza che sorprese entrambi. «Non aver paura, Alystra. Andrà tutto bene. Alla peggio, il Consiglio potrebbe rimandarmi nelle Banche Memoria… Ma vedrai che non lo farà.» La bellezza e il dolore di Alystra erano così commoventi che Alvin si sentì irresistibilmente attratto verso di lei. Ma era solo attrazione fisica; insufficiente, ormai, per Alvin. Ritrasse dolcemente le mani e si voltò per seguire Jeserac verso la Camera del Consiglio. Mentre lo guardava allontanarsi, Alystra si sentì struggere da un senso di solitudine, non più di amarezza. Ora sapeva di non averlo perso, poiché Alvin non era mai stato suo, e quella consapevolezza la metteva al di là di ogni vano rimpianto. Alvin non fece quasi caso agli sguardi curiosi e inorriditi che gli lanciarono i concittadini mentre lui e il suo seguito camminavano lungo le strade. Stava riordinando gli argomenti che avrebbe dovuto usare, e cercava di costruire una storia che risultasse a suo completo favore. Di tanto in tanto si ripeteva che non correva nessun pericolo e che le redini della situazione erano ancora in mano sua. Aspettarono nell’atrio per qualche minuto. E in quei brevi istanti Alvin si domandò come mai, se non aveva paura, si sentiva le gambe tanto deboli. L’unica volta che aveva provato una sensazione del genere era stata quando si era arrampicato lungo gli ultimi metri di una lontana collina di Lys. La collina che Hilvar aveva voluto scalare per mostrargli la cascata, e da dove avevano visto l’esplosione di luce che li aveva attirati a Shalmirane. Cercò di immaginare cosa stesse facendo Hilvar in quel momento, e se si sarebbero nuovamente incontrati. A un tratto gli parve che questo fosse di estrema importanza. Le grandi porte si spalancarono, e Alvin seguì Jeserac nella Sala del Consiglio. I venti membri erano già seduti attorno al loro tavolo a forma di mezzaluna, e Alvin si sentì lusingato che non ci fosse un solo posto vuoto. Doveva essere la prima volta dopo secoli e secoli che il Consiglio si riuniva al completo, senza una sola assenza. Le loro riunioni erano, di solito, pure formalità. Tutti gli affari ordinari venivano normalmente sbrigati con poche chiamate per visifono e, se necessario, con un colloquio fra il presidente e il Computer Centrale. Alvin conosceva di vista la maggior parte dei membri del Consiglio, e la presenza di tante facce familiari lo rassicurò. Non sembravano ostili. Soltanto ansiosi e a disagio, come Jeserac. In fondo erano tutti uomini ragionevoli. Potevano essere seccati che qualcuno avesse provato che erano in errore, ma Alvin non credeva che avrebbero avuto risentimento per lui. Questa, una volta, sarebbe stata una supposizione avventata, ma la natura umana, sotto certi aspetti, era di molto migliorata. Lo avrebbero ascoltato attentamente, ma quello che pensavano loro non aveva importanza. Questa volta non sarebbe stato il Consiglio a giudicarlo, ma il Computer Centrale stesso. 16 Non ci furono formalità. Il Presidente dichiarò aperta la seduta e si rivolse ad Alvin. «Alvin» disse, in tono cortese «vorremmo che tu ci dicessi cosa ti è accaduto da quando sei scomparso, dieci giorni orsono.» Ad Alvin non sfuggì l’implicito senso della parola «scomparso». Nonostante tutto, il Consiglio era riluttante ad ammettere che lui fosse veramente uscito da Diaspar. Chissà se la presenza di stranieri in città era stata notata? Ne dubitava fortemente. In questo caso avrebbero dimostrato un allarme considerevolmente maggiore. Raccontò la sua storia con chiarezza e senza drammatizzare. Alterò solo un punto, quello che si riferiva al modo come aveva lasciato Lys. Meglio tener segreto l’espediente: poteva servirgli in un’altra occasione. Fu interessante osservare come gli atteggiamenti dei membri del Consiglio cambiassero durante il corso della sua narrazione. In un primo tempo si dimostrarono scettici, rifiutandosi di accettare la negazione di tutto ciò in cui avevano creduto, la violazione dei loro più profondi pregiudizi. Quando Alvin parlò del suo grande desiderio di esplorare il mondo che stava oltre la città, e della sua irrazionale convinzione che questo mondo doveva esistere, lo fissarono come fosse stato un essere incomprensibile. In effetti, secondo loro, lo era. Ma alla fine furono costretti ad ammettere che aveva ragione, e che lo sbaglio era stato loro. Col procedere del racconto di Alvin, tutti i dubbi si dissolsero lentamente. Potevano non gradire la verità, ma era impossibile negarla. Se fossero stati tentati di farlo, sarebbe bastato dare un’occhiata al silenzioso compagno di Alvin. Solo un particolare del racconto sollevò l’indignazione generale, ma non sul conto di Alvin. Un mormorio di disapprovazione si levò nella sala quando il giovane parlò del timore di Lys circa eventuali contatti con Diaspar e dei passi che Seranis aveva fatto per impedire una simile catastrofe. La città era orgogliosa della propria cultura, e che qualcuno potesse trattare da inferiori i cittadini di Diaspar era più di quanto il Consiglio riuscisse a tollerare. Alvin chiamò a raccolta tutto il suo tatto; voleva, per quanto fosse possibile, portare il Consiglio dalla sua. Prima di tutto cercò di dare l’impressione di non vedere nulla di male in ciò che aveva fatto e di aspettarsi delle lodi, non del biasimo per le sue scoperte. Era la miglior tattica che avrebbe potuto adottare, poiché servì a disarmare la maggior parte dei possibili critici. Inoltre sortì l’effetto, sebbene ciò non fosse nelle intenzioni di Alvin, di trasferire ogni rimprovero sullo scomparso Khedron. Alvin, secondo il pensiero dei giudici, era troppo giovane per misurare i pericoli cui stava andando incontro. Il Buffone, invece, avrebbe dovuto agire con maggior prudenza, avendo dimostrato così di essere completamente irresponsabile. Ancora non sapevano quanto il Buffone stesso fosse d’accordo con loro. Lo stesso Jeserac, quale tutore di Alvin, fu spesso bersaglio di occhiate severe da parte dei consiglieri. Lui se ne accorgeva, ma non se ne dava per inteso. C’era un certo onore nell’aver istruito la mente più originale che fosse nata a Diaspar, e niente poteva togliere a Jeserac questa soddisfazione. Solo quand’ebbe terminato l’esposizione dei fatti, Alvin passò all’attacco diretto. Avrebbe dovuto in qualche modo convincere quegli uomini delle verità imparate a Lys. Ma come avrebbe potuto far loro veramente capire cose che non avevano mai visto e che non avrebbero potuto immaginare? «È tragico» cominciò «che i due popoli superstiti della specie umana siano rimasti separati per un periodo così enormemente lungo. Un giorno, forse, sapremo come questo è accaduto, ma oggi quello che conta è riparare la frattura… impedire che si approfondisca. Quando ero a Lys ho protestato contro il loro modo di vedere, che essi, cioè, si sentissero superiori a noi; possono avere molto da insegnarci, ma anche noi abbiamo molto da insegnar loro. E se entrambi crediamo di non aver nulla da imparare dall’altro, non è evidente che siamoentrambiin errore?» Tacque, guardò attorno e si sentì incoraggiato a continuare. «I nostri antenati» riprese «hanno fondato un impero esteso fino alle stelle. Ora i loro discendenti temono di spingersi oltre le mura della loro città.Devo dirvi perché?" Pausa. Nell’enorme salone tutti tacevano immobili. «Perché abbiamo paura… di qualcosa che è avvenuto al principio della storia. La verità mi è stata detta a Lys, sebbene la sospettassi già da lungo tempo. Dobbiamo nasconderci per sempre a Diaspar come codardi, fingendo di credere che ai mondo non esista altro… solo perché un miliardo di anni fa gli Invasori ci hanno costretti a ritornare sulla Terra?» Aveva messo il dito sulla piaga, quel timore che non aveva mai condiviso e che non avrebbe mai potuto interamente comprendere. E ora facessero pure quel che volevano. Lui, la verità l’aveva detta. Il Presidente lo fissò con aria grave. «Hai altro da aggiungere» chiese «prima che noi consideriamo il da farsi?» «Una cosa ancora. Vorrei portare questo robot alla presenza del Computer Centrale.» «Ma perché? Sai che il Computer è già al corrente di tutto ciò che accade in questa camera.» «Desidero farlo ugualmente» replicò Alvin cortese ma fermo. «Ne chiedo l’autorizzazione al Consiglio e al Computer.» Prima che il Presidente potesse ribattere, una voce calma e chiara risuonò nel salone. Alvin non l’aveva mai udita in vita sua, ma capì subito a cosa appartenesse. Le macchine informative, che altro non erano che accessori esterni di quella grande intelligenza, potevano parlare agli uomini, ma non possedevano quell’accento inconfondibile di saggezza e di autorità. «Lasciatelo venire da me» acconsentì il Computer Centrale. Alvin guardò il Presidente. Ebbe il buon gusto di non mostrare soddisfazione per quella vittoria, e si limitò a chiedere: «Mi accordate il permesso di allontanarmi?». «Vai pure. Il tuo tutore e i censori ti accompagneranno e ti riporteranno qui appena avremo terminato di discutere.» Alvin fece un cenno di ringraziamento, le grandi porte gli si spalancarono di fronte, e il giovane uscì lentamente dalla Sala. Jeserac lo seguì, e quando le porte si chiusero alle loro spalle, Alvin si girò verso il tutore. «Cosa farà il Consiglio?» domandò con ansia. Jeserac sorrise. «Sempre impaziente, vero? Non so se la mia supposizione sia giusta, ma immagino che finiranno col decidere di chiudere la Tomba di Yarlan Zey, in modo che tu non possa più ripetere il viaggio. Poi Diaspar potrà continuare la sua vita, senza venire mai disturbata dal mondo esterno.» «È proprio ciò che temo» disse Alvin con amarezza. «E pensi ancora di poterlo evitare?» Alvin non rispose subito. Sapeva che il tutore aveva compreso le sue intenzioni, ma almeno non avrebbe potuto immaginare quali erano i suoi piani, perché non ne aveva nessuno. Era arrivato a un punto in cui poteva soltanto improvvisare, e affrontare le nuove situazioni a mano a mano che si fossero presentate. «Mi biasimate?» domandò, e Jeserac rimase stupito dal nuovo tono di voce. Era velata da un accento di umiltà. Per la prima volta Alvin cercava l’approvazione dei suoi simili. Jeserac ne rimase colpito, ma era troppo saggio per crederci seriamente. Alvin era ancora sotto una forte tensione, e non era prudente credere che un qualsiasi miglioramento di carattere fosse permanente. «È molto difficile dirlo» rispose Jeserac. «Io sono tentato di affermare che la sapienza ha sempre un grande valore, e indubbiamente tu hai aggiunto parecchie cose al nostro sapere. Ma hai anche aumentato i nostri pericoli, e a lungo andare, qual è la cosa più importante? Quante volte ti sei soffermato a considerare questo?» Per un attimo, maestro e allievo rimasero a guardarsi in silenzio. Forse per la prima volta ciascuno di loro capiva con maggiore chiarezza il punto di vista dell’altro. Poi s’incamminarono lungo il corridoio che si staccava dalla Sala del Consiglio. E la loro scorta li seguì docile. Questo luogo, pensava Alvin, non è stato fatto per l’uomo. Alla luce delle forti lampade azzurre, così abbaglianti da ferire gli occhi, i corridoi lunghi e larghi sembravano correre via all’infinito. Sotto le grandi volte i robot di Diaspar trascorrevano la loro vita eterna, e solo a intervalli di molti secoli vi risuonava un passo umano. Quella era la città sotterranea, la città delle macchine, senza la quale Diaspar non avrebbe potuto esistere. Qualche centinaio di metri più in là, il corridoio formava una camera circolare del diametro di circa un miglio, il cui soffitto era sostenuto da grandi colonne che dovevano anche sostenere l’incredibile peso della Centrale Energia. Là, secondo la pianta, il Computer Centrale meditava incessantemente il destino di Diaspar. La camera c’era, anche più vasta di quanto Alvin immaginasse… ma dov’era il Computer? Si era aspettato di trovare un’unica, enorme macchina. Lo spettacolo che gli si presentò lo fece fermare incerto, meravigliato. Il corridoio dal quale erano arrivati terminava quasi all’altezza della volta, sulla più grande cavità che mai l’uomo avesse costruito. Da entrambi i lati due lunghe rampe scendevano verso il pavimento. L’immensa distesa illuminata era coperta da centinaia di grandi strutture bianche. Nessuna traccia dello scintillio familiare del metallo, che dai tempi dei tempi l’uomo aveva imparato ad associare alle macchine. Qui si concludeva un’evoluzione lunga quasi quanto quella dell’Uomo. I suoi inizi si perdevano nelle nebbie della preistoria, quando l’Umanità aveva scoperto l’uso dell’energia, e aveva riempito il mondo di rumorosi meccanismi. Vapore, acqua, vento… Tutte le forze della Natura erano state sperimentate per un certo periodo di tempo e poi abbandonate. Per secoli l’energia della materia aveva diretto il mondo, fino al giorno in cui era stata vinta. Durante il cambiamento, le vecchie macchine erano state dimenticate, e altre nuove avevano preso il loro posto. Lentamente, in migliaia di anni, ci si era avvicinati all’ideale di macchina perfetta; quell’ideale che era stato dapprima un sogno, poi una lontana prospettiva e infine realtà:una macchina non deve contenere alcun ingranaggio mobile. Qui c’era la più perfetta espressione di quell’ideale. Quel risultato costato all’Uomo circa cento milioni di anni di ricerche. Nell’attimo in cui aveva raggiunto quel trionfo, l’Uomo aveva voltato le spalle alle macchine per sempre. La macchina era compiuta, autosufficiente per l’eternità. Ora doveva servirlo. Alvin non stette più a chiedersi quale di quelle bianche entità fosse il Computer Centrale. Aveva capito che esso le comprendeva tutte e che si estendeva molto al di fuori di quella sala, includendo tutte le innumerevoli macchine di Diaspar, sia mobili, sia immobili. Così come un cervello umano è la somma di milioni di cellule separate, disposte in un volume di pochi millimetri cubici, gli elementi fisici del Computer Centrale erano sparsi per tutta la lunghezza e ampiezza di Diaspar. La camera non conteneva altro che il sistema di comando per mezzo del quale tutte quelle unità disperse si mantenevano in contatto. Incerto sul da farsi, Alvin rimase in cima al doppio salone. Il Computer Centrale doveva sapere che lui era arrivato, come sapeva tutto ciò che accadeva a Diaspar, e gli avrebbe dato istruzioni. La voce ormai nota risuonò piano, vicinissima a lui. «Discendi la rampa sinistra» ordinò. «Di là ti dirigerò io.» Scese lentamente, col robot che fluttuava sopra di lui. Né Jeserac né i censori lo seguirono. Chissà se avevano ricevuto l’ordine di fermarsi lì, o se invece avevano deciso che potevano benissimo sorvegliarlo dalla loro posizione privilegiata senza prendersi il disturbo della lunga discesa. O magari non osavano avvicinarsi di più al cuore che muoveva tutta Diaspar… Giunto ai piedi della rampa, Alvin, sempre seguendo le istruzioni della voce, si avviò tra due file di forme titaniche. Tre volte seguì gli ordini della voce, finché comprese di aver raggiunto il suo obiettivo. La macchina davanti alla quale si era fermato era più piccola di molte sue compagne, ma sempre gigantesca. I cinque ordini di meccanismi sovrapposti le davano l’aspetto di un mostro accucciato, e Alvin, girando un attimo lo sguardo verso il suo robot, stentò quasi a credere che i due fossero il prodotto di una stessa evoluzione, e che entrambi venissero definiti con la stessa parola. A circa un metro dal suolo un grande pannello trasparente correva lungo l’intera struttura. Alvin premette la fronte contro la sostanza liscia e stranamente calda e gettò un’occhiata all’interno. Dal principio non vide nulla; poi, stringendo le palpebre, distinse migliaia di deboli punti luminosi sospesi nel vuoto. Erano allineati uno dietro l’altro in una grata tridimensionale, misteriosa ed immobile come una costellazione. Alvin restò così parecchi minuti, dimentico del tempo che passava, ma i punti luminosi non si mossero e il loro splendore rimase immutato. Alvin si rese conto che se avesse potuto guardare dentro il suo cervello non ne avrebbe certamente capito la complessità. La macchina gli sembrava immobile e inerte perché lui non poteva vederne i pensieri. Per la prima volta ebbe una pallida idea delle forze che governavano la città. Per tutta la sua vita aveva accettato, senza farsi domande, l’esistenza dei sintetizzatori che da secoli provvedevano agli infiniti bisogni di Diaspar. Migliaia di volte aveva visto crearsi qualcosa, e solo di rado aveva pensato che in qualche luogo doveva esistere il prototipo di ciò che aveva visto comparire nel mondo. Come la mente umana può soffermarsi per qualche istante sopra un singolo pensiero, così il cervello infinitamente più grande, che era soltanto una parte del Computer Centrale, poteva afferrare e ritenere per sempre le idee più complicate. Gli schemi di tutte le cose create erano conservati in quella mente eterna, e bastava soltanto la volontà di un uomo per far sì che quegli schemi diventassero una realtà. Il mondo aveva fatto strada, dal giorno in cui l’uomo delle caverne impiegava ore e ore per ricavare dalla pietra la punta delle sue frecce e i coltelli… Alvin attese, non osando parlare finché non avesse ricevuto un cenno di autorizzazione. Si chiedeva come il Computer Centrale potesse rendersi conto della sua presenza, e vederlo, e udire la sua voce. Mancava qualsiasi traccia di organi sensori: né le griglie, né gli schermi, né gli occhi di cristallo attraverso i quali solitamente i robot prendono visione del mondo che li circonda. «Esponi il tuo problema» disse la voce al suo orecchio. Strano che quell’immane complesso meccanico esprimesse i propri pensieri in tono così dolce. Ma subito Alvin pensò che forse si illudeva; certo era solo una milionesima parte del cervello del Computer Centrale a trattare con lui. Cos’era lui se non uno degli innumerevoli accidenti di cui il Computer si occupava contemporaneamente mentre vegliava su Diaspar? Era difficile parlare a una presenza che riempiva l’intero spazio attorno. Le parole di Alvin sembravano svanire nell’enorme cavità appena pronunciate. «Chi sono io?» chiese. Aveva posto la stessa domanda a parecchie macchine della città, e sapeva quale sarebbe stata la risposta: «Tu sei un uomo». Ma ora si trovava di fronte a un’intelligenza di ordine completamente diverso, e non doveva preoccuparsi dell’assoluta precisione semantica. Il Computer Centrale avrebbe capito ciò che lui intendeva. Comunque non significava che gli avrebbe risposto. Infatti la risposta fu esattamente quella che Alvin aveva temuto. «Non posso rispondere. Equivarrebbe a rivelare i propositi dei miei costruttori, e quindi ad annullarli.» «Allora sono stato progettato quando è stata costruita la città?» «Si può dire la stessa cosa di qualsiasi altro uomo.» La risposta fece riflettere Alvin. Era vero: gli abitanti di Diaspar erano stati progettati con cura, come le macchine. Il fatto di essere Unico gli dava una certa rarità, nient’altro. Capì che non avrebbe appreso altro circa il mistero delle sue origini. Inutile giocare d’astuzia con quella sconfinata intelligenza, o sperare che questa gli rivelasse verità che aveva ricevuto ordine di tenere celate. Comunque non provò disappunto. Gli sembrava di aver cominciato a vedere un barlume di verità, e poi non era quello lo scopo principale della sua visita. Guardò il robot che aveva portato da Lys e restò incerto sul da farsi. Il robot, se avesse intercettato ciò che lui aveva in mente, avrebbe potuto ribellarsi, quindi era necessario non fargli ascoltare ciò che voleva chiedere al Computer. «Puoi creare una zona di silenzio?» domandò. Immediatamente percepì quell’inconfondibile sensazione di isolamento, e lo smorzarsi improvviso di qualsiasi suono, che si creava attorno all’individuo compreso entro i limiti di tale zona. La voce del Computer, ora stranamente piatta e sinistra, mormorò: «Nessuno può udirci. Parla». Alvin sbirciò il robot; non si era mosso dalla sua posizione. Forse non sospettava nulla e non aveva affatto una volontà propria. Forse lo aveva seguito fino a Diaspar come un fedele servitore. E ciò che lui tramava gii sembrò un trucco meschino. «Hai sentito come ho incontrato questo robot» cominciò. «Possiede di certo preziose cognizioni sul passato, che arrivano fino alle epoche precedenti la fondazione della città. Credo sia anche in grado di parlarci di altri mondi, poiché ha seguito il Maestro nei suoi viaggi. Purtroppo i suoi circuiti parlanti sono bloccati. Non so quanto sia complesso il blocco, ma vorrei chiederti di toglierlo.» Nella zona in cui il silenzio assorbiva le parole prima che potessero formare un’eco, la sua voce risuonò atona e vuota. Alvin aspettò di sapere se la sua domanda veniva accettata o respinta. «Ci troviamo di fronte a due problemi» ribatté il Computer. «Uno morale, l’altro tecnico. Questo robot è stato costruito per obbedire agli ordini di un certo uomo. Che diritto ho io di annullare questi ordini, ammesso che ci riesca?» Alvin aveva previsto l’obiezione e si era preparato a controbatterla. «Non conosciamo la natura esatta della proibizione del Maestro. Se tu puoi parlare al robot, forse potrai persuaderlo che le circostanze in cui il blocco è stato imposto sono oggi mutate.» Era l’argomentazione più convincente. Alvin stesso aveva tentato di farlo, senza successo, ma sperava che il Computer Centrale, con le sue risorse mentali infinitamente superiori, sarebbe riuscito a farsi intendere. «Tutto dipende dal tipo di blocco» fu la risposta. «Esistono blocchi che, se si tenta di forzarli, fanno sì che il contenuto delle cellememoria resti cancellato. Mi sembra comunque improbabile che il Maestro possedesse tanta perizia; la cosa richiede l’opera di tecnici specializzati. Chiederò al tuo robot se alle sue unità di memoria è stato applicato un circuito cancellatore.» «Non è possibile che si provochi la cancellazione solo per aver formulato la domanda?» «C’è un procedimento standard per questi casi, e io me ne servirò. Applicherò delle istruzioni secondarie, dicendo alla macchina di ignorare la mia domanda se esiste tale situazione. Si troverà coinvolta in un paradosso logico, per cui sia rispondendomi, sia tacendo, dovrebbe ugualmente disubbidire alle istruzioni ricevute. In questi casi tutti i robot si comportano allo stesso modo. Sgombrano i circuiti d’ingresso e agiscono come se la domanda non fosse stata fatta.» Alvin si pentì di aver fatto quella domanda; e dopo un attimo di ragionamento si convinse che lui doveva adottare la stessa tattica; fingere di non aver fatto la domanda. Se non altro, una cosa era certa: il Computer Centrale era preparatissimo a trattare con tutti i sistemi di cancellazione che potevano esistere nella mente del robot. Alvin non voleva vedere la sua macchina ridotta a un cumulo di rottami. Avrebbe preferito piuttosto riportarla a Shalmirane con tutti i suoi segreti intatti. Chiamò a raccolta tutta la sua pazienza mentre l’incontro silenzioso e inafferrabile tra i due intelletti aveva luogo. Era l’incontro di due menti, entrambe create dal genio umano nella remota età d’oro delle conquiste massime, e che erano ora al di fuori della comprensione di qualsiasi essere vivente. Parecchi minuti dopo, la voce del Computer Centrale parlò di nuovo. «Ho stabilito un contatto parziale. Ho individuato il tipo di blocco e credo di sapere perché è stato imposto. Non c’è che una soluzione per toglierlo. Questo robot non parlerà fino a che i Grandi non saranno discesi sulla Terra.» «Ma sono sciocchezze» protestò Alvin. «Anche l’altro discepolo del Maestro credeva nei Grandi. Ha fatto un lungo discorso senza senso. I Grandi non sono mai esistiti e mai esisteranno.» Alvin era in preda a un’amara delusione. La verità era preclusa dai capricci di un pazzo morto da milioni di anni. «Forse non hai torto dicendo che i Grandi non sono mai esistiti» osservò il Computer. «Questo non significa, però, che non esisteranno mai.» Ci fu un lungo silenzio mentre Alvin meditava sul senso di quelle parole e i due robot entravano nuovamente in contatto. Poi, improvvisamente, Alvin si ritrovò a Shalmirane. 17 Era tutto come l’altra volta, una grande lastra di ebano che assorbiva i raggi del sole senza rifletterli. Alvin era fermo tra le rovine, fissando il lago le cui acque immobili confermavano che il gigantesco polpo non era più un essere cosciente, ma una miriade di animaletti dispersi. Il robot era con lui, ma non c’era alcuna traccia di Hilvar. Alvin non ebbe il tempo di preoccuparsi dell’assenza del suo amico, perché quasi immediatamente si verificò un fatto così fantastico da scacciare dalla sua mente ogni altro pensiero. La volta del cielo cominciò ad aprirsi in due. Una sottile crepa oscura si delineò dall’orizzonte allo zenit e si allargò lentamente come se la notte e il caos stessero per precipitare sull’universo. La fenditura si allargò inesorabilmente fino a occupare un quarto del cielo. Alvin, nonostante tutte le sue cognizioni d’astronomia, non poteva vincere l’impressione che il mondo si stendesse sotto una enorme cupola azzurra… E ora qualcosa stava penetrando attraverso quella cupola dall’esterno. La zona oscura aveva cessato di allargarsi. Le forze che l’avevano provocata stavano scrutando il piccolo universo che avevano scoperto, forse per vedere se valeva la pena di occuparsene. Sottoposto a quell’indagine cosmica, Alvin non provava alcun terrore. Sapeva di trovarsi faccia a faccia con la potenza e la saggezza, di fronte alle quali l’uomo può sentire rispetto, non timore. Ora le potenze avevano deciso… Avrebbero dedicato qualche frammento di eternità alla Terra e alla sua popolazione. Stavano penetrando dalla finestra che avevano scavato in cielo. Faville di una fucina celestiale scendevano sulla Terra, sempre più fitte, in una pioggia di fuoco che, dall’infinito, cadeva formando pozze di luce liquida appena toccato il suolo. Alvin udì parole che suonarono al suo orecchio come una benedizione. «Sono venuti i Grandi». Il fuoco raggiungeva Alvin senza bruciarlo. Era dovunque, riempiva l’immensa conca di Shalmirane del suo scintillio dorato. E Alvin si accorse che le scie luminose avevano una forma, una struttura, e formavano dei vortici. E quei vortici ruotavano sempre più rapidi intorno al proprio asse e il loro centro s’innalzava sempre più creando delle colonne di luce entro le quali si intravedevano figure misteriose ed evanescenti. Da quei totem incandescenti usciva una debole nota musicale, infinitamente lontana e suggestivamente dolce. «Sono venuti i Grandi». E venne una risposta. E quando Alvin udì le parole: «I servi del Maestro vi salutano. Vi stavamo aspettando!» capì che le barriere erano cadute. In quell’istante Shalmirane e i suoi strani visitatori svanirono, e lui si trovò di nuovo alla presenza del Computer Centrale, nei sotterranei di Diaspar. Era stata tutta un’illusione, non più reale del mondo fantastico delle saghe, dove aveva passato tante ore della sua infanzia. Ma come era stata creata? Da dove erano venute le immagini che aveva visto? «Un problema insolito» spiegò la voce piana del Computer Centrale. «Sapevo che il robot doveva avere in mente una concezione visuale dei Grandi. Se fossi riuscito a fargli provare la sensazione di vedere realmente quell’immagine, il resto sarebbe stato facile.» «E come hai fatto?» «Ho chiesto al robot una descrizione di questi Grandi, poi ho carpito lo schema che si formava nei suoi pensieri. Lo schema era incompleto e ho dovuto inventare parecchio. Un paio di volte il quadro che stavo creando ha corso il rischio di allontanarsi troppo dalla concezione del robot, ma io mi tenevo pronto a cogliere ogni segno di perplessità della macchina e a modificare l’immagine prima che il robot s’insospettisse. Il mio vantaggio è di poter usare centinaia di circuiti contro uno dei suoi, e di poter cambiare le immagini con tanta rapidità che il passaggio non si avverte. Ho usato un trucco, ma sono riuscito a saturare tutti i circuiti del robot e a sopraffare il suo senso critico. Quella che hai visto era l’immagine finale, quella che più si adattava alle descrizioni del Maestro. Il robot è rimasto convinto della sua autenticità quel tanto che bastava perché il blocco scattasse, e in quel momento sono riuscito a mettermi perfettamente in contatto con lui. Ora non è più folle; risponderà a tutte le tue domande.» Alvin era ancora confuso. La visione di quella apocalisse gli tormentava la mente, e non riuscì a comprendere perfettamente le spiegazioni del Computer Centrale. Ma non aveva importanza il modo in cui si era compiuto quel miracolo di terapia. Le porte della Verità si erano dunque spalancate! A un tratto Alvin ricordò l’obiezione del Computer Centrale e chiese ansioso: «Sei sempre del parere che non abbiamo il diritto di contraddire gli ordini del Maestro?». «Ho scoperto perché erano stati dati. Il Maestro sosteneva di aver compiuto molti miracoli. I suoi discepoli gli credevano, e la loro fiducia aumentava il prestigio di lui. Ma quei miracoli avevano tutti una spiegazione semplicissima, ammesso che siano avvenuti. È sbalorditivo come persone intelligenti si siano lasciate convincere in un modo simile.» «Dunque il Maestro era un imbroglione?» «No, non proprio. Se fosse stato un volgare impostore, non avrebbe avuto tanto successo, e i suoi insegnamenti non sarebbero durati così a lungo. Era un buon uomo, e molto di quel che diceva era giusto e saggio. Finì col credere lui stesso ai suoi miracoli, ma sapeva che c’era un testimone che avrebbe potuto negarli. Il robot conosceva tutti i suoi segreti; era il suo braccio destro e il suo portavoce, ma se fosse stato interrogato troppo a fondo avrebbe potuto rivelare ogni cosa. Allora gli impose di non rivelare mai ciò che sapeva fino all’ultimo giorno dell’universo, quando i Grandi sarebbero discesi. È difficile credere che nello stesso individuo potesse albergare un tale impasto di sincerità e di falsità, eppure è così.» Alvin si chiese quali fossero i pensieri del robot in quel momento. Era di certo una macchina abbastanza complessa per nutrire un sentimento come il rancore. Poteva essere sdegnato con il Maestro che l’aveva reso suo schiavo… e altrettanto sdegnato con Alvin e il Computer Centrale per averlo guarito dalla follia con l’inganno. La zona di silenzio era stata tolta; non c’era più bisogno di segretezza. Il momento che Alvin aspettava era alfine venuto. Il giovane si volse al robot e gli fece la domanda che lo assillava da quando aveva ascoltato il racconto della saga del Maestro. E il robot rispose. Jeserac lo stava aspettando pazientemente. In cima alla scala, prima di avviarsi lungo il corridoio, Alvin lanciò un’ultima occhiata alla grande sala. E l’impressione fu maggiore di quella provata poco prima. Sotto di lui si stendeva una città morta di case bianche dalle forme strane. Una città illuminata da una luce che non era fatta per gli occhi umani. Poteva essere morta, perché non aveva mai vissuto, ma pulsava di energie molto più potenti di quante avessero mai mosso una qualsiasi materia organica. Sarebbero esistite per tutta la durata del mondo, senza mai distogliere la mente dai pensieri che uomini di genio avevano affidato loro molto tempo prima. Mentre camminavano verso la Sala del Consiglio, Jeserac cercò di fare qualche domanda, ma non venne a sapere niente del colloquio che si era svolto a pochi passi da lui. Ma non per discrezione di Alvin. Il giovane era ancora troppo scosso da tutto ciò che aveva visto, e troppo ebbro di successo, per poter svolgere una conversazione coerente. Jeserac fu costretto a usare tutta la sua pazienza, e sperare che Alvin uscisse da quello stato di trance. Le strade di Diaspar erano illuminate da una luce che sembrava pallida al confronto di quella che brillava sulle macchine. Ma Alvin non se ne accorse, né badò alla bellezza delle torri cui passavano accanto, o agli sguardi dei suoi concittadini. Era strano, pensò, come tutto ciò che era accaduto lo avesse portato a quel momento. Dal suo incontro con Khedron, tutti gli avvenimenti sembravano essersi svolti automaticamente con uno scopo prefisso. I Monitor, Lys, Shalmirane… A ogni istante sarebbe potuto tornare sui suoi passi, ma c’era sempre stato qualcosa a spingerlo avanti. Era lui a costruirsi il suo destino, o era particolarmente favorito dal Fato? Forse non si trattava altro che di semplici probabilità, mosse dalle leggi del caso. Qualsiasi altro avrebbe potuto trovare il sentiero che lui aveva tracciato, e in passato molti altri dovevano aver percorso quella stessa strada. Gli Unici, per esempio? Cos’era successo a loro? Forse lui era l’unico ad aver avuto fortuna. Durante il tragitto, riuscì a stabilire un contatto sempre più diretto tra sé e la macchina liberata dal mutismo che le avevano imposto. Era sempre stata in grado di ricevere i pensieri, ma prima lui non poteva mai sapere in anticipo se avrebbe obbedito ai suoi ordini. Ora l’incertezza era scomparsa. Adesso Alvin poteva parlare al robot come a un altro essere umano, solo che, non essendo soli, comunicavano tra loro inviandosi immagini mentali. Quante volte, prima si era seccato che i robot potessero parlare tra loro telepaticamente. La telepatia era una forza che Diaspar aveva perso da molto tempo, o che aveva eliminato di proposito. Mentre aspettavano di fronte alla Sala dei Consiglio, Alvin continuò la sua silenziosa conversazione con il robot. Era impossibile non paragonare la presente situazione a quella che si era svolta a Lys, quando Seranis e gli altri avevano tentato di piegarlo alla loro volontà. Sperò che conflitti del genere non dovessero ripetersi, ma se fosse sorto qualche contrasto, lui ora si sentiva molto meglio preparato. Gli bastò un’occhiata al volto dei Consiglieri per capire quale decisione avessero preso. Non ne fu sorpreso e nemmeno particolarmente dispiaciuto; ascoltò l’annuncio del Presidente senza mostrare emozione. «Alvin» esordì il Presidente «abbiamo considerato a fondo la situazione che si è venuta a creare in seguito alla tua scoperta, e abbiamo preso una decisione unanime. Poiché nessuno desidera che si producano cambiamenti, e poiché nessun altro si sentirebbe di lasciare Diaspar pur conoscendone il mezzo, la sotterranea per Lys è inutile, o meglio, potrebbe essere un pericolo. L’entrata alla Camera delle Vie Mobili è stata quindi sigillata. «Inoltre, abbiamo già iniziato le ricerche per scoprire eventuali altre uscite. Abbiamo poi considerato attentamente il tuo caso. Vista la giovane età e le circostanze peculiari delle tue origini, non puoi essere condannato per ciò che hai fatto. Anzi, poiché hai denunciato un pericolo potenziale per la nostra vita, hai reso un servizio alla città e ti diamo atto della nostra gratitudine.» I Consiglieri, soddisfattissimi, accennarono un applauso. Una difficile situazione era stata risolta rapidamente, e la necessità di muovere un rimprovero ad Alvin era stata evitata. Se ne sarebbero andati con la convinzione di aver compiuto il loro dovere di capi della città. Forse sarebbero passati secoli prima che si dovesse svolgere una nuova riunione come quella. Il Presidente guardò Alvin in ansiosa attesa; forse sperava che Alvin rispondesse per esprimere la sua gratitudine al Consiglio. Restò deluso. «Posso fare una domanda?» disse Alvin in tono cortese. «Certo.» «Il Computer Centrale ha approvato la vostra decisione?» Una domanda del genere, fatta da un altro, sarebbe stata considerata molto irriverente. Il Consiglio non era tenuto a giustificare le sue decisioni, né a render conto di come le aveva prese. Ma Alvin era nelle buone grazie dei Computer Centrale, e veniva così a trovarsi in una posizione privilegiata. La sua domanda causò un certo imbarazzo e la risposta fu piuttosto evasiva. «Naturalmente abbiamo consultato il Computer Centrale. Ci ha detto che si fida del nostro giudizio.» Ecco, proprio come immaginava. Il Computer Centrale, nello stesso tempo, aveva parlato con lui e aveva discusso col Consiglio, senza contare le migliaia di altre cose di cui certo si era occupato. Sapeva, come lo sapeva lui, che la decisione del Consiglio non aveva alcuna importanza. Il futuro era sfuggito dalle mani dei Consiglieri proprio nell’attimo in cui, con troppa facilità, avevano creduto risolto l’incidente. Alvin non provò alcun senso di superiorità mentre si congedava da quei vecchioni ingenui che si credevano i signori di Diaspar. L’incontro col vero reggitore della città aveva dissipato l’arroganza dal suo animo. Si chiese solo quale impressione avesse fatto sui Consiglieri la tranquilla indifferenza con cui aveva accolto il loro verdetto. I censori non lo accompagnarono; non era più sotto controllo, almeno non in maniera palese. Solo Jeserac lo seguì fuori della Sala del Consiglio e per le strade affollate. «Be’, Alvin» disse. «Ti sei comportato molto bene, ma a me non la dai a bere. Cosa stai macchinando?» Alvin sorrise. «Sapevo che avreste finito per sospettare qualcosa. Se volete venire con me vi mostrerò perché la sotterranea di Lys non ha più alcuna importanza. Poi voglio tentare un altro esperimento; forse non vi piacerà, comunque non è pericoloso.» «Benissimo. Il tutore sarei io, ma pare che le parti si siano invertite. Dove vuoi portarmi?» «Alla Torre di Loranne. Vi mostrerò il mondo esterno.» Jeserac impallidì, ma non batté ciglio. Poi, con un breve cenno di assenso, seguì l’allievo verso la strada mobile. Il tutore si avviò coraggiosamente lungo il tunnel nel quale il vento soffiava incessantemente. In fondo al tunnel qualcosa era cambiato: la griglia di pietra che aveva bloccato l’accesso al mondo esterno era caduta. Il Computer Centrale l’aveva rimossa senza commenti, su richiesta di Alvin. In seguito avrebbe istruito i Monitor di ricollocare la griglia. Ma per il momento il tunnel si apriva senza barriere sul muro esterno della città. Jeserac era quasi arrivato al termine del corridoio quando si rese veramente conto di quello cui andava incontro. Fissò il cielo che si inquadrava nell’apertura, e i suoi passi si fecero più incerti. A un tratto si fermò. Alvin ricordò che in quello stesso punto Alystra aveva girato le spalle per fuggire, e si domandò se sarebbe riuscito a convincere Jeserac ad avanzare. «Vi chiedo solo diguardare» disse «non di lasciare la città. Fatevi coraggio, via!» A Lys, durante il suo breve soggiorno, aveva visto una madre che insegnava al figlio a camminare. Mentre esortava Jeserac ad avanzare lungo il corridoio, ricordò quel fatto. Jeserac, a differenza di Khedron, non era un codardo. Era ben deciso a superare l’istinto che gli suggeriva di tornare indietro, ma la lotta fu terribile. Alvin era quasi più esausto del tutore quando finalmente riuscì a trascinarlo in un punto dal quale si vedeva la piana ondulata del deserto. Poi l’interesse e la strana bellezza della scena, così nuova per Jeserac, ebbero ragione di tutte le paure. Il vecchio fissò affascinato l’immensa distesa di dune e le colline distanti. Era chiaramente affascinato dalla visione delle dune di sabbia e delle alture che si ergevano sullo sfondo Era pomeriggio inoltrato e tra poco la notte, del tutto sconosciuta a Diaspar, avrebbe ingoiato la landa. «Vi ho chiesto di venire qui perché so che avete più diritto di chiunque altro di vedere dove i miei viaggi mi hanno condotto. Volevo mostrarvi il deserto e vi volevo come testimone; così potrete riferire ogni cosa al Consiglio. Come ho detto ai Consiglieri, ho portato questo robot da Lys nella speranza che il Computer Centrale potesse togliere il blocco impostogli dall’uomo conosciuto come il Maestro. Il Computer vi è riuscito, e non so ancora spiegarmi bene con quale espediente. Ora ho accesso a tutte le memorie di questa macchina e posso usarne tutti i dispositivi. Osservate.» Alvin parlò mentalmente al robot, che si lanciò fuori dell’apertura, acquistò velocità e in pochi istanti non fu che un lontano scintillio sotto il sole. Volava basso sul deserto, sfiorando le dune che s’incrociavano come onde cristallizzate. Jeserac avrebbe giurato che stesse cercando qualcosa, ma non riusciva a immaginare cosa. Tutt’a un tratto il luccichio si arrestò a circa cinquecento metri dal suolo. Alvin in quel medesimo istante diede un sospiro di soddisfazione e di sollievo. Gettò un’occhiata rapida a Jeserac, come per dirgli: «Ci siamo!». In un primo momento, non sapendo cosa si doveva aspettare, Jeserac non riuscì a notare nessun cambiamento. Poi, quasi stentando a credere ai suoi occhi, vide una nuvola di polvere che si sollevava lentamente dal deserto. È impressionante veder muoversi qualcosa che dovrebbe essere immobile per l’eternità, ma Jeserac ormai non si meravigliava più di niente. Sotto le sabbie qualcosa stava agitandosi, come un gigante che si desti da un lungo sonno, e poco dopo giunse un rumore di terra smossa seguito da un potente getto di sabbia che si alzò fino a una trentina di metri dal suolo. Lentamente la sabbia ricadde tutt’attorno, lasciando scoperto un enorme cratere; Jeserac e Alvin fissavano immobili il cielo dove un momento prima fluttuava il robot. Jeserac cominciava a rendersi conto del perché Alvin era rimasto tanto indifferente quando il Consiglio aveva deciso la chiusura della sotterranea per Lys. Dal deserto squarciato una nave spaziale dalle linee ardite si stava levando verso l’alto e, giunta a una certa altezza, virò puntando verso la Torre di Loranne. Alvin prese a parlare in fretta, come se avesse poco tempo. «Il robot era stato costruito per essere il compagno e il servo del Maestro, ma soprattutto il pilota della sua nave» disse. «Prima di andare a Lys, il Maestro atterrò nel porto di Diaspar, ora sepolto sotto quelle sabbie. Già a quei tempi il porto doveva essere abbandonato. La nave del Maestro è stata probabilmente una delle ultime a raggiungere la Terra. Lui è vissuto per un certo tempo a Diaspar prima di andare a Shalmirane. Le vie aeree erano ancora aperte, ma il Maestro non ebbe più occasione di servirsi della nave, e per tutti questi milioni d’anni la macchina è rimasta ad attenderlo sotto le sabbie che a poco a poco hanno ingoiato il porto. Come la stessa Diaspar, come il robot, come tutte le cose che i costruttori del passato hanno giudicato realmente importanti, la nave è stata preservata dai suoi circuiti di eternità. Finché ci sarà energia ad alimentarla, non potrà logorarsi né essere distrutta; l’immagine conservata nelle sue celle-memoria non sbiadirà, e quell’immagine manterrà perfetta la struttura materiale.» Ora la nave era molto vicina e il robot la stava guidando verso la torre. Era lunga circa trenta metri, fortemente appuntita alle estremità. Per quanto si poteva intravedere attraverso la crosta di sabbia che la ricopriva, pareva non avere né finestre né altre aperture. Improvvisamente i due uomini furono investiti da un getto di polvere e di terriccio. Una sezione dello scafo si era aperta, lasciando scorgere l’interno di una cabina e una seconda porta in corrispondenza. La nave fluttuava a poche spanne dall’apertura della torre. Si era avvicinata adagio, accostando la torre con un’accortezza e una perizia magistrali. «Arrivederci, Jeserac» fece Alvin. «Non posso tornare a Diaspar per salutare gli amici. Dite a Eriston e a Etania che spero di rivederli presto. Dite loro che sono grato di tutto ciò che hanno fatto per me. E sono grato a voi, Jeserac, anche se forse non approvate il modo in cui ho messo in pratica le vostre lezioni. Quanto al Consiglio… dite loro che la strada che è stata aperta non può venire chiusa da un semplice verdetto.» La nave non era più che un punto lontano nel cielo e all’improvviso Jeserac non la distinse più. Solo il rombo gli giungeva ancora, l’eco del tuono incessante delle masse d’aria spostate dalla più miracolosa macchina creata dall’Uomo, la macchina che avanzava, chilometro dopo chilometro, scavandosi una galleria di vuoto nel cielo. Gli ultimi echi svanirono, ma Jeserac non si mosse. Stava pensando al ragazzo che se n’era andato, perché per lui Alvin sarebbe sempre stato un ragazzo, l’unico venuto al mondo a Diaspar da quando, in tempi immemorabili, il ciclo della nascita e della morte era stato abolito. Alvin non si sarebbe mai fatto adulto; per lui l’intero universo era un giocattolo, un rompicapo da sciogliere per passare il tempo. Nei suoi giochi aveva ora scoperto l’ultimo e il più mortale dei trastulli, che poteva riuscire fatale a ciò che restava della civiltà umana… Ma qualsiasi cosa fosse accaduta, per Alvin sarebbe stata ancora un gioco. Il sole era basso sull’orizzonte, e un vento gelido soffiava dal deserto. Ma Jeserac aspettava immobile, dominando i suoi terrori; e a un tratto, per la prima volta in vita sua, vide le stelle. 18 Alvin non aveva mai visto tanto lusso, nemmeno a Diaspar. Non si poteva dire che il Maestro fosse stato un tipo ascetico. Soltanto dopo qualche minuto Alvin si rese conto che tutte quelle comodità non erano inutili stravaganze. Quello scafo aveva dovuto servire da casa al Maestro durante i suoi lunghissimi viaggi tra le stelle. Non si vedevano pulsanti o strumenti di comando d’alcun genere. Solo il largo schermo ovale che copriva completamente la parete in fondo indicava che quella non era una camera qualunque. Davanti allo schermo, disposte a semicerchio, c’erano tre cuccette basse; il resto della cabina era occupato da due tavolini e da un certo numero di sedie imbottite, alcune di una forma chiaramente studiata per ospitare corpi non umani. Alvin si sistemò comodamente davanti allo schermo e si guardò attorno per cercare il robot. Era scomparso. D’un tratto lo scorse, incuneato in una nicchia del soffitto. Aveva portato il Maestro attraverso lo spazio fino alla Terra, l’aveva seguito come servo a Lys, e ora, come se gli eoni trascorsi non fossero passati affatto, era pronto a esplicare di nuovo i suoi compiti di pilota. Alvin gli diede un comando a mo’ di esperimento e subito lo schermo s’illuminò, inquadrando la Torre di Loranne vista di scorcio e apparentemente coricata su un fianco; poi il cielo, la città e la grande distesa del deserto. Le immagini erano nitide, chiarissime. Alvin tentò parecchi ordini per impratichirsi, finché riuscì a ottenere tutte le inquadrature che desiderava. Si poteva partire. «Portami a Lys.» L’ordine era semplice, ma come avrebbe potuto ubbidirgli la nave se lui stesso non aveva alcuna idea sulla direzione da prendere? Alvin non ci aveva pensato, e quando se ne ricordò lo scafo stava già sorvolando il deserto a velocità pazzesca. Si strinse nelle spalle e accettò con un sospiro di sollievo il fatto di avere dei servi tanto più sapienti di lui. Era difficile giudicare la velocità dell’immagine che si proiettava sullo schermo, ma molti chilometri dovevano passare a ogni minuto. Poco lontano dalla città il colore del terreno divenne di colpo grigio scuro, e Alvin comprese che stava sorvolando il letto di uno degli oceani scomparsi. Una volta Diaspar doveva essere stata molto vicina al mare, ma nei vecchi documenti non ne veniva mai fatto cenno. Per quanto vecchia, Diaspar doveva essere nata parecchio tempo dopo la scomparsa degli oceani. Dopo centinaia di chilometri Alvin fermò la sua nave sopra uno strano schema di linee che si intersecavano, appena appena visibili sulla coltre di sabbia. Restò un po’ a fissarlo senza capire, poi si rese conto che doveva trattarsi delle rovine di una città sepolta. Ripartì quasi subito; era straziante pensare che miliardi di uomini non avevano lasciato altra traccia della loro esistenza che quei solchi nella sabbia. Alla fine, la leggera curva dell’orizzonte venne interrotta dall’irregolare contorno delle montagne. E subito, quasi nell’istante in cui le vide, le montagne furono sotto di lui. La macchina rallentò e scese verso terra compiendo un grande arco di un centinaio di chilometri. E alla fine vide Lys, con le sue foreste e i suoi fiumi di incomparabile bellezza. A est la Terra era in ombra, e i grandi laghi sembravano macchie di notte più scura. Ma a ovest le acque danzavano, riflettendo colori che non aveva mai immaginato. Riuscì a localizzare Airlee quasi subito, e fu una fortuna, perché il robot non avrebbe saputo condurlo oltre. Alvin se lo era quasi aspettato, e si sentì felice nell’avere la conferma che la macchina aveva dei limiti. Con tutta probabilità il robot non aveva mai sentito parlare di Airlee, e quindi la posizione del villaggio non poteva essere registrata nelle sue cellule mnemoniche. Dopo qualche esperimento Alvin fece scendere lo scafo nei pressi della collina da dove aveva scorto Lys per la prima volta. Era abbastanza facile controllare la macchina. Non doveva far altro che indicare il suo desiderio, e il robot si sarebbe incaricato di tutti i particolari. Forse era stato condizionato a ignorare ordini pericolosi o impossibili. Lui comunque non aveva nessuna intenzione di darne di simili. Alvin era quasi certo che nessuno avesse visto il suo arrivo. Era un fatto di estrema importanza, perché non aveva nessuna intenzione di ingaggiare un combattimento mentale con Seranis. I suoi piani erano ancora alquanto vaghi, ma non avrebbe corso rischi prima di aver ristabilito relazioni cordiali. Il robot gli avrebbe fatto da ambasciatore, e lui sarebbe rimasto all’interno dello scafo. Sulla strada per Airlee non incontrò nessuno. Era strano sedere nella nave spaziale mentre il suo campo visivo si muoveva lungo i sentieri noti e il mormorio della foresta gli risuonava nelle orecchie. Tuttavia gli riusciva ancora difficile identificarsi col robot, e lo sforzo per controllarlo era sensibile. Era quasi buio quando raggiunse Airlee, e gli ultimi raggi illuminavano le facciate delle case più alte. Alvin si tenne nell’ombra, e venne scoperto soltanto quando aveva quasi raggiunto la casa di Seranis. Ci fu un rabbioso ronzio, e la visione fu offuscata da un frenetico battere d’ali. Indietreggiò istintivamente, poi si rese conto di quel che era accaduto. Krif stava dimostrando ancora una volta la sua avversione per tutto ciò che volava senz’ali. Per non ferire la bella e stupida creatura, Alvin fermò il robot e rimase in attesa che la furia di Krif si fosse sfogata. Lui era tranquillamente seduto a un chilometro e mezzo da lì, ma gli attacchi di Krif lo fecero sobbalzare. Fu molto lieto quando Hilvar uscì a studiare la situazione. All’arrivo del padrone, Krif se ne andò, tra ronzii diffidenti. Nel silenzio che seguì, Hilvar restò per un poco a scrutare il robot. Poi sorrise. «Salve, Alvin» disse. «Sono contento che tu sia tornato. O sei ancora a Diaspar?» Non era la prima volta che Alvin provava un senso di invidiosa ammirazione per la prontezza e l’agilità di mente dell’amico. «No» rispose, chiedendosi intanto se la voce, portata dai robot, sarebbe stata riconoscibile. «Sono ad Airlee, non molto lontano da te. Ma per il momento non mi muoverò da dove sono.» Hilvar rise. «Non hai torto. Seranis ti ha perdonato, ma l’Assemblea… non direi. Proprio in questo momento si sta organizzando una riunione, la prima che si sia mai tenuta a Lys.» «Vuoi dire che si sono riunite tutte le autorità? Con i vostri poteri telepatici, avrei scommesso che le riunioni fossero un fatto superato.» «Sono rarissime, ma a volte avvengono. Tre senatori sono già arrivati e gli altri saranno qui da un momento all’altro.» Alvin non poté fare a meno di sorridere. La situazione era dunque identica a quella di Diaspar. Dovunque andasse, si lasciava alle spalle allarmi e preoccupazioni. «Hilvar, sarebbe bene che io parlassi a quelli dell’Assemblea, restandomene qui al sicuro, naturalmente.» «Se l’Assemblea promette di non forzare le tue facoltà mentali, puoi fidarti a venire di persona. In caso contrario, resta dove sei. Ora penso io ad accompagnare il robot dai senatori… Voglio proprio vedere le loro facce.» Alvin, addirittura entusiasta, seguì Hilvar all’interno della casa. Stava per incontrare i reggitori di Lys su un piede di parità; non serbava alcun rancore per quella gente, ma era piacevole sentirsi padrone della situazione e appoggiato da forze che lui solo poteva controllare. Le porte della sala dove si svolgeva la conferenza erano chiuse. Hilvar dovette chiedere ripetutamente che gli aprissero. Le menti dei senatori sembravano profondamente assorte, e fu difficile distoglierli dai loro pensieri. Poi le pareti si aprirono, e Alvin fece avanzare rapidamente il robot fino al centro della sala. I tre senatori restarono impietriti mentre il robot fluttuava verso di loro. Solo Seranis non si mostrò troppo sorpresa. Forse il figlio l’aveva avvertita, o forse si aspettava da un momento all’altro che Alvin ritornasse. «Buonasera» fece Alvin compitissimo, come se quel modo di presentarsi fosse il più naturale del mondo. «Ho pensato bene di ritornare.» La sorpresa dei tre superava qualsiasi previsione. Il senatore più giovane, un bell’uomo coi capelli grigi, fu il primo a riaversi. «Come siete venuto?» balbettò. La ragione di quello sbalordimento era logica. Lys, proprio come Diaspar, aveva messo fuori uso la sotterranea. «Con lo stesso sistema dell’altra volta» spiegò Alvin, per divertirsi un po’ a spese loro. Gli altri due senatori fissarono il primo, che spalancò le braccia in un gesto di perplessità e di costernazione. Il più giovane parlò di nuovo. «Non avete incontrato… difficoltà?» «Per niente» ribatté Alvin, deciso ad aumentare la loro confusione. «Sono tornato» riprese «di mia spontanea volontà, perché ho importanti notizie per voi. A ogni modo, in considerazione del risentimento che mi dovete portare, preferisco starmene in disparte. Mi promettete di non forzare la mia volontà, se vengo di persona?» Nessuno parlò. Il gruppetto si stava evidentemente consultando. Infine Seranis rispose per tutti. «Non cercheremo di ostacolarvi… tanto più che, finora, non ci è servito molto.» «Benissimo. Sarò ad Airlee il più presto possibile.» Aspettò che il robot fosse di ritorno; poi, con molta precisione, gli diede le istruzioni e se le fece ripetere. Seranis, si poteva star certi, non gli avrebbe mancato di parola; ma era sempre meglio proteggersi la ritirata. Uscì dallo scafo. Un attimo dopo ci fu un sibilo, una sagoma scura si stagliò contro il cielo, e la nave sparì in lontananza. Quando lo scafo fu scomparso, Alvin si rese conto di aver fatto uno sbaglio. Uno di quegli sbagli che possono trasformare il piano migliore in un completo disastro. Si era dimenticato che i sensi del robot erano molto più acuti dei suoi, e che la notte si stava facendo sempre più scura. Diverse volte smarrì il sentiero che stava percorrendo e rischiò di urtare malamente contro gli alberi della foresta. A un tratto sentì uno schianto di rami, e da un cespuglio sbucò un grosso animale. Vide due occhi verdi che lo stavano fissando. Si fermò, e una lingua incredibilmente lunga gli raspò il dorso di una mano. Poi sentì un grosso corpo che gli si strofinava amichevolmente contro le gambe. Alla fine l’animale si allontanò, senza aver emesso un solo suono. Non seppe mai che tipo di animale fosse. Le luci del villaggio cominciarono a filtrare fra gli alberi, ma quella guida non gli occorreva più. Il sentiero sotto i suoi piedi si era mutato in un fiume di luce azzurra, smorzata. Il muschio su cui camminava era luminoso, e i suoi piedi lasciavano chiazze scure che svanivano subito dietro di lui. Uno spettacolo straordinario e affascinante, e quando Alvin si chinò a raccogliere un lembo dello strano muschio, brillò per minuti nella conca delle sue mani prima che la luminosità si spegnesse. Hilvar gli venne incontro per la seconda volta, e per la seconda volta lo accompagnò dalla madre e dai senatori, che lo salutarono con aria un po’ bellicosa, ma con rispetto. Forse si chiedevano che fine avesse fatto il robot, ma non fecero commenti. «Sono molto spiacente» cominciò Alvin «per essermi allontanato da voi in modo poco urbano. Vi interesserà sapere che mi è stato altrettanto difficile allontanarmi da Diaspar…» Lasciò che la frase facesse il suo effetto, poi aggiunse subito: «Ho parlato di Lys alla mia gente, facendo del mio meglio per dare un’impressione favorevole. Ma Diaspar non vuole avere niente a che fare con voi. Nonostante tutti i miei bei discorsi, desidera evitare i contatti con una cultura che ritiene inferiore.» Osservò soddisfatto la reazione dei senatori. Perfino Seranis era impallidita leggermente. «Se riesco a fare in modo che Lys e Diaspar si sentano reciprocamente urtate nella loro suscettibilità» pensava Alvin, «il problema è belle risolto. Saranno così ansiose di provare ciascuna la propria superiorità che le barriere cadranno in quattro e quattr’otto.» «Perché siete tornato a Lys?» s’informò Seranis. «Perché voglio convincervi, come vorrei fare con Diaspar, che siete entrambi in errore.» Tacque l’altra ragione, e cioè che a Lys c’era l’unico amico di cui si fidava e di cui aveva bisogno. I senatori, in silenzio, aspettarono che riprendesse a parlare. Alvin sapeva che, attraverso i loro occhi e le loro orecchie, molte altre intelligenze di Lys erano in ascolto. Era il rappresentante di Diaspar e tutta Lys l’avrebbe giudicato da ciò che avrebbe detto. Sentì tutto il peso della propria responsabilità e raccolse bene le idee prima di procedere. Il suo tema principale fu Diaspar. Illustrò la città come l’aveva vista l’ultima volta, sognante sull’orlo del deserto, con le sue torri levate al cielo. Recitò antiche poesie che i poeti avevano scritto in onore di Diaspar, e ricordò gli uomini che avevano speso l’intera vita per abbellire la città. Nessuno, disse, per quanto a lungo potesse vivere, sarebbe mai riuscito a vedere tutti i tesori della città. Ogni giorno c’era qualcosa di nuovo. Poi si soffermò a descrivere le meraviglie che gli uomini di Diaspar avevano costruito, e cercò di far comprendere come le opere di certi artisti fossero state create per l’ammirazione eterna degli uomini. Affermò anche, con un certo orgoglio, che la musica di Diaspar era stato l’ultimo suono della Terra trasmesso verso le stelle. Lo ascoltarono sino alla fine senza interromperlo, né fare domande. Quando finì era tardissimo, e si sentiva esausto come non mai. Poi lo sforzo e le emozioni della giornata lo vinsero, e Alvin cadde in un sonno profondo. Si risvegliò in una stanza sconosciuta, e solo qualche minuto dopo ricordò che non era a Diaspar. A poco a poco la luce aumentò, e alla fine Alvin venne avvolto dai raggi di sole del mattino che filtravano attraverso le pareti trasparenti. Rimase sdraiato pigramente, ricordando tutti gli avvenimenti del giorno precedente, e chiedendosi quali forze poteva aver messo in movimento. Una parete cominciò a scorrere lentamente con un lieve suono, e Hilvar si affacciò nell’apertura. Guardò Alvin con espressione un po’ divertita e un po’ preoccupata. «Ora che sei sveglio» lo apostrofò «vuoi finalmente dirmi che intenzioni hai e come sei arrivato qui? I senatori sono appena partiti per ispezionare la sotterranea. Non riescono a raccapezzarsi. L’hai usata davvero?» Alvin balzò dal letto e si stirò pigramente. «Bene, andiamo a raggiungerli, allora. Non voglio che perdano altro tempo. Quanto alla tua domanda, tra poco ti darò una spiegazione pratica.» Raggiunsero i senatori presso il laghetto. Ci fu uno scambio di saluti pieni di sussiego. I membri del Comitato di Investigazione erano un po’ seccati che Alvin sapesse dove erano diretti. La cosa li metteva in svantaggio. «Temo di avervi detto una cosa inesatta, ieri sera» fece allegramente Alvin. «Non sono venuto a Lys col vecchio sistema, per cui la vostra precauzione di chiudere la sotterranea è stata praticamente inutile. A questo proposito vi posso dire che il Consiglio di Diaspar ha preso la stessa precauzione, altrettanto inutile.» Le facce dei senatori erano un capolavoro di perplessità. «Ma allora come siete venuto?» chiese il capo. Poi negli occhi dell’uomo passò un lampo. Alvin avrebbe scommesso che il vecchio cominciava a sospettare la verità. Si chiese se per caso l’ordine che aveva emesso mentalmente fosse stato intercettato, ma non disse nulla e si limitò a indicare il cielo. Con la rapidità del lampo, un ago d’argento descrisse un arco da dietro la montagna, lasciandosi dietro una scia incandescente, e venne a fermarsi in alto, a picco sopra Lys. Non ci fu decelerazione. Non ci fu rallentamento nella pazzesca velocità. Si fermò di scatto, tanto che, da terra gli occhi di coloro che stavano osservando continuarono il movimento per qualche frazione di secondo prima che il cervello registrasse la fermata. Dal cielo venne un fragore di tuono, il sibilo dell’aria spostata dal passaggio violento della nave. Un attimo dopo lo scafo, scintillante e superbo nel sole, si posò sulla collina a neppure cento metri di distanza. Era difficile dire chi fosse più sorpreso. Alvin, comunque, fu il primo a riprendersi. Mentre si avviavano quasi di corsa verso la nave, il giovane si chiedeva se, normalmente, la nave viaggiasse con quella velocità da meteora. Il solo pensiero era sconcertante, sebbene, durante il viaggio, il movimento non si avvertisse affatto. La cosa più strana, poi, era che il giorno prima quello scafo era incrostato di terra e sabbia e non era affatto lucente. Alvin, raggiunta la nave, commise l’imprudenza di appoggiare le dita sullo scafo. Si scottò ben bene, ma capì cos’era avvenuto. La crosta di terra si era fusa col calore; solo a poppa se ne vedeva ancora qualche piccola traccia, fusa allo stato di lava. Tutto il resto non c’era più; nulla offuscava lo scafo che né il tempo né le forze della Natura potevano toccare. Con Hilvar a fianco, Alvin si voltò a guardare i senatori. Cercò di immaginare cosa stessero pensando… o meglio, cosa stesse pensando l’intera Lys. Dalle loro espressioni si sarebbe detto che non riuscissero più nemmeno a pensare. «Vado a Shalmirane» annunciò. «Sarò di ritorno tra circa un’ora. Ma questo è solo l’inizio dei miei viaggi, e mentre sarò assente vorrei che meditaste su un fatto. La macchina che vedete è una delle più rapide navi spaziali che siano mai state costruite. Se volete sapere come l’ho trovata, andate a Diaspar e scoprirete la risposta. Dovete andarci, perché Diaspar non verrà fino a voi.» Si volse a Hilvar e gli indicò la porta dello scafo. Hilvar esitò un istante, gettando un’ultima occhiata alla sua terra, poi entrò coraggiosamente nella cabina. I senatori restarono a fissare la nave che, con minor velocità poiché il percorso sarebbe stato breve, spariva verso sud. Poi l’uomo coi capelli grigi scosse filosoficamente la testa e si girò verso i compagni. «Vi siete sempre opposti a noi perché volevamo dei cambiamenti» disse. «Finora avete vinto. Ora però non credo che il futuro possa risiedere in uno solo dei nostri due gruppi. Lys e Diaspar sono giunte ai termine di un’era.» «Temo che tu abbia ragione» disse uno del gruppo. «Siamo alla crisi, e Alvin sapeva cosa stava dicendo consigliandoci di andare a Diaspar. Ora sanno che esistiamo, quindi è inutile continuare a nasconderci. Ci conviene entrare in contatto con i cugini… Forse li troveremo disposti a cooperare.» «Ma le due estremità della sotterranea sono bloccate.» «Noi apriremo la nostra, e fra non molto quelli di Diaspar faranno altrettanto.» Le menti dei senatori, di quelli presenti ad Airlee e di quelli che si trovavano in punti lontani di Lys, considerarono la proposta. Non l’approvavano, ma non c’era altra alternativa. Il seme gettato da Alvin aveva dato i suoi frutti molto prima del previsto. Quando raggiunsero Shalmirane, le montagne erano ancora avvolte nell’ombra. Dall’altezza a cui si trovavano la grande conca della fortezza sembrava una piccola macchia. Si stentava a credere che il destino della Terra fosse un giorno dipeso da quel pozzo scuro. Quando Alvin fermò la nave tra le rovine si sentì stringere la gola da tanta desolazione. Aprì il compartimento stagno e la quiete irreale di quel posto morto penetrò fin nella cabina. Hilvar, che aveva taciuto quasi sempre durante il viaggio, domandò piano: «Perché sei voluto tornare qui?» Alvin non rispose finché non ebbero raggiunto la sponda del lago. «Volevo farti provare la nave» disse poi «e inoltre speravo che il polpo fosse tornato in vita. Mi sento in debito verso di lui, devo dirgli cosa ho scoperto.» «In questo caso dovrai aspettare. Sei tornato troppo presto.» Alvin se l’era immaginato; la sua speranza era stata così piccola che non si sentiva nemmeno deluso. Le acque del lago erano perfettamente calme. Si inginocchiò sull’orlo e cercò di scrutare il fondo. Graziose bollicine trasparenti, munite di tentacoli appena visibili, passavano quasi alla superficie. Alvin immerse la mano e cercò di afferrarne una. Subito la ritirò con un gemito. Era stato punto. Un giorno, forse tra anni, forse tra secoli, le piccolissime meduse si sarebbero riunite e il gigantesco polpo sarebbe rinato con tutti i suoi ricordi. Alvin si chiese come avrebbe accolto le scoperte che lui aveva fatto; forse non sarebbe rimasto contento di apprendere la verità sul Maestro. Si sarebbe ribellato all’idea che tutti quei millenni di paziente attesa erano stati inutili. Inutili davvero, poi? Per quanto delusa potesse restare la creatura, la sua lunga attesa avrebbe avuto una ricompensa. Quasi per miracolo, il polpo aveva salvato dall’oblio fatti che sarebbero rimasti sconosciuti per sempre. Ora il povero essere poteva riposare, e il suo credo poteva prendere la via di tante altre fedi che un tempo si erano credute eterne. 19 Hilvar e Alvin tornarono in silenzio verso l’astronave; ben presto la fortezza fu di nuovo un’ombra scura tra le colline, poi si confuse nel vasto panorama di Lys. Alvin non fece nulla per fermare la macchina. Continuarono a innalzarsi finché tutta Lys apparve sotto di loro come una grande isola verde perduta in un mare ocra. Alvin non era mai salito così in alto; quando si arrestarono, tutto l’emisfero terrestre era visibile. Lys adesso non era che una macchia color smeraldo contro il deserto, ma lontano, lungo la curva del globo, qualcosa scintillava come una pietra preziosa. Così per la prima volta, Hilvar vide Diaspar. Sedettero a lungo in silenzio osservando la Terra girare sotto di loro. Alvin avrebbe voluto mostrare il mondo come lo vedeva ora ai capi di Lys e di Diaspar. «Hilvar» chiese a un tratto «tu mi approvi?» La domanda sorprese Hilvar che non sospettava quali improvvisi dubbi turbassero a volte il suo amico, né sapeva dell’incontro col Computer Centrale e del nuovo stato d’animo che quell’incontro aveva suscitato in Alvin. Rispondere non era facile; come Khedron, Hilvar sentiva che la sua personalità veniva sommersa, succhiata ineluttabilmente nel vortice che Alvin si lasciava alle spalle. «Credo che tu abbia ragione» disse lentamente. «I nostri due popoli sono rimasti divisi troppo tempo.» Questo, pensò, era vero, anche se la sua risposta era stata influenzata dai sentimenti. Alvin però continuava a essere preoccupato. «C’è un. problema che mi assilla, Hilvar, le nostre vite hanno una durata ben diversa…» Non disse altro, ma ciascuno di loro comprese ciò che l’altro stava pensando. «Lo so… Ma il problema si risolverà da solo, col tempo, quando i nostri popoli si metteranno in contatto. Non possiamo essereentrambinel giusto. La nostra vita potrebbe essere troppo corta, e la vostra di certo è troppo lunga. Ci dev’essere un compromesso.» Chissà, pensava Alvin; certo quella speranza era un conforto per il futuro, ma le epoche di transizione sarebbero state molto dolorose. Ricordò le parole amare di Seranis: «Mio figlio e io saremo morti da secoli e tu sarai ancora un giovane». Bene, avrebbe accettato le condizioni. Anche a Diaspar l’amicizia sottostava alla stessa ombra. Che si trattasse di cento anni, o di milioni, non aveva la minima importanza. Alvin sapeva, con una certezza che andava al di là di ogni logica, che per il benessere della razza era necessaria l’unione delle due culture. In un caso simile la felicità individuale non ha nessuna importanza. Per un attimo, Alvin vide l’umanità non come uno sfondo vivente alla sua esistenza, ma come qualcosa di più, e accettò senza esitare l’infelicità che, un giorno, la scelta gli avrebbe causato. Sotto di loro, il mondo girava incessantemente sul proprio asse. Hilvar non parlava, per non disturbare le meditazioni dell’amico. Poco dopo Alvin ruppe il silenzio. «Quando ho lasciato Diaspar la prima volta» disse «non sapevo cos’avrei trovato. Una volta Lys mi avrebbe soddisfatto… molto più che soddisfatto… Ora però ogni cosa sulla Terra mi sembra priva di importanza. Ogni scoperta che ho fatto ha sollevato questioni più grandi e aperto orizzonti più vasti. Mi domando come potrà finire…» Hilvar non aveva mai visto Alvin tanto pensoso, e non volle interrompere il soliloquio. In quegli ultimi minuti aveva imparato a conoscere l’amico assai più profondamente. «Il robot mi ha detto che questa nave può raggiungere i Sette Soli in meno di un giorno. Debbo andarci, Hilvar?» «Credi che potrei fermarti?» Alvin sorrise. «Non è una risposta. Chi può dire cosa ci sia là nello spazio? Gli Invasori possono aver lasciato l’Universo, ma potrebbero esserci altre intelligenze nemiche dell’uomo.» «Perché mai? È una questione che i nostri filosofi discutono da sempre. Una specie veramente intelligente dovrebbe essere socievole.» «E gli Invasori, allora?» «D’accordo, sono un enigma. Se erano davvero malvagi, a quest’ora dovrebbero essersi autodistrutti. Ma se anche ci fossero ancora…» Hilvar indicò il globo, con le sue immense zone deserte. «Una volta avevamo un Impero. Cosa abbiamo oggi che possano invidiarci?» Alvin era un po’ sorpreso che qualcun altro condividesse quel punto di vista. «Anche la tua gente pensa così?» «Solo una minoranza. In generale nessuno pensa più agli Invasori. L’uomo medio è convinto che se avessero voluto distruggere davvero la Terra, l’avrebbero già fatto. E ora nessuno li teme più.» «A Diaspar le cose stanno diversamente. I miei concittadini sono dei pavidi, terrorizzati all’idea di lasciare la loro città. Non so cosa accadrà quando scopriranno che posseggo un’astronave. A quest’ora Jeserac avrà informato il Consiglio. Sarei curioso di sapere come l’hanno presa.» «Te lo dico io. Si stanno preparando a ricevere la prima delegazione da Lys. Me l’ha detto Seranis un momento fa.» Alvin fissò lo schermo. In una sola occhiata poteva abbracciare la distanza tra Lys e Diaspar; uno dei suoi scopi era stato raggiunto, e adesso gli sembrava una cosa di nessun conto. Eppure era felice; adesso, le infinite epoche di sterile isolamento erano giunte al termine. La certezza di aver compiuto quella che un tempo era stata la sua missione principale tolse ad Alvin gli ultimi dubbi. Alla Terra aveva provveduto, ora davanti a lui si apriva la via per un’altra avventura, l’ultima forse, ma certo la più grande. «Vieni con me, Hilvar?» Hilvar lo guardò con aria risoluta. «Non hai bisogno di chiedermelo, Alvin. Ho detto a Seranis e ai miei amici che partivamo insieme… circa un’ora fa.» Quando Alvin diede al robot le ultime istruzioni, l’astronave era quasi ferma e la Terra era forse millecinquecento chilometri al di sotto. Aveva un’aria poco attraente. Alvin si chiese quante navi spaziali, nel passato, si fossero fermate un poco a quella distanza e avessero poi deciso di atterrare altrove. Ci fu una lunga pausa, mentre il robot provava comandi e circuiti che non erano stati usati da interi cicli cosmici. Poi si udì un leggero sibilo, che salì rapidamente da un’ottava all’altra fino a raggiungere il limite dell’udito. Non si avvertì alcun cambiamento di posizione, ma improvvisamente lo schermo inquadrò le stelle. La Terra riapparve, e scomparve; poi tornò ad apparire, in una posizione leggermente diversa. Lo scafo stava girando nello spazio, come l’ago di una bussola alla ricerca del nord. Per minuti il cielo continuò a rotolare attorno a loro, poi lo scafo smise il movimento rotatorio e divenne un gigantesco proiettile puntato verso le stelle. Al centro dello schermo il cerchio dei Sette Soli splendeva con le sue tinte da arcobaleno. Un po’ della Terra era ancora visibile, mentre le ombre si insinuavano gradatamente nell’oro e nel rosso del tramonto. Alvin sapeva che qualcosa stava per accadere, qualcosa al di là di ogni sua immaginazione. Aspettò, aggrappato al sedile, mentre i secondi passavano e i Sette Soli scintillavano sullo schermo. Poi ci fu uno strappo silenzioso, violento, che confuse un poco l’immagine, e la Terra sparì quasi che fosse stata spazzata via da una mano gigantesca. Erano soli nello spazio. Soli con le stelle. La Terra era scomparsa, come se non fosse mai esistita. Poi un nuovo strappo, seguito da un leggero ronzio. I reattori avevano cominciato a esercitare parte della loro potenza. Per qualche istante parve che non fosse accaduto niente di nuovo, poi Alvin si accorse che le stelle sfilavano lentamente accanto allo scafo. Guardò indietro per un attimo, e non vide niente. Tutto il cielo che si erano lasciati alle spalle era scomparso, cancellato da un emisfero di notte. Nei brevi istanti in cui rimase a guardare indietro vide alcune stelle sparire, come scintille cadute sull’acqua. La nave spaziale stava viaggiando molto più veloce della luce, e aveva già lasciato l’orbita terrestre. Quando il misterioso strappo avvenne improvvisamente per la terza volta, Alvin ebbe l’impressione che il cuore gli si stesse fermando, e gli si annebbiò la vista. Per un attimo tutti gli oggetti che lo circondavano si distorsero fino a diventare irriconoscibili. E in quello stesso istante, per una ispirazione che non avrebbe saputo spiegare, comprese il significato di quelle distorsioni.Quella era la realtà non un effetto ottico.Stava osservando, nell’attimo in cui passava attraverso il sottile schermo de! presente, i cambiamenti che avvenivano nello spazio circostante. Subito il ronzio dei generatori si trasformò in un rombo che faceva vibrare la nave, un suono doppiamente impressionante poiché per la prima volta Alvin ascoltava il grido di protesta di una macchina. Poi tutto finì e un silenzio improvviso parve fasciargli le tempie. I grandi generatori avevano fatto il loro sforzo; ora non occorrevano più fino alla fine del viaggio. Le stelle brillavano di un bianco-azzurro incandescente, fino a svanire nell’ultravioletto. Eppure, per chissà quale magia della scienza o della Natura, i Sette Soli erano ancora visibili, anche se adesso i loro colori e le loro posizioni erano impercettibilmente mutati. La nave correva verso di loro in un tunnel buio, oltre i limiti dello spazio e del tempo, a una velocità tanto enorme che la mente non sapeva concepirla. Pareva impossibile credere che la nave fosse stata lanciata fuori dal Sistema solare a una velocità che, non controllata, avrebbe potuto portarli attraverso il cuore della galassia fino all’immenso vuoto esterno. Né Alvin né Hilvar si rendevano veramente conto dell’immensità del loro viaggio. Le grandi spedizioni esplorative avevano completamente cambiato nell’Uomo il concetto d’Universo, e anche in quel momento, dopo milioni di secoli, il modo di pensare era lo stesso. C’era stata un’astronave, così diceva una leggenda, che era riuscita a circumnavigare il Cosmo nello spazio di una giornata. I miliardi di chilometri tra una stella e l’altra non rappresentavano nulla davanti a una simile velocità. Per Alvin quel viaggio era poco più emozionante, e forse meno pericoloso, della prima gita verso Lys. Fu Hilvar a esprimere il pensiero comune mentre i Sette Soli si facevano sempre più luminosi. «Alvin, quella costellazione non può essere naturale.» L’altro annuì. «L’ho pensato per anni, ma non riesco a convincermene.» «Forse il sistema non è stato costruito dall’Uomo, ma deve averlo creato un’intelligenza. La Natura non sarebbe mai riuscita a formare quel circolo perfetto di stelle, tutte dello stesso splendore, che non assomigliano a nessun’altra formazione dell’Universo visibile.» «Perché mai sarebbero state fatte?» «Oh, si possono fare molte ipotesi. Forse è un segnale, così se qualche nave straniera entra nel nostro Universo sa dove dirigersi. Forse indica il centro dell’amministrazione galattica. O forse ancora, e sento di essere vicino alla verità, è semplicemente la più grande opera d’arte che sia mai stata compiuta. Ma è sciocco spremersi il cervello, ora. Tra poche ore sapremo la verità.» Sapremo la verità. «Può darsi», pensava Alvin… Ma fino a che punto? Era strano che proprio ora, mentre stava lasciando Diaspar e la Terra stessa a una velocità che trascendeva qualsiasi comprensione, il suo pensiero tornasse di nuovo al mistero delle sue origini. Poteva, forse, anche non essere sorprendente. Dal giorno in cui era arrivato a Lys aveva imparato parecchie cose, ma non aveva mai avuto un attimo di tempo per poter riflettere tranquillamente. Ora non aveva da far altro che stare seduto e aspettare. Il suo immediato futuro era controllato da una stupenda macchina, certamente la più perfetta conquista tecnica di tutti i tempi, che lo stava portando verso il centro dell’Universo. Era adesso che poteva pensare e riflettere. Ma prima avrebbe dovuto raccontare a Hilvar ciò che era accaduto da quando si erano lasciati, solo due giorni prima. Hilvar ascoltò senza far commenti e senza chiedere spiegazioni. Parve capire subito tutto ciò che Alvin gli descriveva, e non si dimostrò meravigliato quando venne a sapere del colloquio con il Computer Centrale e di ciò che era stato fatto per sbloccare il cervello del robot. Non che fosse incapace di esprimere meraviglia, ma la storia del passato era piena di fatti incredibili e certamente più singolari di quelli capitati ad Alvin. «È evidente» disse, quando Alvin ebbe terminato il resoconto «che il Computer Centrale ha ricevuto istruzioni speciali a tuo riguardo, quando è stato costruito. A quest’ora dovresti sospettarne la ragione.» «In parte; Khedron mi ha suggerito un’ipotesi spiegandomi quali misure avessero preso i costruttori di Diaspar per prevenire la staticità e il decadimento.» «Tu pensi, come gli Unici che sono comparsi prima di te, di essere una parte del meccanismo sociale che impedisce la completa fossilizzazione? Così, mentre i Buffoni sarebbero fattori correttivi a breve termine, voi sareste quelli cui è affidato il lungo termine?» Hilvar espresse il concetto molto meglio di quanto non lo avrebbe saputo fare Alvin stesso. Tuttavia non era esattamente quello che lui aveva in mente. «Io credo che la vera ragione sia ancora più complessa» disse. «Si direbbe che, quando fu fondata Diaspar, esistesse un conflitto di opinioni tra quelli che volevano isolarla completamente dal mondo e coloro che volevano mantenere qualche contatto. Prevalse la prima fazione, ma gli altri non si lasciarono abbattere. Uno dei loro capi doveva essere Yarlan Zey, ma certo non era abbastanza potente per imporsi. Fece quel che poté: salvò la sotterranea per Lys e si assicurò che, a lunghi intervalli, uscisse dalla Sala della Creazione qualcuno che non conoscesse i timori dei concittadini. Infatti, vorrei sapere…» Alvin tacque all’improvviso e fissò lo sguardo nel vuoto. «A cosa stai pensando?» «Mi è venuta in mente una cosa… Sì, forse io sono Yarlan Zey. È possibilissimo. Può darsi che lui abbia conservato nelle Banche Memoria la sua personalità, nella speranza di riuscire a scuotere Diaspar prima o poi. Devo scoprire cosa è accaduto agli altri Unici…» «E Yarlan Zey, o chi per lui, ha istruito anche il Computer Centrale perché desse particolare assistenza a questi Unici» completò Hilvar, seguendo il filo del ragionamento. «Esatto. L’ironia è che avrei potuto ottenere tutte le informazioni dal Computer Centrale stesso, senza dovermi servire del povero Khedron. Mi avrebbe detto molto più di quanto avesse mai detto a lui. Comunque devo ammettere che Khedron mi ha fatto risparmiare parecchio tempo, e mi ha insegnato cose che da solo non sarei mai riuscito a scoprire.» «A me sembra che la tua teoria spieghi tutti i fattori conosciuti» disse Hilvar. «Resta però sempre il problema principale, lo scopo fondamentale di Diaspar, cioè. Perché il tuo popolo cercava di far finta che il resto del mondo non esistesse?Questaè la domanda alla quale vorrei rispondere.» «È la domanda alla qualevogliorispondere» ribatté subito Alvin. «Ma non so quando, né come.» Chiacchierarono e fantasticarono a lungo, mentre l’astronave proseguiva la sua rotta e sullo schermo i Sette Soli si spostavano sempre più verso i margini dello schermo finché, alla fine, non rimase che il Sole Centrale. Per quanto non fossero nello stesso spazio, il sole riusciva a mandare la sua luce perlacea che lo distingueva dalle altre stelle. Minuto per minuto la luminosità della stella aumentava, e a un tratto non fu più un punto ma un piccolo disco. E ora il disco cominciava a espandersi davanti a loro… Ci fu un breve segnale di avvertimento. Fu una nota profonda, simile al suono di una campana. Alvin si strinse ai braccioli della poltroncina, per quanto sapesse che era una precauzione del tutto inutile. Tutti i reattori si accesero di scatto, e con una rapidità quasi accecante, riapparvero le stelle. Lo scafo era immerso nello spazio. Era ritornato nell’Universo delle stelle e dei pianeti. Nel mondo naturale in cui niente poteva muoversi a una velocità superiore a quella della luce. Erano già nelle vicinanze del Sistema dei Sette Soli. Il cerchio dei globi colorati dominava la vastità del cielo. Tutte le stelle che Alvin conosceva, tutte le costellazioni familiari, erano scomparse. La Via Lattea non era più la debole striscia di nebbia relegata in un angolo del cielo. Ora si trovava al centro della creazione, e divideva in due l’Universo. Lo scafo stava ancora avanzando rapidamente verso il Sole Centrale. Gli altri sei soli sembravano boe colorate sparse nel cielo. Attorno al sole più vicino si vedevano diversi piccoli pianeti in rotazione. Ma dovevano essere mondi immensi, per essere visibili da quella distanza. Ora la luce perlacea del Sole Centrale era facilmente spiegabile. La grande stella era avvolta da uno strato gassoso che ne attenuava le radiazioni fondendole in quel caratteristico colore. La nebulosa che lo circondava si stendeva seguendo una bizzarra angolatura che confondeva la vista. Comunque chiaramente distinguibile, e più la si guardava, più sembrava immensa. «Be’, Alvin» disse Hilvar. «Abbiamo parecchi pianeti a disposizione. O speri di poterli esplorare tutti?» «Speriamo che non sia necessario» ammise Alvin. «Se riusciamo a metterci in contatto con qualcuno, forse ci sarà possibile ottenere le informazioni che stiamo cercando. La cosa più logica mi sembra sia puntare sul pianeta più grande del Sole Centrale.» «A meno che non sia troppo grande. Ho sentito dire che su certi pianeti troppo grandi la vita umana non può esistere. Gli uomini verrebbero schiacciati dal loro stesso peso.» «Non credo che troveremo un pianeta del genere. Sono quasi certo che questo Sistema è artificiale. A ogni modo potremo vedere dallo spazio se esistono grandi città o meno.» Hilvar indicò il robot. «Il nostro problema è già risolto. Non devi dimenticare che la nostra guida è già stata in questa parte dell’universo. Ci ha portati a casa sua… Mi domando se ne è felice.» Anche Alvin aveva avuto quel pensiero. Ma era logico immaginare che un robot, per il fatto di tornare dopo tanti eoni verso la casa del Maestro, potesse provare emozioni simili a quelle umane? In tutte le loro relazioni da quando il Computer Centrale aveva tolto i blocchi che lo rendevano muto, il robot non aveva mai mostrato segni di sentimenti o emozioni. Aveva risposto alle sue domande e aveva obbedito ai suoi ordini. Ma la sua personalità era rimasta impenetrabile. Che avesse una personalità, Alvin ne era certo, altrimenti lui non avrebbe provato quell’oscuro senso di colpa per averlo ingannato… e per aver ingannato quel suo compagno che ora dormiva nelle profondità del lago. Il robot credeva ancora in tutto ciò che il Maestro gli aveva insegnato. Anche se lo aveva visto truccare i miracoli e gli aveva sentito raccontare menzogne ai fedeli, lui non era mai venuto meno alla sua lealtà. Lui sapeva, come molti esseri umani prima di lui, conciliare due fattori in conflitto. Quasi persa nel bagliore del Sole Centrale c’era una pallida scintilla di luce, con attorno la debole luce di altri mondi più piccoli. Il loro lunghissimo viaggio stava per giungere alla fine. E fra non molto avrebbero saputo se era stato inutile. 20 Il pianeta al quale erano diretti distava solo pochi milioni di chilometri, una bellissima sfera di luci multicolori. Non poteva esserci oscurità in nessun punto della superficie, perché ruotando attorno al Sole Centrale riceveva la luce delle altre stelle sparse in cerchio nel cielo. In quel momento Alvin comprese le parole che il Maestro aveva pronunciato in punto di morte. «È bello guardare le ombre colorate dei pianeti di luce eterna.» Ben presto poterono distinguerne i continenti e gli oceani. C’era qualcosa di strano, però. Le linee di demarcazione tra la terra e le acque erano troppo regolari. I continenti del pianeta non sembravano avere una disposizione data dalla Natura… ma disporre i continenti doveva essere stato un compito facilissimo per chi aveva costruito quei soli. «Ma quelli non sono oceani!» esclamò a un tratto Hilvar. «Guarda! Non vedi delle linee?» Quando furono più vicini al pianeta, Alvin capì che l’amico aveva ragione. C’erano infatti delle linee anche nelle zone che gli erano sembrate occupate dall’acqua. Gli venne un dubbio improvviso, perché conosceva il significato di quelle screpolature. Le aveva già viste nel deserto oltre Diaspar. Il lungo viaggio, dunque, era stato inutile. «Questo pianeta è arido come la Terra» disse in tono cupo. «Quelle linee sono letti di sale, dove l’acqua dei mari è evaporata.» «Non avrebbero dovuto permettere che succedesse» disse Hilvar. «Temo che siamo arrivati troppo tardi.» La delusione di Hilvar era così amara che Alvin non osò aggiungere altro, ma rimase in silenzio a fissare lo schermo. Con impressionante lentezza la superficie del pianeta pareva venir loro incontro. Ora si vedevano degli edifici, piccole incrostazioni bianche sparse dovunque, tranne che nei letti degli oceani. Una volta quel mondo era stato il centro dell’Universo. Adesso era morto, l’aria era deserta, e sulla sua superficie non si vedevano quelle macchie in movimento che parlano di vita. Tuttavia lo scafo continuava a scivolare deciso sopra il mare di pietra… un mare che qua e là formava grandi onde che sfidavano il cielo. Tutt’a un tratto la nave si arrestò, come se il robot avesse raggiunto il punto di origine dei suoi ricordi. Sotto di loro una colonna di pietra bianchissima si ergeva nel mezzo di un immenso anfiteatro di marmo. Alvin aspettò un poco, poi, visto che l’astronave non accennava a muoversi, ordinò di atterrare ai piedi della colonna. Fino a quel momento, nonostante tutto, aveva sperato di trovare la vita sul pianeta. La speranza svanì non appena ebbe aperto il compartimento stagno. Mai, nemmeno a Shalmirane, si era trovato immerso in un silenzio così impressionante. Sulla Terra c’era sempre un suono di voci, il movimento delle creature, o il mormorio del vento. Lì, tutto questo mancava, e non ci sarebbe mai più stato niente di vivo. «Perché ci hai portati qui?» domandò Alvin. Non gli importava molto la risposta, ma lo spirito della ricerca continuava a spronarlo, anche se aveva perso le speranze. «Il Maestro è partito da qui» disse il robot. «Immaginavo che ci avrebbe dato questa risposta» disse Hilvar. «Hai osservato l’ironia? Il Maestro è stato scacciato da questo mondo… e guarda il monumento che gli hanno costruito!» La grande colonna di pietra era alta almeno quanto cento uomini, e poggiava su un cerchio di metallo che sporgeva leggermente dal livello della pianura. Non c’erano decorazioni, né iscrizioni. Per quante migliaia o milioni di anni, si domandò Alvin, i discepoli del Maestro si erano raccolti in quel luogo a rendergli onore? E avevano mai saputo che era morto in esilio sulla Terra lontana? Comunque, ora non aveva più importanza. Maestro e discepoli erano tutti sepolti nell’oblio. «Usciamo all’aperto» propose Hilvar, cercando di scuotere Alvin dalla depressione in cui era caduto. «Abbiamo attraversato mezzo universo per vedere questo posto. Puoi fare anche lo sforzo di muovere due passi.» Alvin riuscì a sorridere e seguì Hilvar. Fuori, si rianimò un poco. Anche se quel mondo era morto, poteva contenere qualche traccia interessante che lo aiutasse a risolvere il mistero del passato. L’aria era stagnante, ma respirabile. Nonostante tutti i soli su nel cielo la temperatura era bassa. Solo il disco bianco del Sole Centrale emanava un certo calore; gli altri mandavano soltanto luce. Impiegarono pochi minuti per accertarsi che l’obelisco non poteva dare loro nessuna indicazione. Il materiale con cui era costruito mostrava i segni del tempo, e il metallo su cui poggiava era stato consumato dai passi di generazioni di discepoli e pellegrini. Era strano pensare che dopo chissà quanti miliardi di esseri umani, loro potevano essere gli ultimi due visitatori del luogo. Hilvar stava per proporre di tornare alla nave e volare fino all’agglomerato di edifici più vicini, quando Alvin notò una crepa stretta e lunga nel pavimento di marmo dell’anfiteatro. La seguirono per un bel tratto; la spaccatura si faceva sempre più larga, finché li condusse a un enorme avvallamento del terreno lungo un paio di chilometri. Non occorreva molta intelligenza o fantasia per capire da cosa era stato provocato. In epoche remote, certo molto prima che la vita sul pianeta si esaurisse, un’immensa forma cilindrica si era fermata in quel punto per poi librarsi di nuovo nello spazio. Chi erano? E da dove erano venuti? Alvin non avrebbe mai saputo se avevano mancato quei precedenti visitatori per un migliaio o un milione di anni. Ritornarono verso la loro nave (sarebbe sembrato un giocattolo, vicino al mostro che una volta era atterrate sul pianeta) e sorvolarono l’arena fino al più imponente degli edifici che la circondavano. Mentre atterravano davanti all’ingresso, Hilvar indicò qualcosa che Alvin aveva notato contemporaneamente. «Queste costruzioni hanno l’aria pericolante: è un miracolo se si reggono ancora. Guarda quanti massi caduti! Se sul pianeta ci fossero state delle tempeste, queste case sarebbero a terra da chissà quanto. Mi sembra imprudente entrare.» «Bene, manderemo il robot. È più rapido di noi e non provocherà spostamenti d’aria che possano far crollare il tetto.» Hilvar approvò la precauzione, ma ne fece presente un’altra che Alvin non aveva tenuta in considerazione e che accettò subito. Prima di mandare il robot in ispezione, Alvin fece dare una serie di istruzioni al cervello dell’astronave. In questo modo, qualsiasi cosa fosse accaduta al loro pilota, avrebbero potuto tornare in salvo sulla Terra. Ci volle poco per convincerli che quel pianeta non aveva niente da offrire. Per mezzo del robot, i due esploratori visitarono un’infinità di corridoi e di stanze vuote. Tutti gli edifici costruiti da esseri intelligenti, di qualsiasi forma sia il loro corpo, devono ottemperare a certe leggi base, e dopo qualche istante anche le più stravaganti forme di architetture o di disegno smettono di sorprendere. La mente dei visitatori rimase quasi ipnotizzata dalla continua ripetizione, sino a diventare incapace di assorbire qualsiasi altra impressione. Quegli edifici, così pareva, dovevano essere palazzi residenziali, e gli individui che li avevano abitati dovevano aver avuto all’incirca la statura dell’uomo. Potevano anche essere stati uomini. Vero che un sorprendente numero di stanze e vani potevano essere raggiunti soltanto da creature volanti, ma questo non significava che i costruttori della città avessero avuto le ali. Forse si erano serviti di apparecchi antigravità personali, del tipo che era stato in uso anche sulla Terra, ma che poi era completamente scomparso. «Alvin» disse infine Hilvar «possiamo continuare così per l’eternità. Gli abitanti non hanno abbandonato le case, le hanno vuotate con cura di tutti i beni che possedevano. Stiamo sprecando il nostro tempo.» «Che si fa, allora?» «Diamo un’occhiata a qualche altra zona del pianeta, tanto per vedere se è così dappertutto, poi dovremmo fare una rapida esplorazione anche degli altri pianeti, e atterrare solo se ne vale la pena, o se appaiono totalmente diversi. È l’unica cosa da fare, a meno che tu non voglia restar qui per tutta la vita.» Hilvar aveva ragione: erano venuti per mettersi in contatto con altre intelligenze, non per fare ricerche archeologiche. Il loro compito si sarebbe potuto svolgere in pochi giorni, se lì fosse esistita ancora un’intelligenza. Per le ricerche sarebbero occorsi secoli di lavoro di uomini e di robot. Lasciarono il pianeta due ore dopo, ben contenti di andarsene. Quel mondo di edifici cadenti doveva essere stato piuttosto deprimente anche ai tempi in cui era abitato. Non esisteva traccia di parchi, di luoghi aperti dove potesse essere cresciuto un po’ di verde, qualche pianta. Quel mondo era stato spaventosamente sterile, ed era difficile immaginare la psicologia di coloro che l’avevano abitato. «Se il prossimo pianeta è identico a questo», pensò Alvin, «probabilmente abbandonerò le ricerche.» Tutt’altro, invece: anzi, sarebbe stato impossibile immaginare un contrasto più forte. Quest’altro pianeta era più vicino al sole, e perfino osservandolo dallo spazio si capiva che era caldissimo. Era parzialmente nascosto da nuvole, che denunciavano molta abbondanza di acqua, ma non si vedeva traccia di oceani. Né si notava alcun segno di intelligenza; fecero due volte il giro del pianeta senza vedere una sola costruzione. L’intero globo, dai poli all’equatore, era ricoperto da una coltre di un verde violento. «Dobbiamo usare prudenza qui» osservò Hilvar. «Questo mondo è vivo, e non mi piace il colore di quella vegetazione. Sarà meglio restare sulla nave e non aprire il compartimento stagno.» «Nemmeno per far uscire il robot?» «Nemmeno. Voi avete dimenticato cosa siano le malattie. La mia gente sa come curarle, ma siamo molto lontani da casa, e qui possono esserci pericoli sconosciuti. Secondo me, questo mondo è degenerato. Ammetto che quand’era abitato potesse essere un immenso parco, ma poi la Natura deve aver preso il sopravvento. Di certo le cose non potevano stare così quando il pianeta era abitato.» Alvin non dubitava che Hilvar avesse ragione. C’era qualcosa di malvagio, qualcosa di ostile all’ordine e alla regolarità su cui erano basate sia Lys che Diaspar, nell’anarchia biologica sotto di loro. Lì, per un miliardo d’anni, era stata combattuta un’incessante battaglia; nutrire la massima diffidenza per i superstiti era un’ottima misura precauzionale. Si abbassarono cautamente su una grande pianura levigata e uniforme in modo anormale. Il piano era circondato da un sopralzo di terreno, tutto coperto da alberi di altezza smisurata che crescevano fittissimi e i cui tronchi erano letteralmente sepolti dal sottobosco. Esseri alati volavano tra i rami più alti, ma si muovevano così rapidi che era assolutamente impossibile dire se si trattava di uccelli, di insetti o di animali sconosciuti. Qua e là i giganti della foresta avevano cercato di elevarsi di qualche metro sopra le piante circostanti, e queste avevano formato una breve alleanza per distruggere il vantaggio conquistato dalle altre. Certo era stata una guerra silenziosa, combattuta troppo lentamente per essere seguita a occhio, ma si aveva la netta impressione di un conflitto, spietato, implacabile. La pianura, al confronto, sembrava tranquilla e monotona. Si stendeva piatta fino all’orizzonte, e sembrava coperta da una sottile erba rigida. Per quanto fossero scesi a pochi metri dal suolo non riuscirono a scorgere il minimo segno di vita animale, cosa che Hilvar trovò sorprendente. Forse, pensò, gli animali si erano nascosti sotto terra, impauriti dal loro arrivo. Volteggiarono sul piano a quota bassissima. Alvin tentava di convincere Hilvar che non c’era alcun pericolo ad aprire il compartimento stagno, mentre Hilvar ribatteva pazientemente parlando di batteri, funghi, virus e microbi, concetti che Alvin stentava ad afferrare. La discussione si protraeva da qualche minuto quando accadde un fatto molto strano. Lo schermo visivo, che un attimo prima rifletteva la foresta, si fece opaco. «L’hai spento tu?» chiese Hilvar. «No» rispose Alvin, e subito un brivido gli corse per la schiena all’idea dell’unica spiegazione plausibile. «Forse l’hai spento tu?» chiese al robot. «No.» Con un respiro di sollievo, Alvin scacciò il sospetto che il robot avesse agito di propria volontà. Non gli sarebbe piaciuto dover affrontare l’ammutinamento di un meccanismo. «Allora perché lo schermo è scuro?» chiese. «I ricevitori sono stati coperti.» «Non capisco» disse Alvin, dimenticando per un attimo che il robot poteva reagire solo a ordini o domande precise. Ma lo ricordò in fretta, e chiese: «Cosa ha coperto i ricevitori?» «Non lo so.» La laconicità dei robot poteva essere a volte più esasperante della loquacità degli umani. Prima che Alvin potesse formulare un’altra domanda, Hilvar l’interruppe. «Digli di far alzare la nave… adagio» disse. Nella sua voce c’era una nota di urgenza. Alvin trasmise l’ordine. Come sempre, non ci fu alcuna sensazione di movimento, ma qualche istante dopo l’immagine cominciò a riformarsi sullo schermo; per un momento restò offuscata e contorta, ma mostrò quanto bastava per mettere fine alla discussione sull’atterraggio. La pianura non era più piana. Proprio sotto di loro si era formata una grande gibbosità, che rivelava uno squarcio nel punto da cui la nave era riuscita a liberarsi. Enormi pseudopodi si agitavano al di sopra dell’apertura, cercando di ricatturare la preda sfuggita. Alvin, che fissava inorridito e affascinato, colse la visione di un pulsante orifizio scarlatto, frangiato di tentacoli che battevano all’unisono, trascinando tutto ciò che potevano afferrare dentro la sacca spalancata. Rimasto privo della vittima, il mostro affondò lentamente nel terreno, e fu allora che Alvin comprese. La pianura là sotto non era che un sottile strato di scorie alla superficie di un mare stagnante. «Cos’era quella cosa?» balbettò. «Dovrei scendere e studiarla per poterti dire cos’è» replicò calmo Hilvar. «Può trattarsi di una specie di animale primitivo, forse parente del nostro amico di Shalmirane. Di sicuro non è intelligente, altrimenti non gli sarebbe venuta l’idea di mangiarsi una nave spaziale.» Alvin si sentì scosso, anche sapendo di non aver corso un vero pericolo. E si domandò cos’altro vivesse tra quegli innocenti fili d’erba. «Ci sarebbe da trascorrere parecchio tempo su questo pianeta» disse Hilvar, affascinato da ciò che aveva appena visto. «L’evoluzione deve aver prodotto fenomeni molto interessanti. Non solo l’evoluzione, del resto, ma anche l’involuzione, perché le forme superiori di vita sono regredite da quando il pianeta è stato abbandonato. A quest’ora dev’essersi stabilito un equilibrio e… Come, andiamo già via?» terminò, dispiaciuto, vedendo che il pianeta si allontanava sotto di loro. «E subito, anche. Ho visto un mondo senza vita e un altro dove ce n’è troppa. Non saprei dire quale sia il peggiore.» A duemila metri sopra la pianura, il pianeta diede loro l’ultima sorpresa. Incontrarono una flottiglia di flaccidi palloni trasportati dal vento. Da ogni superficie semi-trasparente penzolavano masse di viticci che formavano una specie di foresta. Evidentemente alcune piante, nello sforzo di sfuggire al feroce conflitto che si svolgeva sulla superficie, avevano imparato a conquistare l’aria. Con un miracolo di adattamento avevano scoperto come produrre idrogeno e accumularlo nelle radici, in modo da sollevarsi nell’aria e vivere nella tranquilla pace dell’atmosfera. Tuttavia non si poteva dire che avessero trovato la sicurezza. I loro rami e le foglie erano infestati da un’intera fauna di animali a forma di ragno, costretti a trascorrere la vita lontani dalla superficie del pianeta e a continuare nell’aria l’eterna battaglia per l’esistenza. Presumibilmente, di tanto in tanto, dovevano aver bisogno di qualche contatto con il suolo. Alvin vide uno dei palloni scoppiare all’improvviso, distendere l’involucro a forma di rudimentale paracadute, e cadere a terra. Si domandò se era stata una disgrazia, o se faceva parte del ciclo di vita delle strane entità. Hilvar dormì per tutta la durata del viaggio di avvicinamento al nuovo pianeta. Il robot non ne seppe spiegare la ragione ma, ora che si trovavano all’interno del sistema, l’astronave viaggiò a una velocità assai ridotta in raffronto a quella con cui avevano attraversato l’universo. Ci vollero quasi due ore per raggiungere il mondo scelto come terza stazione, e Alvin fu alquanto sorpreso che quel semplice viaggio interplanetario fosse durato così a lungo. Svegliò Hilvar nel momento in cui entravano nell’atmosfera. «Che ne pensi diquesto?» domandò, indicando lo schermo. Sotto di loro si stendeva un paesaggio grigio e nero, che non mostrava alcuna traccia di vegetazione e sembrava assolutamente deserto. C’erano però segni indiretti di vita: basse colline e vallate erano punteggiate da calotte semisferiche, disposte secondo schemi complessi e simmetrici. Alvin e Hilvar, che dopo l’ultima avventura si erano fatti molto cauti, mandarono il robot in esplorazione. Attraverso i suoi occhi poterono esaminare una delle calotte dalla superficie rotonda e liscia. Non si scorgeva alcuna apertura d’ingresso, né era possibile capire a quale scopo fosse destinata la strana struttura. Era molto larga, alta circa trenta metri. Se era un edificio, mancava però di porte e di finestre. Alvin ordinò al robot di avvicinarsi e toccare la cupola. Con sua immensa meraviglia, la macchina si rifiutò di obbedirgli. Un ammutinamento, o così sembrava. «Perché non vuoi fare quel che ti dico?» chiese Alvin, superato il primo momento di stupore. «È proibito.» «Proibito da chi?» «Non so.» «Allora come mai… No, cancella. L’ordine è registrato dentro di te?» «No.» Questo sembrava eliminare una possibilità: quella che i costruttori delle cupole fossero la razza che aveva fabbricato i robot e che avessero incluso nelle istruzioni originali il divieto di avvicinarsi. «Quando hai ricevuto quell’ordine?» «Quando ho toccato terra.» Alvin si voltò a guardare Hilvar. Una luce di speranza gli brillava negli occhi. «C’è intelligenza, qui? Riesci a sentirla?» «No. Questo pianeta è morto come il primo che abbiamo visitato.» «Vado a raggiungere il robot. Se qualcosa ha comunicato con lui, può comunicare anche con me.» Hilvar non si oppose, benché non avesse un’aria troppo convinta. Atterrarono a una trentina di metri dalla cupola, poco lontano dal robot che li aspettava, e aprirono il compartimento stagno. Alvin sapeva che il compartimento non si sarebbe aperto se il cervello della nave non avesse stabilito che l’aria era respirabile, ma per un attimo dubitò che si fosse verificato un errore. L’aria era scarsissima, insufficiente. Poi, respirando a fondo, capi che immagazzinava abbastanza ossigeno; tuttavia, avrebbero potuto fermarsi solo pochi minuti. Si avviarono verso il robot e la parete curva dell’enigmatica cupola. Mossero ancora qualche passo, poi si fermarono di colpo, simultaneamente. Un identico messaggio era risuonato nella loro mente come il suono di un potente gong:pericolo. Non avvicinarti. Nient’altro. Un messaggio fatto di pensiero puro, non di parole. Alvin era certo che qualunque creatura, a prescindere dal livello d’intelligenza, avrebbe ricevuto lo stesso avvertimento, trasmesso in maniera inconfondibile dallo stesso identico mezzo: la mente. Era un semplice avvertimento, non una minaccia. Sentivano in qualche modo che non era diretto contro di loro. Era stato impartito a loro protezione. Qui, sembrava dire, c’è qualcosa di estremamente pericoloso, e noi, costruttori delle cupole, non vogliamo che qualcuno corra incidentalmente un grave pericolo. Alvin e Hilvar fecero alcuni passi indietro, poi si guardarono; ciascuno aspettava che l’amico si pronunciasse per primo. Fu Hilvar a parlare. «Avevo ragione io, Alvin. Qui non c’è intelligenza viva. L’avvertimento è automatico, scatta non appena qualcuno supera la distanza fissata.» Alvin annuì. «Mi chiedo cos’abbiano cercato di proteggere» disse. «Ci saranno abitazioni… o altro, chissà, sotto quelle cupole.» «Non potremo scoprirlo se tutte le cupole ci daranno lo stesso segnale. Interessante, però, la differenza tra questi tre pianeti! Il primo l’hanno abbandonato portando via quasi tutto. Il secondo l’hanno abbandonato senza curarsi di nulla, qui invece pare che si siano dati molto da fare. Forse speravano di tornare un giorno o l’altro e volevano che tutto rimanesse com’era.» «Ma non sono più tornati, ed è trascorso un tempo immemorabile.» «Avranno cambiato idea.» «Strano», pensò Alvin. «Hilvar e io abbiamo parlato entrambi riferendoci a ’loro’. Chiunque o qualunque cosa ’loro’ siano stati, la loro presenza è ancora avvertibile sul primo pianeta, e più che mai su questo. Ecco un mondo che è stato accuratamente impacchettato e conservato nel caso che potesse tornare utile…» «Torniamo alla nave» ansimò. «Faccio fatica a respirare.» Quand’ebbero richiuso il compartimento stagno e si furono un po’ rinfrancati, discussero sul da farsi. Per compiere un’investigazione accurata dovevano accostarsi a un buon numero di cupole, nella speranza di trovarne una in cui fosse possibile entrare. Se invece l’avvertimento si fosse ripetuto regolarmente… Ma Alvin preferiva non pensarci. Dovette pensarci meno di un’ora dopo, e in uno stato d’animo molto più drammatico di quanto avrebbero mai immaginato. Il robot era sceso su una dozzina di cupole, sempre con lo stesso risultato, quando si trovarono di fronte a una scena che appariva fuori posto in un mondo dove regnava un ordine così assurdo. Sotto di loro si stendeva un’ampia vallata; sparse qua e là, le solite cupole impenetrabili. Al centro c’erano le tracce inconfondibili di una grande esplosione. Un’esplosione che aveva proiettato frammenti per miglia all’intorno e scavato un enorme cratere nel terreno. Accanto al cratere c’era il relitto di una nave spaziale. 21 Atterrarono vicino al teatro di quell’antica tragedia e si avviarono lentamente, facendo economia di fiato, verso l’immenso scafo semidistrutto che torreggiava davanti a loro. Della nave non restava che una sezione, forse la prua o la poppa; tutto il resto doveva essere andato perduto al momento dell’esplosione. Mentre si avvicinavano al relitto, un pensiero si formò nella mente di Alvin, e a poco a poco divenne certezza. «Hilvar» disse, faticando a parlare e camminando nello stesso tempo «questa è la nave che era atterrata sul primo pianeta, non credi?» Hilvar si limitò ad annuire. Non voleva sprecare fiato. Anche a lui era venuta la stessa idea. Si augurò che quella lezione pratica di prudenza avesse un certo effetto su Alvin. Raggiunsero lo scafo e ne esaminarono l’interno. Era come guardare in un grande edificio che fosse stato tagliato rozzamente in due parti. Nel punto in cui era avvenuta l’esplosione, i pavimenti, i soffitti e le pareti sembravano formare un disegno di sezione dello scafo. Quali strani esseri, si domandava Alvin giacevano ancora dove la morte li aveva raggiunti durante l’esplosione? «Non capisco» osservò improvvisamente Alvin. «Questa parte della nave è tremendamente danneggiata, ma è praticamente intatta. Dov’è l’altro pezzo? Che l’astronave si sia spezzata in due nello spazio e questa sezione sia stata proiettata qui?» Solo dopo avere mandato di nuovo il robot in esplorazione, e avere loro stessi battuto la zona attorno al relitto, trovarono la risposta. Non c’era ombra di dubbio; anche la più piccola riserva mentale fu bandita appena Alvin trovò una fila di tumuli sulla collina oltre la nave. «Dunque atterrarono qui» mormorò Hilvar «e trascurarono l’avvertimento. Erano curiosi, proprio come te, e tentarono di aprire quella cupola.» Indicò l’involucro tondeggiante al lato opposto del cratere, entro il quale gli abitanti del pianeta avevano celato i loro tesori. L’involucro non era più una cupola: era una sfera completa, poiché il terreno in cui affondava per metà era stato smosso dall’esplosione. «Così danneggiarono la nave e molti di loro rimasero uccisi. Ma nonostante questo, riuscirono a riparare parte dello scafo e ripartirono, tagliando via questa sezione e asportandone tutto ciò che poteva essere utilizzabile. Che impresa dev’essere stata!» Alvin lo udiva appena. Fissava intento la strana insegna che l’aveva condotto alla scoperta dei tumuli: un’asta sottile in cui, a tre quarti dalla cima, era infisso un disco orizzontale. Quel segno, per quanto strano potesse essere, Alvin lo capiva perfettamente. Sotto quelle pietre c’era la risposta ad almeno una domanda: bisognava però disturbare dei morti. La domanda poteva restare in sospeso: chiunque fossero stati quei poveri esseri, si erano guadagnati il diritto di riposare. Mentre tornavano verso la nave, Hilvar sentì l’amico sospirare tra sé: «Spero che gli altri siano tornati a casa». «E ora?» chiese Hilvar quando furono di nuovo nello spazio. Alvin fissò pensoso lo schermo prima di rispondere. «Pensi che dovrei tornare indietro?» disse poi. «Sarebbe la soluzione più logica. Non è detto che la fortuna continui ad assisterci, e non sappiamo quali altre sorprese ci riservino questi pianeti.» Era la voce del buon senso e della prudenza, e adesso Alvin era preparato a darle più credito di quanto avrebbe fatto pochi giorni prima. Ma aveva fatto tanta strada e aveva atteso tutta la vita questo momento; non voleva ancora arrendersi, c’era tanto da vedere. «D’ora in poi resteremo nella nave» promise «e non tenteremo neppure di atterrare. Dovrebbe essere una precauzione sufficiente.» Hilvar si strinse nelle spalle, come se non volesse assumersi nessuna responsabilità per ciò che poteva accadere. Visto che Alvin cominciava a diventare più prudente, non stimò saggio lasciargli capire che anche lui moriva dalla voglia di continuare l’avventura, anche se aveva ormai abbandonato la speranza di incontrare forme di intelligenza su quei pianeti. Di fronte avevano due mondi, un grande pianeta con il suo piccolo satellite. Il pianeta poteva essere il gemello del secondo mondo che avevano visitato. Tutta la superficie era ricoperta della stessa coltre di verde. Atterrare non sarebbe stato di nessuna utilità, ormai lo sapevano. Alvin portò lo scafo verso la superficie del satellite. Ma non fu necessario il segnale di allarme del complesso meccanismo di protezione per capire che il satellite non aveva atmosfera. Tutte le ombre avevano contorni troppo definiti, e non c’erano sfumature tra il giorno e la notte, perché uno dei più lontani soli era sopra l’orizzonte dell’area a cui si stavano avvicinando. Il paesaggio era illuminato da una luce rosso cupo, come se fosse stato immerso nel sangue. Volarono per chilometri sopra una catena di montagne aspre e appuntite come nei lontani giorni in cui erano nate. Quello era un mondo che non aveva mai conosciuto cambiamento o sfaceli, che non era mai stato colpito dal vento o dalla pioggia. Lì non erano necessari circuiti di eternità per conservare gli oggetti nella loro originale freschezza. Ma se non c’era aria, non poteva esistere vita… o poteva esserci? «Certo» disse Hilvar quando Alvin gli fece la domanda. «Non c’è niente di biologicamente assurdo in quest’idea. La vita non può avere origine in uno spazio privo di aria… ma può sviluppare forme in grado di sopravvivere. Dev’essere successo milioni di volte, su ogni pianeta abitato che abbia perso la sua atmosfera.» «Ma come puoi credere che formeintelligentidi vita vivano nel vuoto assoluto? Non pensi che avrebbero cercato di evitare la perdita della loro aria?» «Forse, se fosse accadutodopoche gli abitanti avevano raggiunto un grado di intelligenza sufficiente. Ma se l’atmosfera fosse scomparsa quando essi si trovavano ancora a uno stato primitivo, non avrebbero potuto far altro che adattarsi o perire. Dopo essersi adattati potrebbero aver raggiunto un grado di intelligenza altissimo. E probabilmente lo hanno raggiunto… L’incentivo era troppo grande.» Il ragionamento, pensò Alvin, era puramente teorico. Per quanto riguardava quel pianeta, almeno. Da nessuna parte si vedeva il minimo segno di vita, intelligente o no. Ma in questo caso, quale poteva essere lo scopo di quel mondo? L’intero sistema multiplo dei Sette Soli, Alvin ne era ormai certo, era artificiale. E quel mondo doveva aver avuto un suo scopo. Forse la sua funzione era stata puramente ornamentale: provvedere una luna al gigantesco compagno. Ma anche in questo caso, comunque, era probabile che avesse avuto una sua utilità. «Guarda» disse Hilvar indicando lo schermo. «Sulla destra.» Alvin corresse la rotta dello scafo, e il paesaggio ruotò davanti ai loro occhi. Le rocce rosse tremarono per un attimo, poi l’immagine si stabilizzò. E sotto di loro apparve il segno inconfondibile di una vita. Inconfondibile… e sconcertante. Era una fila di sottili colonne distanziate una trentina di metri l’una dall’altra, e alte cinquanta o sessanta metri. Si stendevano in lontananza con ipnotica prospettiva, fino a sparire oltre l’orizzonte. Alvin cominciò a seguire la fila di colonne domandandosi a cosa potevano essere servite. Erano assolutamente identiche una all’altra, e superavano monti e valli. Nessun segno indicava che avessero sostenuto qualcosa. Erano perfettamente levigate, e si assottigliavano un poco verso la cima. Di colpo piegarono ad angolo retto, e Alvin percorse ancora diversi chilometri prima di poter reagire e lanciare lo scafo nella nuova direzione. Le colonne continuavano a stendersi una dopo l’altra con identica regolarità. Poi, dopo una settantina di chilometri, piegavano ancora verso destra ad angolo retto. «Se continua in questo modo», pensò Alvin, «torneremo al punto di partenza.» La sequenza regolare delle colonne li aveva tanto ipnotizzati da accorgersi in ritardo che la continuità era stata interrotta. Hilvar gridò di tornare indietro, e Alvin, che non aveva notato niente, rifece con lo scafo il cammino percorso. Scesero lentamente su ciò che Hilvar aveva scoperto, e nelle loro menti si formò un sospetto fantastico, anche se in un primo momento non ebbero il coraggio di comunicarselo. Due delle colonne erano rotte alla base ed erano riverse sulle rocce. Ma non era tutto. Le due colonne ai lati dell’apertura risultavano piegate verso l’esterno da una forza terribile. C’era una sola conclusione possibile. Ora Alvin sapeva cos’erano quelle colonne. Era qualcosa che aveva visto parecchie volte a Lys, ma fino a quel momento, per l’enorme differenza di dimensioni, non era riuscito a capirlo. «Hilvar» disse incerto, quasi non avesse il coraggio di trasformare il pensiero in parole «sai cos’è?» «Stento quasi a crederlo… Abbiamo sorvolato i confini di un recinto. Quello è un recinto…» «Esseri che allevano animali simili» disse Alvin, col sorriso nervoso di chi vuol nascondere un timore «dovrebbero badare maggiormente alla robustezza dei loro recinti.» Hilvar non rilevò la battuta forzata dell’amico. Osservava lo squarcio nel recinto, e aveva corrugato la fronte soprappensiero. «Non capisco» disse alla fine. «Dove poteva esserci del cibo su un pianeta del genere? E perché gli animali sono usciti dal recinto? Darei non so cosa per sapere che tipo di animali erano.» «Forse sono stati abbandonati, e sono usciti perché avevano fame» osservò Alvin. «O forse qualcosa li ha spaventati.» «Abbassati» disse Hilvar. «Voglio dare un’occhiata al terreno.» Si portarono a pochi metri dal suolo, e solo allora si accorsero che tutta la pianura era cosparsa di innumerevoli piccoli buchi, non più grandi di un centimetro o due. All’esterno del recinto però i buchi non erano visibili. Cessavano dove le colonne segnavano il confine. «Hai ragione» disse Hilvar. «È stata la fame. Ma non era un animale. Mi sembra più logico affermare che sia stata una pianta. Ha inaridito il terreno all’interno del recinto, ed è uscita in cerca di nuovo cibo. Con tutta probabilità si muoveva con estrema lentezza, e forse ha impiegato anni per rompere le colonne.» L’immaginazione di Alvin colmò i dettagli che non sarebbe mai riuscito a conoscere con esattezza. L’analisi di Hilvar doveva essere sostanzialmente corretta. Qualche specie di mostro botanico doveva aver combattuto tenacemente contro la barriera che lo teneva prigioniero. Forse era ancora vivo e vagava libero sulla superficie del pianeta. Cercarlo sarebbe stato inutile. Comunque perlustrarono alcuni chilometri quadrati di zona attorno all’apertura, e scoprirono una gran macchia circolare di fori, larga forse centocinquanta metri, che indicava un punto in cui la creatura si era fermata a mangiare… Se era «mangiare» quello di un organismo che traeva il nutrimento dalla roccia. Mentre si sollevavano nuovamente nello spazio, Alvin provò uno strano senso di stanchezza. Aveva visto molte cose, ma non aveva appreso niente. Tutti i pianeti erano ricchi di cose meravigliose, tuttavia ciò che lui cercava era scomparso molto tempo prima. Sapeva che sarebbe stato inutile esplorare i mondi dei Sette Soli. Anche se nell’Universo esisteva ancora una razza intelligente, dove la poteva cercare? Guardò le stelle sparse come polvere su tutto lo schermo, e comprese che era impossibile continuare le ricerche. Quel che restava del Tempo non sarebbe stato sufficiente a esplorarle tutte. Si sentì afferrare da un senso di oppressione, e comprese la paura che Diaspar aveva per gli spazi dell’Universo, il terrore che aveva fatto rinchiudere i suoi abitanti nel microcosmo di una città. Era difficile crederlo, ma dopo tutto, avevano ragione. Si volse a Hilvar per un po’ di conforto. Ma Hilvar era in piedi, coi pugni chiusi e gli occhi sbarrati. Teneva la testa piegata da un lato; pareva in ascolto, con tutti i sensi tesi ad analizzare il vuoto che li circondava. «Che c’è?» gridò Alvin. Dovette ripetere tre volte la domanda, perché Hilvar non gli badava. «Qualcosa si avvicina» rispose finalmente. «Qualcosa che non so capire.» Parve ad Alvin che la cabina fosse improvvisamente diventata gelida. L’incubo ancestrale degli Invasori lo afferrò, paralizzandolo. Con uno sforzo di volontà che assorbì tutte le sue energie, riuscì a dominare il panico. «È ostile?» chiese. «Devo far rotta per la Terra?» Hilvar non rispose alla prima domanda, solo alla seconda. La sua voce era fioca, ma non suonò allarmata né terrorizzata. Aveva piuttosto un accento di meraviglia e di curiosità, come se il giovane avesse scoperto qualcosa di così straordinario da non aver più tempo di occuparsi di Alvin e di preoccuparsi. «Troppo tardi» dichiarò. «È già qui.» La galassia aveva compiuto parecchi giri sul proprio asse da quando Vanamonde aveva acquistato coscienza di sé. Ricordava poco dei suoi primi eoni e degli esseri che a quel tempo si prendevano cura di lui, ma ricordava ancora la desolazione che aveva provato quando se ne erano andati lasciandolo solo fra le stelle. Da allora aveva vagabondato da sole a sole, mentre le sue facoltà maturavano e si sviluppavano. Aveva sognato di ritrovare quelli che avevano procurato la sua nascita. Ora quel sogno era impallidito, ma non svanito del tutto. Aveva trovato su innumerevoli mondi i segni della vita che vi si era svolta un tempo, ma solo una volta aveva incontrato l’intelligenza, ed era fuggito terrorizzato dal Sole Nero. Però l’Universo era tanto vasto, e le sue ricerche erano appena agli inizi. Per quanto distante nello spazio e nel tempo, la potente esplosione di forza attirò Vanamonde attraverso gli anni-luce verso il cuore della galassia. Era incredibilmente diversa dalla radiazione delle stelle, ed era apparsa nel campo cosciente di Vanamonde rapida come il passaggio di una meteora in un cielo sereno. Vanamonde mosse verso quella direzione attraverso il tempo e lo spazio, staccando da sé lo schema morto e immutabile del passato. La lunga sagoma di metallo, con le sue infinite complessità di struttura, sfuggiva alla sua comprensione poiché gli era estranea come tutte le cose del mondo fisico. Attorno a essa aderiva ancora l’emanazione di quella forza che l’aveva raggiunto e trascinato a sé attraverso l’Universo; ora, però, quella forza aveva perso ogni interesse per Vanamonde. Cauto, con la nervosità tesa e vigile di un animale pronto alla fuga, si protese verso le due menti che aveva scoperto. Seppe allora che la sua lunga ricerca era terminata. Alvin afferrò Hilvar per le spalle e lo scosse violentemente, cercando di richiamarlo alla realtà. «Dimmi cosa sta accadendo!» scongiurò. «Cosa devo fare?» L’espressione lontana e assente scomparve poco a poco dagli occhi di Hilvar. «Non capisco» mormorò «ma non è il caso di spaventarsi. Ne sono certo. Qualunque cosa sia, non vuol farci del male. È solo interessata.» Alvin stava per rispondere, quando fu sopraffatto all’improvviso da una sensazione diversa da qualsiasi altra provata fino a quel momento. Gli sembrò che un caldo formicolio gli si spandesse per tutto il corpo; fu una questione di secondi, ma come fu scomparso ebbe l’impressione di non essere più soltanto Alvin. Qualcosa si era impossessato in parte del suo cervello, sovrapponendosi a esso. Sentiva inoltre vicinissima la mente di Hilvar, ugualmente impigliata nella strana entità discesa su loro. La sensazione era più strana che spiacevole. Per Alvin era la prima esperienza di vera telepatia, la forza che nella sua gente era degenerata al punto da servire ormai soltanto per comunicare con le macchine. Si era ribellato quando Seranis aveva cercato di dominare la sua mente, ma questa volta non tentò di opporre resistenza. Sarebbe stato inutile. E capiva che la creatura, chiunque fosse, non era ostile. Si rilassò, accettando il fatto che un’intelligenza infinitamente superiore volesse esplorare la sua mente. Ma quell’ipotesi non era del tutto esatta. Una delle due menti, Vanamonde se ne rese conto subito, era più comunicativa e più accessibile dell’altra. Entrambe erano piene di meraviglia per la sua presenza, cosa che Vanamonde non riusciva a capire. Non riusciva a credere che quelle menti avessero dimenticato. L’oblio, come la mortalità, era un fenomeno che trascendeva la comprensione di Vanamonde. Comunicare era difficilissimo; la gran parte delle immagini-pensiero di quelle menti erano così strane che non sapeva interpretarle. Lo schema dominante del terrore per gli Invasori lo lasciava perplesso e un po’ spaventato; gli ricordava la violenta emozione sofferta quando il Sole Nero era entrato per la prima volta nel suo campo di conoscenza. Ma i due non sapevano nulla del Sole Nero; colse una loro domanda. «Cosa sei?» Diede l’unica risposta che sapeva. «Sono Vanamonde.» Ci fu una pausa (quanto tempo impiegava lo schema dei loro pensieri per formarsi!) poi la domanda fu ripetuta. Non avevano capito; strano, perché era stata di sicuro la loro specie a imporgli quel nome inserendolo fra i ricordi della sua nascita. Ricordi che erano scarsi, e stranamente iniziavano in un unico punto del tempo, ma erano di una chiarezza cristallina. Di nuovo i loro lenti pensieri colpirono la sua sensibilità. «Chi costruì i Sette Soli? Che accadde ai loro creatori?» Non lo sapeva; stentarono a credergli, e la loro delusione lo raggiunse nitida e vivida. Ma erano pazienti, e Vanamonde era contento di aiutarli perché il loro problema era anche suo, e perché per la prima volta aveva trovato una compagnia. Alvin quasi non credeva all’esperienza che stava vivendo. Si sentiva poco più di uno spettatore in quella silenziosa conversazione, poiché doveva ammettere che la mente di Hilvar era molto più abile della sua. Non gli restava che aspettare, carico di meraviglia, mezzo stordito dal torrente di pensieri che rasentava i limiti della sua comprensione. In quel momento Hilvar, piuttosto pallido e stralunato, tolse il contatto e si rivolse all’amico. «Alvin» disse, con voce stanca «c’è qualcosa che non capisco. È troppo strano.» Quell’ammissione ridiede ad Alvin un pizzico di fiducia in se stesso. Hilvar dovette leggerglielo sul volto, perché sorrise con simpatia. «Non riesco a capire chi sia questo… Vanamonde» continuò. «È un essere dotato di una mente infinita, eppure lo si direbbe poco intelligente. Non è escluso che la sua intelligenza sia di natura tanto diversa da sfuggire alla nostra comprensione, ma qualcosa mi dice che la spiegazione vera non è questa.» «Be’, cos’hai saputo?» fece Alvin impaziente. «Ti ha detto niente dei Sette Soli?» Hilvar aveva di nuovo l’aria assorta e lontana. «Sono stati costruiti da molte specie, compresa la nostra» mormorò assente. «Mi ha riferito fatti del genere, ma sembra che non ne afferri il significato. Direi che è consapevole del passato, ma non è in grado di interpretarlo. Tutte le cose che sono accadute si confondono nella sua mente.» Tacque e restò un poco pensoso, poi la sua espressione si illuminò. «C’è una sola cosa da fare; in un modo o nell’altro, dobbiamo portare Vanamonde sulla Terra in modo che i nostri filosofi possano studiarlo.» «Non sarà pericoloso?» «No» assicurò Hilvar, colpito dall’obiezione così caratteristica in Alvin. «Vanamonde è una mente amica; direi di più, anzi, è addirittura affettuosa.» Improvvisamente, il vago pensiero che si era formato da qualche istante nella mente di Alvin si fece chiaro. Ricordò Krif, e ricordò lo scopo zoologico della loro spedizione a Shalmirane. Hilvar aveva trovato un nuovo amico. 22 Jeserac considerò che pochi giorni prima quella conferenza sarebbe parsa una cosa impensabile. I sei visitatori giunti da Lys sedevano di fronte al Consiglio. Jeserac meditava sull’ironia della cosa. Soltanto poche ore prima, infatti, Alvin, fermo a quello stesso posto, aveva ascoltato il verdetto del Consiglio, secondo il quale Diaspar doveva venir di nuovo isolata dal resto del mondo. Ed ecco che il mondo aveva fatto irruzione a Diaspar… E non solo il mondo, ma l’Universo. Anche il Consiglio era leggermente mutato. Cinque dei suoi membri erano assenti. Incapaci di affrontare le responsabilità e i problemi che erano sorti, avevano seguito il sentiero già tracciato da Khedron. Anche questa, pensava Jeserac, era una prova che Diaspar era fallita, se tanti dei suoi cittadini erano incapaci di accettare la prima sfida dopo milioni di anni. Migliaia di abitanti erano fuggiti, rifugiandosi nell’incoscienza delle Banche Memoria, nella speranza che, al risveglio, la crisi fosse passata e Diaspar fosse ancora quella di sempre. E invece, sarebbero rimasti delusi. Jeserac era stato costretto a occupare uno dei posti vacanti del Consiglio. Per quanto il fatto di essere tutore di Alvin lo mettesse in una posizione delicata, la sua presenza era assolutamente necessaria, e nessuno si oppose alla sua elezione. Sedeva a una estremità del lungo tavolo a ferro di cavallo, posizione che gli permetteva di osservare tanto gli stranieri quanto i colleghi Consiglieri. Alvin aveva visto giusto, e il Consiglio stava digerendo un po’ alla volta la sgradevole verità. I delegati venuti da Lys sapevano pensare molto meglio delle migliori menti di Diaspar. Non solo, ma mostravano di saper coordinare le idee in modo incredibile, cosa dovuta probabilmente ai loro poteri telepatici. Si domandò se stavano leggendo i pensieri dei membri del Consiglio, poi si convinse che non avrebbero infranto la solenne promessa che aveva reso possibile l’incontro. Non gli pareva che si fossero fatti progressi notevoli. Il Consiglio, per quanto avesse accettato l’esistenza di Lys, sembrava non essersi ancora reso conto di cos’era accaduto. Erano tutti impauriti… E forse lo erano anche i visitatori, per quanto riuscissero a nasconderlo meglio. Jeserac però non era tanto terrorizzato. Certo, aveva ancora tutte le sue paure, ma riusciva a dominarle. L’imprudenza (o il coraggio?) di Alvin lo avevano alquanto cambiato. Non credeva di poter mai mettere piede oltre le mura di Diaspar, ma ora capiva l’impulso che aveva spinto Alvin a farlo. La domanda del Presidente colse Jeserac alla sprovvista, ma il tutore di Alvin se la cavò ugualmente. «Il mio modesto parere è che è stato solo un puro caso se questa situazione non si è mai presentata prima d’ora. Sappiamo che ci sono stati in passato ben quattordici Unici, e certo la loro esistenza doveva avere uno scopo. Questo scopo, secondo me, era di impedire che Lys e Diaspar restassero divise per sempre. Alvin l’ha impedito, infatti, ma ha fatto anche qualcosa di più, qualcosa che forse non era nei propositi originali. Può il Computer Centrale confermare questa ipotesi?» La voce impersonale del Computer rispose immediatamente. «Il Consigliere sa che non posso fare commenti sulle istruzioni avute dai miei costruttori.» Jeserac incassò il colpo. «Qualunque sia la causa, non possiamo discutere i fatti. Alvin è partito verso lo spazio. Quando tornerà potrete proibirgli di partire di nuovo, ma dubito che ci riuscirete, anche perché nel frattempo può avere appreso una quantità di cose. Se ciò che temete è avvenuto, nessuno di noi può far nulla. La Terra è inerme… come lo è stata per milioni di secoli.» Jeserac tacque e si guardò attorno. Le sue parole non erano piaciute, cosa che aveva già previsto. «D’altra parte, non vedo perché dovremmo allarmarci. La Terra non corre pericoli maggiori di quelli che già correva. Perché mai due uomini in una piccola astronave dovrebbero attiraci di nuovo il furore degli Invasori? Se vogliamo essere onesti con noi stessi, dobbiamo ammettere che gli Invasori avrebbero potuto distruggerci già da un bel pezzo.» Ci fu un silenzio pieno di disapprovazione. Era un’eresia. Lo stesso Jeserac, in passato, avrebbe gridato allo scandalo. Il Presidente, accigliatissimo interloquì. «Non dice la leggenda che gli Invasori avrebbero risparmiato la Terra, a condizione però che l’Uomo non si avventurasse mai più nello spazio? E non abbiamo forse rotto questo patto?» «Una leggenda, sì» replicò Jeserac. «Accettiamo molte cose senza discutere, e questa è una delle tante. Comunque, la prova di tutto questo non esiste. Mi sembra impossibile che un fatto di tale importanza non sia stato registrato nelle memorie del Computer Centrale, eppure il Computer non ne sa nulla. Gliel’ho chiesto, per mezzo delle macchine informative. Il Consiglio potrebbe rivolgere la domanda direttamente.» Jeserac preferiva non rischiare un secondo ammonimento. Se la sbrigasse pure il Presidente. Ma la risposta del Presidente non venne, perché proprio in quel momento i delegati di Lys balzarono in piedi, con facce sconvolte da una medesima espressione di incredulità e di allarme. Restarono in ascolto, mentre una voce lontana versava nelle loro orecchie il suo messaggio. I Consiglieri trattennero il fiato; la loro apprensione cresceva di minuto in minuto. Infine il capo della delegazione si scosse dallo stato di trance, e si volse in tono di scusa al Presidente. «Abbiamo appena ricevuto notizie strane e preoccupanti da Lys» disse. «Alvin è tornato sulla Terra?» «No, Presidente… Non Alvin. Qualcos’altro.» Mentre atterrava con la fedele nave nella radura di Airlee, Alvin si chiedeva se fosse mai accaduto nella storia dell’umanità che una nave spaziale portasse sulla Terra un simile passeggero, ammesso che Vanamonde si trovasse entro lo spazio fisico della nave. Non c’era stato alcun segno della sua presenza durante il viaggio. Hilvar era convinto che solo la sfera di attenzione di Vanamonde potesse avere una qualsiasi posizione nello spazio. Vanamonde stesso non poteva venir collocato in alcun luogo, e forse nemmeno nel tempo. Seranis li aspettava con cinque senatori, uno dei quali era già noto ad Alvin fin dall’ultima visita. Gli altri due, pensò, dovevano essere alla riunione di Diaspar. E cercò di immaginare a che punto fossero nelle discussioni e come la città avesse reagito alla presenza degli intrusi giunti da fuori dopo tanti milioni di anni. «A quanto pare, Alvin» fece Seranis seccamente, dopo aver salutato il figlio «avete un vero bernoccolo per scoprire entità notevoli. Stavolta, però, ci vorrà un bel pezzo prima che vi riesca di superare l’ultima impresa.» Alvin restò di sasso. «Ma come, Vanamonde è già arrivato?» «Già, da parecchie ore. È riuscito chissà come a rintracciare il percorso fatto dal vostro scafo nel viaggio di andata. Un’impresa strabiliante, non c’è che dire, che solleverà problemi filosofici interessantissimi. Tutto fa credere che abbia raggiunto Lys nello stesso momento in cui l’avete scoperto, dal che si può dedurre che è capace di velocità infinita. E non è tutto. Nelle ultime ore ci ha insegnato più storia di quanta supponevamo ne esistesse.» Alvin la guardava sbalordito. Infine comprese; non era difficile immaginare quale doveva essere stato l’effetto di Vanamonde su quella gente dotata di percezioni così acute, su tutte quelle menti così meravigliosamente collegate. Dovevano aver reagito con rapidità sorprendente. Alvin si figurò un incontro timoroso di Vanamonde, magari un po’ spaventato, in mezzo agli intelletti più seri di Lys. «Avete scoperto cos’è?» chiese. «Sì. Questo sarebbe il meno. Non sappiamo invece quali siano le sue origini. È un’intelligenza pura. La sua conoscenza sembra illimitata, ma nello stesso tempo è una mente infantile, nel vero senso della parola.» «Ma certo!» gridò Hilvar. «Come ho fatto a non capirlo subito!» Alvin parve imbarazzato, e Seranis ebbe pietà. «Voglio dire che per quanto Vanamonde abbia una mente colossale, e forse infinita, è ancora immaturo. La sua intelligenza è inferiore a quella di un essere umano, anche se il suo processo di pensiero è rapidissimo, e impara con grande facilità. Possiede anche dei poteri che non riusciamo ancora a comprendere. L’intero passato è aperto alla sua mente, in un modo difficile da definire. Forse si è servito di questa capacità per rintracciare la rotta per la Terra.» Alvin rimase in silenzio, vinto. In quel momento si rese conto quante ragioni avesse avuto Hilvar di portare Vanamonde a Lys. E quanta fortuna avesse avuto lui, una volta, nell’ingannare Seranis. Cosa che non gli sarebbe certamente riuscita una seconda volta. «Volete dire che Vanamonde è appena nato?» domandò. «In rapporto alla sua natura, sì. In realtà è antichissimo, sebbene più giovane dell’Uomo. Lo strano, poi, è che insiste nell’asserire che l’abbiamo creato noi. Senza dubbio la sua origine è legata ai grandi misteri del passato.» «Dov’è ora?» s’informò Hilvar, con un certo tono di possesso. «Gli storici di Grevarn lo stanno interrogando. Stanno cercando di tracciare le linee essenziali del passato, ma l’impresa richiede anni. Vanamonde sa descrivere tutto quello che è stato nei minuti particolari, senza però capire quello che descrive; è un affare serio interpretare quel che dice.» Alvin si chiese come Seranis sapesse tutto ciò; poi si rese conto che in quel momento tutte le menti di Lys stavano seguendo i progressi della grande ricerca. Provò un senso di orgoglio al pensiero di aver prodotto sensazionali novità sia a Lys, sia a Diaspar, ma all’orgoglio si mescolava un senso di avvilimento. A Lys c’era qualcosa che non avrebbe mai potuto condividere né capire: il contatto diretto tra mente e mente era per lui un mistero, proprio come la musica per un sordo o il colore per un cieco. Quelli di Lys stavano scambiandosi pensieri con l’essere inimmaginabile e assurdo mentre lui, che l’aveva conquistato alla Terra, non avrebbe mai potuto comprenderlo, con nessuno dei suoi sensi. Lì non c’era posto per lui; quando l’indagine fosse finita, gli avrebbero comunicato i risultati. Aveva spalancato i cancelli dell’infinito, ma adesso era invaso dal timore, forse dalla paura, di ciò che aveva fatto. Per la sua stessa tranquillità doveva tornare al piccolo e familiare mondo di Diaspar, cercarvi rifugio dopo aver realizzato i suoi sogni e le sue ambizioni. C’era dell’ironia in tutto questo: colui che aveva disprezzato la città per avventurarsi tra le stelle stava per tornare a casa come un bimbo spaventato che corre tra le braccia della mamma. 23 Diaspar non fu troppo compiaciuta di rivedere Alvin. La città era ancora in fermento, come un gigantesco alveare percosso violentemente da un bastone. Diaspar era ancora riluttante ad accettare la realtà, ma coloro che si rifiutavano di ammettere l’esistenza di Lys e del mondo esterno non avevano più posto dove nascondersi. Le Banche Memoria non li accettavano più; invano correvano verso la Sala della Creazione per aggrapparsi ai loro sogni e rifugiarsi nel futuro. La fiamma fredda e dissolvente non era disposta ad accoglierli; non si sarebbero risvegliati tra centomila anni, rinfrancati e dimentichi. Inutile far appello al Computer Centrale, che non voleva render conto delle sue decisioni: gli aspiranti alla pace e al sonno dovevano tornarsene tristemente in città e affrontare i problemi della loro epoca. Alvin era atterrato alla periferia del Parco, poco lontano dalla Torre del Consiglio. Fino all’ultimo momento non era stato certo di poter portare la nave entro la città, attraverso gli schermi che separavano il cielo di Diaspar dal mondo esterno. Anche il firmamento era artificiale, almeno in parte. La notte, col suo manto stellato, non doveva splendere sulla città per non ricordare all’Uomo ciò che aveva perso; così ci si proteggeva anche dalla tempeste che a volte si scatenavano sul deserto, riempiendo il cielo di vortici di sabbia. I guardiani invisibili lasciarono passare Alvin, che come vide Diaspar stendersi sotto di lui sentì di essere veramente a casa. Per quanto l’Universo e i suoi misteri potessero attirarlo, quello era il luogo dov’era nato, al quale apparteneva. Non ne sarebbe mai stato soddisfatto, ma vi sarebbe ritornato sempre. Aveva attraversato mezza galassia per scoprire questa semplice verità. La folla si era già radunata ancor prima che la nave spaziale toccasse terra, e il giovane era ansioso di sapere come i concittadini l’avrebbero accolto. Osservando i loro volti sullo schermo, prima di aprire il compartimento stagno, poteva leggere molte cose. Il sentimento dominante era di certo la curiosità, sentimento di per sé nuovo a Diaspar. Curiosità mescolata all’apprensione, in molti alla paura. «Nessuno», pensava Alvin addolorato, «sembra contento di rivedermi…» Il Consiglio, al contrario, lo accolse con grande effusione… ma era tutta cordialità interessata. Tra l’attenzione generale, Alvin parlò del suo volo ai Sette Soli e del suo incontro con Vanamonde. Infine rispose a una quantità di domande, con una pazienza che sorprese parecchio i suoi ascoltatori. Tutta quella gente, Alvin lo capì subito, si preoccupava soprattutto degli Invasori. Nessuno aveva il coraggio di menzionarli, però, e un evidente disagio si diffuse tra i Consiglieri quando lui stesso affrontò l’argomento. «Se gli Invasori fossero ancora nell’Universo» spiegò Alvin al Consiglio «avrei dovuto incontrarli, dato che ero proprio al centro. Ma tra i Sette Soli non c’è segno di intelligenza. Lo avevo compreso prima ancora che Vanamonde me ne desse la conferma. Io credo che gli Invasori si siano allontanati parecchi eoni fa. Infatti Vanamonde, che ha per lo meno l’età di Diaspar, non ne sa niente.» «Avanzo un’ipotesi» disse uno dei Consiglieri. «Questo Vanamonde potrebbe essere un discendente degli Invasori, cosa che per ora sfugge alla nostra indagine. Forse ha dimenticato le sue origini, ma un giorno potrebbe ricordarle e diventare di nuovo pericoloso.» Hilvar, che presenziava all’assemblea come semplice spettatore, non aspettò l’autorizzazione a parlare. Era la prima volta che Alvin lo vedeva infuriato. «Vanamonde ha esaminato la mia mente» scattò «e io ho intravisto qualcosa della sua. La mia gente ha già appreso molto sul suo conto, sebbene non abbia ancora scoperto chi sia. Ma una cosa è certa. È un amico, ed è stato felicissimo di incontrarci. Non abbiamo niente da temere da lui!» Quello scoppio fu seguito da un breve silenzio. Hilvar si calmò, leggermente imbarazzato, ma da quel momento la tensione nella Sala del Consiglio diminuì. Il Presidente si astenne dal rimproverare Hilvar per l’intromissione, come sarebbe stato suo diritto. Dal dibattito che seguì, Alvin comprese che il Consiglio era diviso in tre partiti. I conservatori, che erano una netta minoranza, speravano ancora che si potesse tornare indietro e che in un modo o nell’altro si potesse restaurare l’antico ordine. Sordi a ogni ragione, si ostinavano a credere che Lys e Diaspar potessero reciprocamente dimenticarsi. Anche i progressisti erano una minoranza; ma il solo fatto che ce ne fosse qualcuno sorprendeva piacevolmente Alvin. Non che fossero ai sette cieli per quell’inaspettato sconvolgimento, ma se non altro erano decisi a trarre dalla cosa il miglior partito. Certi andavano tanto in là da osservare che doveva pur esserci un modo di liberarsi dalle barriere psicologiche, anche più insormontabili di quelle materiali, che li costringevano da tanto tempo a Diaspar. La maggioranza, infine, era formata da coloro che si tenevano in un atteggiamento di vigile cautela. Gente che, avendo capito quanto fosse inutile fare piani o assumere un atteggiamento deciso, preferiva aspettare gli eventi e lasciare che la tempesta si calmasse. Terminata la seduta, Jeserac andò a raggiungere Alvin e Hilvar. Sembrava cambiato dall’ultima volta, quando Alvin l’aveva lasciato a contemplare il deserto dalla Torre di Loranne. Era un cambiamento che non si sarebbe aspettato, ma che avrebbe notato anche in altri con il passare dei giorni. Aveva un’aria più giovanile, come se il suo spirito avesse attinto nuove energie e nel suo sangue scorresse una nuova linfa. Jeserac, a dispetto dell’età, era tra quelli capaci di accettare la sfida che Alvin aveva lanciato a Diaspar. «Devo raccontarti le ultime novità, Alvin» disse. «Conosci, vero, il senatore Gerane?» Alvin restò un momento in forse, poi annuì. «Ma certo… Uno dei primi uomini che ho conosciuto a Lys. Fa forse parte della delegazione?» «Precisamente. Siamo diventati amici. È un uomo brillante, che capisce molte cose della mente umana anche se, a sentir lui, in confronto a molti suoi concittadini è ancora un novellino. Be’, vuol fare un esperimento, approfittando del soggiorno a Diaspar, che tu senz’altro approverai in pieno. Spera di poter analizzare la costrizione che ci inchioda a Diaspar. Dice che se gli riesce di scoprire come è stata imposta, potrà neutralizzarla. Una ventina di persone stanno già collaborando con lui.» «E voi siete tra quelle?» «Si capisce! Non è facile e nemmeno piacevole… Ma ne vale la pena.» «E Gerane che sistema segue?» «Opera attraverso le saghe. Se n’è fatta preparare un’intera serie e studia le nostre reazioni mentre le viviamo. Chi me lo doveva dire che, alla mia età, sarei tornato ai giochi dell’infanzia!» «Cosa sono le saghe?» chiese Hilvar. «Luoghi fantastici, immaginari» spiegò Alvin. «Immaginari in parte, almeno, perché certi sono probabilmente basati su fatti storici. Ce ne sono milioni registrati nelle Banche Memoria della città. Uno si sceglie il tipo di avventura o di esperienza che preferisce, e durante il tempo in cui la sua mente è sotto quegli impulsi, la cosa gli sembra assolutamente reale.» Poi si rivolse a Jeserac. «Che tipi di saghe vi fa scegliere Gerane?» «Più o meno riguardano l’uscita da Diaspar. Certe ci riportano al tempo in cui fu fondata la città. Gerane pensa che quanto più si potrà avvicinare all’origine di questa costrizione, tanto più gli sarà facile distruggerla.» Alvin si sentì molto incoraggiato. La sua opera non avrebbe avuto nessun significato se, pur avendo aperto i cancelli di Diaspar, nessuno li avesse voluti varcare. «Voletedavveroessere in grado di lasciare Diaspar?» domandò Hilvar con la solita perspicacia. «No» ammise Jeserac in tutta sincerità. «Sono terrorizzato solo all’idea. Ma mi rendo conto che eravamo in torto nel credere che Diaspar fosse tutto ciò che può soddisfarci, e la logica mi dice che si deve fare qualcosa per eliminare l’errore. In pratica sono assolutamente incapace di mettere piede fuori città; forse lo sarò sempre. Gerane è convinto che riuscirà a convincere qualcuno di noi ad accompagnarlo a Lys, e io sono pronto a prestargli tutto il mio appoggio… Anche se mi auguro con tutte le forze che non ci riesca.» Alvin guardò il suo vecchio tutore con nuovo rispetto. Ora non sminuiva più il potere della suggestione, né sottovalutava le forze che possono costringere un uomo ad agire contro la logica. Non poteva fare a meno di paragonare la calma e il coraggio di Jeserac alla pusillanimità di Khedron, sebbene, con la nuova comprensione della natura umana che aveva acquistato, riuscisse anche a scusare il Buffone per ciò che aveva fatto. Gerane, ne era certo, avrebbe portato a termine il tentativo cominciato. Jeserac poteva essere troppo vecchio per rompere la regola seguita tutta la vita, anche se voleva ricominciare da capo. Ma non aveva importanza. Altri avrebbero seguito quella strada, abilmente guidati dagli psicologi di Lys. E una volta che alcuni fossero sfuggiti alla morsa di milioni di anni, non si sarebbe trattato che di tempo, poi tutti gli altri li avrebbero seguiti. Ma cosa sarebbe accaduto a Diaspar, e a Lys, quando le barriere fossero completamente cadute? Il meglio di entrambe si poteva salvare e fondere, ma sarebbe stato un compito estenuante, che avrebbe richiesto tutta la saggezza e tutta la pazienza dei due popoli. Le prime difficoltà cominciavano già a delinearsi. Gli ospiti di Lys, col massimo tatto, avevano rifiutato di abitare nelle case che la città aveva apprestato per loro. Si erano accampati temporaneamente nel Parco, l’unico posto che poteva ricordare Lys. Unica eccezione, Hilvar; il quale, pur soffrendo all’idea di abitare in una casa dalle pareti inconsistenti e dai mobili effimeri, aveva accettato coraggiosamente l’ospitalità di Alvin. Hilvar, che non aveva mai sofferto di solitudine in vita sua, a Diaspar si sentiva solo. La città gli sembrava molto più strana di quanto Lys fosse sembrata ad Alvin; era oppresso e sopraffatto dalla sua infinita complessità e dal numero stragrande di sconosciuti che affollavano ogni centimetro quadrato attorno a lui. Conosceva, anche se solo di vista, quasi tutti gli abitanti di Lys. A Diaspar, in mille vite, non sarebbe riuscito a conoscere tutti gli abitanti. Era un pensiero irrazionale, ma si sentì depresso, e solo l’amicizia per Alvin lo tratteneva in quel mondo che non aveva niente a che fare col suo. Aveva tentato spesso di analizzare i suoi sentimenti verso Alvin. Quell’amicizia nasceva, ne era certo, dallo stesso istinto che lo portava verso tutte le creature piccole o che si dibattevano in uno sforzo qualsiasi. Alvin era uno spirito inquieto, un esploratore alla ricerca di un tesoro perduto. Raramente questi esseri trovano quel che cercano, più raramente ancora il coronamento dei loro sforzi porta loro la sognata felicità. Hilvar non sapeva cosa l’amico stesse cercando. Alvin era trascinato da forze messe in moto nelle età precedenti da uomini di genio, che avevano disegnato Diaspar con una perizia perversa… o da uomini di genio anche più grandi che avevano cercato di opporsi ai primi. Come tutti gli esseri umani, Alvin era in un certo senso una macchina; le sue azioni erano predeterminate da fattori ereditari. Questo non cancellava il suo bisogno di comprensione e di simpatia, né lo rendeva immune dalla solitudine e dall’avvilimento. I suoi concittadini lo consideravano un individuo incontentabile; a volte arrivavano a dimenticare che fosse uno di loro. Ci voleva un estraneo, venuto da un ambiente totalmente diverso, per considerarlo un uomo come gli altri. Nei pochi giorni trascorsi a Diaspar, Hilvar aveva incontrato più gente che in tutta la sua vita. Incontrato, sì, senza potere in pratica conoscere nessuno. Gli abitanti della città, per via dello spaventoso affollamento, mantenevano un riserbo nel quale era difficile penetrare. Di privato, a Diaspar, non c’era che la vita dello spirito, e tutti ne erano gelosissimi. Hilvar li compativa, pur sapendo che non sentivano il bisogno della sua simpatia. Non capivano a cosa rinunciavano… Non conoscevano il calore, l’abbandono reciproco che legava i membri di una società telepatica come quella di Lys. Infatti, per quanto fossero tanto educati da nasconderlo, era evidente che la maggior parte delle persone con cui si fermava a parlare lo considerava con pietà per la stupida esistenza che era costretto a condurre. Eriston ed Etania, i guardiani di Alvin, vennero considerati da Hilvar due complete nullità. Trovava strano che Alvin si riferisse a loro chiamandoli padre e madre. A Lys quelle parole avevano conservato il loro antico significato biologico. Era necessario un continuo sforzo di immaginazione per ricordare che le leggi della vita e della morte erano state cambiate dai costruttori di Diaspar, e c’erano volte in cui Hilvar, nonostante l’attività che si svolgeva attorno a lui, trovava la città completamente vuota per la mancanza di bambini. Cosa sarebbe accaduto di Diaspar, ora che il lungo isolamento era finito? Distruggere le Banche Memoria che la tenevano immutabile da millenni sarebbe stato il provvedimento migliore. Per quanto miracolose, erano la creazione di una cultura malata, una civiltà schiava della superstizione. Se molti dei timori di Diaspar erano basati su fatti reali, gli altri non erano che frutto della fantasia, Hilvar era già al corrente di ciò che la mente di Vanamonde stava rivelando ai suoi concittadini. Tra pochi giorni, Diaspar avrebbe appreso la verità, e avrebbe scoperto che molto del suo passato era soltanto un mito. Ma se le Banche Memoria venivano distrutte, in meno di mille anni la città sarebbe morta, poiché i suoi figli avevano perso la capacità di riprodursi. Quel dilemma andava affrontato, ma già Hilvar vedeva delinearsi una possibile soluzione. Ogni problema tecnico ha la sua risposta, e Lys era padrona della scienza biologica. Se Diaspar voleva, ciò che era stato fatto poteva venire disfatto. Prima, però, la città doveva rendersi conto di ciò che aveva perso. La rieducazione avrebbe richiesto degli anni, forse dei secoli, ma già stava per cominciare; ben presto la sorpresa della prima lezione avrebbe dato a Diaspar una scossa pari a quella dell’incontro con Lys. E anche Lys sarebbe rimasta scossa. Nonostante tutte le differenze, le due culture erano scaturite dalle stesse fonti, le due razze avevano soggiaciuto alle stesse illusioni. Entrambe avrebbero migliorato quando avessero guardato ancora una volta, con calma e obiettività, nel passato che stava per riemergere dall’oblio. 24 L’anfiteatro era stato progettato per raccogliere tutta la popolazione di Diaspar; nemmeno uno dei dieci milioni di posti era vuoto. Alvin, dal suo posto strategico sul gradino più alto, osservava l’immenso imbuto, e la scena gli ricordava Shalmirane. I due crateri erano della stessa forma, circa della stessa misura. Se l’umanità avesse affollato la grande conca di Shalmirane, avrebbe offerto uno spettacolo identico. Tuttavia, c’era una differenza fondamentale. La conca di Shalmirane esisteva; l’anfiteatro, no. Era soltanto un puro fantasma, uno schema di cariche elettroniche che le memorie del Computer Centrale emanavano o cancellavano secondo la necessità. Alvin sapeva di essere in realtà nella sua camera, come le miriadi di persone che lo circondavano. L’illusione, del resto, era perfetta. Si poteva benissimo credere che Diaspar fosse stata abolita e che tutti i suoi cittadini si fossero radunati nell’enorme cavità. Forse succedeva una volta ogni mille anni che la vita della città si fermasse in modo che tutti potessero riunirsi nell’Assemblea Generale. Alvin sapeva che anche a Lys aveva luogo in quel momento l’equivalente di quella assemblea. Là si sarebbe trattato di una riunione di menti, forse combinata con un apparente raduno di corpi, tanto da creare un’immaginaria e tuttavia convincente adunata. Riconosceva molte delle facce attorno a sé. A circa due chilometri di distanza, trecento metri più in basso, c’era il piccolo palco rotondo su cui si fissava in quel momento l’attenzione di tutto il mondo. Da una simile distanza Alvin non avrebbe potuto vedere niente e invece sapeva che, non appena fosse cominciato il discorso, i più vicini e i lontanissimi avrebbero visto e sentito tutti con la medesima chiarezza. Sul palco si formò una nebbiolina, che ben presto assunse le sembianze di Callitrax, il capo del gruppo cui era stato affidato il compito di ricostruire il passato dalle notizie che Vanamonde aveva portato sulla Terra. Era stata un’impresa straordinaria, quasi impossibile, e non solo per l’enormità del tempo in cui bisognava indagare. Una volta soltanto, con l’aiuto mentale di Hilvar, Alvin riuscì a penetrare per un attimo nella mente dello strano essere che avevano scoperto… o che li aveva scoperti. Per Alvin i pensieri di Vanamonde risultarono confusi come il suono di mille voci che echeggiano insieme in una caverna. Ma gli uomini di Lys riuscivano a decifrarli, e li potevano registrare per studiarli poi con maggiore comodità. Si mormorava che avessero scoperto cose stranissime, che non avevano la più lontana rassomiglianza con la storia che l’umanità aveva accettato per miliardi di anni. Hilvar non aveva né confermato, né negato quelle voci. Callitrax cominciò a parlare. Per Alvin, come per tutti gli abitanti di Diaspar, la chiara, precisa voce parve giungere da poco lontano. Poi, in un modo difficile da definire, come la geometria di un sogno sfida la logica senza suscitare sorprese nella mente del sognatore, Alvin si trovò accanto a Callitrax pur senza aver abbandonato il suo posto sulla gradinata. Non rimase sorpreso. Accettò il fatto senza farsi domande, come accettava tutte le altre manipolazioni della scienza sul tempo e sullo spazio. Callitrax riesaminò in poche parole la storia conosciuta. Parlò dei popoli sconosciuti delle Civiltà Primitive, delle quali non restava che qualche grande nome e le vaghe leggende dell’Impero. Fin dall’inizio, diceva la storia, l’Uomo aveva desiderato le stelle, e finalmente le aveva raggiunte. Per milioni di anni l’espansione si era via via estesa alla galassia, sottomettendo al dominio dell’Uomo un sistema dopo l’altro. Poi, dall’oscurità oltre il limite dell’Universo, gli Invasori erano riusciti a colpirlo e a strappargli tutto ciò che aveva conquistato. La ritirata verso il Sistema solare doveva essere stata penosissima e doveva essere durata molte ere. La stessa Terra si era salvata a stento dopo le spaventose battaglie combattute attorno a Shalmirane. All’Uomo non erano rimasti che i ricordi e il mondo in cui era nato. Da quel momento tutto era stato una lunga marcia indietro. Come ironia finale, la specie che aveva sperato un tempo di regnare sull’Universo aveva abbandonato gran parte del suo piccolo pianeta e si era divisa nelle due culture isolate di Lys e Diaspar, oasi di vita nel deserto che a poco a poco le aveva separate. Callitrax fece una pausa. Ad Alvin, come a tutte le persone presenti, parve che lo storico lo stesse fissando con uno sguardo che sembrava essere stato testimone di fatti che ancora stentava a credere. «Questo» riprese poi «per quanto riguarda le favole cui abbiamo creduto. Ora debbo dirvi che le nostre documentazioni sono false, false anche nei più piccoli particolari,tanto false che nemmeno adesso siamo riusciti a conciliarle pienamente con la verità." Aspettò che quelle parole producessero l’effetto desiderato; poi, in tono pacato e senza enfasi, comunicò a Lys e a Diaspar ciò che si era potuto apprendere grazie a Vanamonde. Non era vero nemmeno che l’Uomo avesse raggiunto le stelle. Il suo piccolo impero era entro le orbite di Plutone e di Persefone, poiché lo spazio interstellare costituiva una barriera insormontabile. La sua civiltà gravitava soltanto attorno al sole, ed era ancora agli inizi quando… le stelle raggiunsero l’Uomo. L’Uomo aveva certo ricevuto una terribile scossa. Nonostante i suoi vani sforzi, non aveva mai dubitato di conquistare un giorno le profondità dello spazio. Era convinto che l’Universo fosse abitato dai suoi pari, non da specie superiori. Ora sapeva che entrambe le teorie erano errate e che tra le stelle c’erano menti molto più vaste della sua. Per molti secoli, prima con navi di altre specie, poi con macchine che aveva imparato da altri a costruire, l’Uomo aveva esplorato la galassia. Dovunque incontrava culture che poteva comprendere ma non superare; qua e là s’imbatteva in menti che andavano al di là della sua comprensione. Il colpo fu tremendo, ma l’Uomo non era disposto a lasciarsi battere. Più triste, e infinitamente più saggio, era ritornato al suo Sistema solare per meditare sulle cognizioni che aveva acquisito. Avrebbe accettato la sfida. Lentamente mise a punto un piano che gli dava qualche speranza per l’avvenire. Il supremo interesse dell’Uomo si era fino allora rivolto alla fisica; ora si spostava verso la genetica e lo studio della mente. Era deciso a qualunque costo a raggiungere i limiti della propria evoluzione. Il grande esperimento aveva consumato per milioni di secoli le energie della razza. Tutti quegli sforzi, tutti quei sacrifici, nel racconto di Callitrax vennero ridotti a poche parole. L’Uomo aveva conquistato le sue massime vittorie: bandito il male fisico, conquistato l’immortalità, e asservito il più sottile dei poteri con la conquista della telepatia. Era pronto per affrontare di nuovo gli spazi della galassia. Si sarebbe trovato su un piano di parità con tutte le altre specie e avrebbe avuto un posto di primo piano nella storia dell’universo. Fu così, infatti. A quel periodo, la vera età spaziale, risalivano le leggende dell’Impero. Era stato un Impero di molte specie, durato un milione di anni, ma tutto era stato dimenticato nel dramma, nell’immane tragedia in cui aveva trovato la fine. L’Impero era durato almeno un milione di anni. Doveva aver conosciuto crisi, e forse anche guerre, ma tutto si era perso nel cammino delle grandi razze verso la maturità. «Possiamo essere orgogliosi» continuò Callitrax «della parte che i nostri antenati hanno avuto nella storia. Anche quand’ebbero raggiunto una completezza culturale, il loro spirito d’iniziativa non si esaurì. Abbiamo in mano delle congetture, più che delle prove, ma sembra accertato che gli esperimenti che costituirono a un tempo la gloria massima e la catastrofe dell’Impero fossero ispirati e diretti dall’Uomo.» La filosofia che aveva ispirato gli esperimenti era stata questa. «Il contatto con le altre specie aveva mostrato all’Uomo fino a che punto una specie dipende dalla sua struttura fisica e dai suoi organi sensoriali nel formarsi una visione delle cose. La conclusione logica era che solo una mente pura, libera cioè da limitazioni fisiche, potesse formarsi un quadro esatto dell’Universo. La concezione era comune a molte antichissime fedi della Terra, ed è strano che un’idea priva di qualsiasi origine razionale dovesse diventare lo scopo massimo della scienza. Nell’universo naturale non si era mai venuti a contatto con un’intelligenza disincarnata; l’Impero si prefisse di crearne una. Abbiamo dimenticato, insieme a molte altre cose, le cognizioni e le capacità che rendevano possibile una simile attuazione. Gli scienziati dell’Impero si erano impadroniti di tutte le forze della natura, di tutti i segreti del tempo e dello spazio. Si sforzarono di creare un cervello i cui componenti non fossero materiali, come l’intricato sistema di cellule che formano la nostra mente, ma solo schemi modellati nello spazio stesso. Questo cervello, ammesso che si possa chiamarlo così, avrebbe usato forze elettriche o anche più potenti per svolgere le sue operazioni e sarebbe stato assolutamente libero dalla tirannia della materia. Avrebbe funzionato con una velocità enormemente superiore a quella di qualsiasi intelligenza organica; sarebbe durato finché un solo erg di energia fosse rimasto nell’Universo. Una volta creato, avrebbe sviluppato potenzialità che nemmeno i suoi creatori potevano prevedere. «L’Uomo, dopo l’esperienza guadagnata attraverso la propria rigenerazione, propose la creazione di tali esseri. Era la sfida più grande che fosse mai stata lanciata all’intelligenza nell’intero Universo; dopo secoli di discussione venne accettata, e tutte le specie della galassia unirono i loro sforzi per portare l’opera a compimento. Più d’un milione d’anni separava il sogno dalla realtà. Le civiltà si susseguirono, molte preziose ricerche andarono perdute, ma l’obiettivo non fu mai messo in disparte. Un giorno apprenderemo i particolari di questo sforzo, il più grande che la storia ricordi. Oggi sappiamo soltanto che il suo raggiungimento si risolse in un disastro che quasi distrusse la galassia. «La mente di Vanamonde si rifiuta di ricordare quel periodo. C’è un breve spazio di tempo che gli è precluso; pensiamo che questo sia dovuto ai suoi terrori. All’inizio scorgiamo l’Impero al sommo della sua gloria, tutto teso verso l’imminente risultato. Alla fine, dopo un salto di poche migliaia di anni, l’Impero è frantumato e perfino le stelle sono impallidite. La galassia è sovrastata da un funesto manto di terrore. Questo terrore si chiama La Mente Pazza. «Non è difficile immaginare cos’accadde in quel periodo. La mente pura era stata creata, ma doveva essere folle, oppure, come risulta da altri indizi, implacabilmente ostile alla materia. Per secoli devastò l’Universo, finché cadde sotto il controllo di forze che non abbiamo ancora individuato. L’arma ignota che l’Impero usò per difendersi fece scempio delle energie stellari; dai ricordi di quel combattimento hanno origine alcune delle leggende sugli Invasori. Ma di questo parleremo in seguito. Distruggere la Mente Pazza era impossibile; essa era immortale. Fu trascinata fino all’orlo della galassia e là imprigionata con uno stratagemma che non riusciamo a comprendere. La prigione era una stella artificiale chiamata il Sole Nero. La Mente Pazza è tuttora in prigionia; quando il Sole Nero morrà, resterà libera di nuovo. Non è possibile dire quanto sia lontano nel futuro questo momento.» Callitrax tacque, come smarrito nei propri pensieri, dimentico che gli occhi del mondo erano fissi su lui. Nel silenzio che seguì, Alvin guardò la moltitudine che gli si affollava intorno, cercando di cogliere la reazione delle menti messe di fronte a una simile rivelazione, a un nuovo pericolo che veniva a prendere il posto del mito degli Invasori. Le facce dei concittadini esprimevano incredulità; tutti si sforzavano di dimenticare il passato, ma stentavano ad abituarsi alla strana realtà che ne aveva preso il posto. Callitrax riprese a parlare; la sua voce, nel descrivere gli ultimi giorni dell’Impero, si fece più calma, più sommessa. In quei giorni, pensava Alvin mentre il quadro gli passava davanti agli occhi, vivere doveva essere stato meraviglioso. C’erano certamente state molte avventure, e un coraggio indomito, intrepido… Il coraggio che riesce a strappare la vittoria dai denti della disfatta. «La Mente Pazza aveva messo a soqquadro la galassia; ma le risorse dell’Impero erano ancora enormi, il suo spirito non era ancora piegato. Con un coraggio del quale non possiamo che meravigliarci, il grande esperimento venne ripreso, e si fecero ricerche per individuare l’errore che aveva provocato la catastrofe. Molti, si capisce, si opponevano a quelle ricerche e predicevano ulteriori disastri, ma non ebbero voce in capitolo. Il progetto fu proseguito e, grazie all’esperienza così amaramente acquisita, questa volta fu coronato dal successo. «La nuova entità ottenuta aveva un intelletto potenziale che non era possibile misurare. Ma era completamente infantile. Non sappiamo se i creatori se l’aspettassero; probabilmente sapevano, però, che il fatto era inevitabile. Perché l’entità maturasse occorrevano milioni di anni, e nulla poteva affrettare il processo. Vanamonde fu la prima di queste menti. Ce ne devono essere altre in qualche punto della galassia; non molte, però. Vanamonde non ha mai incontrato alcuno dei suoi simili. «La creazione della mente pura fu la più grande conquista della civiltà della galassia. In essa l’Uomo ebbe una parte di primo piano, forse dominante. Non ho fatto riferimenti alla Terra, poiché la sua storia non è che un filo in un enorme tappeto. Lo spirito avventuroso vi era altamente scemato, il nostro pianeta divenne allora inevitabilmente conservatore, e alla fine ripudiò gli scienziati che avevano creato Vanamonde. Siamo certi che la Terra non ebbe alcuna parte nell’ultimo atto. L’opera dell’Impero era compiuta. Gli individui di quell’epoca portarono la loro attenzione sulle stelle che avevano terribilmente danneggiato per far fronte allo spaventoso pericolo e presero una decisione: avrebbero lasciato l’Universo a Vanamonde. «A questo punto c’è un mistero… Un mistero che forse non risolveremo mai, perché Vanamonde non può aiutarci. Tutto ciò che sappiamo è che l’Impero venne in contatto con… qualcosa… qualcosa di molto strano e di molto grande, qualcosa che si trovava molto lontano, oltre la curva del Cosmo, all’altra estremità dello spazio stesso. Cosa fosse possiamo immaginarlo, ma il suo richiamo doveva essere pieno di urgenza e pieno di promesse. Poco tempo dopo i nostri antenati e le altre specie partivano per un viaggio che non riusciamo a seguire. I pensieri di Vanamonde si arrestano ai confini della galassia, ma attraverso la sua mente abbiamo potuto osservare gli inizi di questa grande e misteriosa avventura. Ecco l’immagine che abbiamo ricostruito; ora guarderete nel passato, a un miliardo di anni di distanza… Pallido spettro dell’antica gloria, la lenta ruota della galassia stava sospesa nel nulla. Attraverso tutta la sua estensione c’erano grandi squarci di vuoto, gli strappi prodotti dalla Mente Pazza, ferite che nelle età a venire sarebbero state rimarginate da spostamenti di stelle. Ma l’antico splendore non sarebbe ritornato mai più. L’Uomo stava per lasciare l’Universo, come quando, tanto tempo prima, aveva lasciato il suo pianeta. E non solo l’Uomo, ma le migliaia di altre specie che avevano collaborato alla fondazione dell’Impero. Erano tutti riuniti là, sul confine estremo della galassia, la cui massa si stendeva fra loro e la meta che avrebbero raggiunto solo dopo molte ere. Avevano radunato una flotta che la fantasia non riesce a concepire. Le navi ammiraglie erano soli, i piccoli vascelli, pianeti. Un intero grappolo di globi, con tutti i suoi sistemi solari e mondi annessi, stava per essere lanciato attraverso l’infinito. La lunga linea di fuoco passò come una folgore attraverso il cuore dell’Universo, balzando da stella a stella. In un attimo, migliaia di soli si spensero, cedendo le loro energie alla mostruosa forma che sfrecciava lungo l’asse della galassia e stava già per recedere negli abissi… «Così l’Impero lasciò il nostro Universo, per cercare altrove il suo destino. Quando i suoi eredi, le menti pure, avessero raggiunto la maturità, avrebbe potuto ritornare. Ma quel giorno potrebbe essere ancora molto lontano. «Questa, per sommi capi, è la storia della civiltà galattica. La nostra storia, che ci sembra tanto importante, non è altro che un epilogo tardivo e banale, sebbene tanto complesso che non siamo ancora riusciti a seguirne i particolari. Sembra che molte delle specie più antiche e meno avventurose rifiutassero di lasciare le loro patrie; tra queste c’erano i nostri diretti antenati. Molte di queste specie decaddero e sono ormai estinte, altre forse sopravvivono. Il nostro mondo sfuggì per caso alla medesima sorte. Durante i Secoli di Transizione, che durarono in realtà milioni di anni, il ricordo del passato venne smarrito o forse volutamente distrutto. L’Uomo sprofondò in una barbarie superstiziosa e tuttavia sempre scientifica, e alterò la storia per non dover ammettere il proprio fallimento. Le leggende degli Invasori sono completamente false, sebbene il disperato combattimento contro la Mente Pazza servì quasi certamente a ispirarle. I nostri antenati ritornarono sulla Terra solo perché le loro anime soffrivano. «Quando abbiamo fatto questa scoperta, un particolare problema si è affacciato per noi di Lys. La battaglia di Shalmirane non è mai avvenuta, eppure Shalmirane esisteva ed esiste tuttora. Per di più, era uno dei più grandi mezzi di distruzione che siano mai esistiti. Abbiamo impiegato un certo tempo per risolvere l’enigma. La risposta, una volta trovata, è risultata semplicissima. In passato la nostra Terra aveva un singolo satellite gigante, la Luna. Quando, presa nel tiro alla fune tra maree e gravità, la Luna cominciò a cadere, fu necessario distruggerla. Per questo scopo fu costruita Shalmirane, che poi entrò a far parte delle leggende che ben conoscete.» Callitrax sorrise, un poco a disagio. «E altre ce ne sono di queste leggende, parte vere e parte false, e altri paradossi che non sono ancora stati risolti. Il problema, tuttavia, riguarda gli psicologi più che gli storici. Perfino le memorie del Computer Centrale non possono essere prese realmente sul serio, e mostrano con evidenza di essere state alterate in tempi remoti. «Sulla Terra, solo Diaspar e Lys hanno superato il periodo di decandenza. Diaspar grazie alla perfezione delle sue macchine, Lys in forza del suo parziale isolamento e dell’insolita capacità intellettuale del suo popolo. Entrambe le culture, anche dopo essere ritornate al livello d’origine, sono state guastate dai timori e dai miti che avevano ereditato. «Queste paure non devono più intimorirci. Come storico, non è mio dovere predire il futuro, bensì osservare e interpretare il passato. Ma la lezione è piuttosto chiara: abbiamo vissuto troppo a lungo fuori della realtà. Ora è venuto il momento di ricostruire la nostra!» 25 Jeserac, ammutolito dalla meraviglia, camminava per le strade di una Diaspar che non aveva mai visto. La città dove aveva passato tutte le sue vite era tanto mutata che quasi stentava a riconoscerla. Eppure sapeva di essere a Diaspar: non poteva dire come, ma lo sapeva. Le vie erano strette, gli edifici più bassi, il Parco era sparito. O meglio, non esisteva ancora. Era la Diaspar di prima del cambiamento, la Diaspar che era stata aperta al mondo e all’Universo. Il cielo era d’un pallido azzurro, cosparso di leggere nuvole che si spostavano lentamente, mosse dal vento che soffiava su questa Terra più giovane. E non solo le nuvole viaggiavano nel cielo. Parecchi chilometri al di sopra della città, le astronavi che collegavano Diaspar col mondo esterno andavano e venivano tracciando argentei fili nella volta azzurra. Jeserac fissò a lungo il meraviglioso mistero del cielo aperto, e per un attimo la paura lo riafferrò. Si sentì inerme ed esposto al pericolo, consapevole che quella calma cupola azzurrina non era che una sottile calotta, oltre la quale si stendeva lo Spazio con tutte le sue minacce e i suoi misteri. La paura non era tanto forte da paralizzare la volontà. In qualche parte della sua mente, Jeserac sapeva che quest’esperienza era un sogno, e un sogno non poteva esporlo a rischi. Avrebbe proceduto tranquillo, assaporando tutte le emozioni che quell’illusione gli offriva, fino a che si sarebbe svegliato di nuovo nella città che conosceva. Stava camminando verso il centro di Diaspar, verso il punto dove nella realtà sorgeva la tomba di Yarlan Zey. Non c’era alcuna tomba nella Diaspar antica; c’era invece un basso edificio circolare, con molte arcate che immettevano nell’interno. Accanto a una di queste arcate un uomo lo stava aspettando. Jeserac avrebbe dovuto restare di sasso, ma ormai nulla lo meravigliava più. Quasi gli sembrava giusto e logico trovarsi a faccia a faccia con il costruttore di Diaspar. «Mi riconosci, vero?» disse Yarlan Zey. «Certo, ho visto la tua statua migliaia di volte. Sei Yarlan Zey, e questa è Diaspar com’era un miliardo di anni fa. So che sto sognando e che nessuno di noi due è realmente qui.» «Dunque non allarmarti, qualunque cosa accada. Seguimi e ricordati che non può succederti niente di male, visto che in qualunque momento tu lo voglia potrai risvegliarti a Diaspar, nella tua vera epoca.» Jeserac seguì obbediente Yarlan Zey nell’edificio. Un ricordo, o l’eco di un ricordo, lo avvertiva di ciò che stava per accadere. Sapeva anche che una volta si sarebbe ritratto inorridito da una simile prospettiva. Ora, invece, era tranquillo. Non solo si sentiva protetto dalla certezza che l’avventura non era reale, ma la presenza di Yarlan Zey era addirittura un talismano contro qualsiasi eventuale pericolo. Strade mobili conducevano nelle profondità dell’edificio. Jeserac e Yarlan Zey si fermarono in silenzio accanto a un lungo cilindro aerodinamico che, Jeserac lo sapeva, poteva portarli fuori dalla città per un viaggio che, solo poco tempo prima, lo avrebbe fatto impazzire di terrore. Quando la sua guida gli indicò la porta aperta, esitò solo un istante e subito varcò la soglia. «Visto?» fece Yarlan Zey, sorridendo. «Adesso rilassati e ricordati che sei al sicuro e nulla può accaderti.» Jeserac gli credette. Provò solo un leggero brivido di apprensione vedendo approssimarsi l’imboccatura del tunnel, mentre la macchina in cui viaggiavano guadagnava velocità a mano a mano che si inoltrava nelle viscere della Terra. Il desiderio di discorrere con quell’essere quasi mitico del passato superò tutti i timori. «Non ti sembra strano» cominciò Yarlan Zey «che sebbene i cieli siano aperti, abbiamo preferito seppellirci sotto terra? Siamo all’inizio della psicosi di cui hai visto la conclusione nella tua epoca. L’Umanità cerca già di nascondersi; è terrorizzata da ciò che si trova là fuori, nello spazio, e ben presto chiuderà tutte le porte che conducono all’Universo.» «Ma ho visto delle navi spaziali sopra Diaspar.» «Non le vedrai per molto tempo. Abbiamo perso il contatto con le stelle, e ben presto anche i pianeti verranno abbandonati. In breve tempo abbandoneremo anche gran parte della Terra.» «Perché avete fatto questo?» chiese Jeserac. Conosceva la risposta, eppure qualcosa lo spingeva a chiedere ugualmente. «Ci occorreva un riparo per difenderci da due terrori: quello della Morte e quello dello Spazio. Eravamo ormai un popolo malato, non volevamo più saperne dell’Universo, e abbiamo stabilito di fare come se non esistesse. Avevamo visto il caos infuriare tra le stelle, non chiedevamo altro che pace e stabilità. Bisognava chiudere Diaspar, perché niente potesse penetrarvi dall’esterno. Abbiamo disegnato la città che ben conosci, e inventato un falso passato per nascondere la nostra codardia. Oh, non eravamo i primi a far questo… Ma siamo stati i primi a farlo in modo così drastico. Abbiamo convinto lo spirito umano a rassegnarsi, strappandogli l’ambizione e il desiderio di conquista perché potesse accontentarsi del mondo che possedeva. «Ci sono voluti mille anni per costruire la città e tutte le macchine. Quando uno aveva terminato il suo compito, la mente gli veniva sgombrata da tutti i ricordi, riempita con altri falsi, e infine la sua identità veniva immagazzinata nei circuiti della città in attesa del momento in cui sarebbe stato richiamato in vita. È venuto infine il giorno in cui non un solo uomo era vivo a Diaspar; non c’era che il Computer Centrale, per obbedire agli ordini che gli erano stati impartiti e controllare le Banche Memoria in cui dormivamo. Non c’era rimasto nessuno che avesse contatti col passato. Così, a questo punto, cominciò la storia. «Poi, uno alla volta, in una sequenza predeterminata, siamo stati richiamati dalle Banche Memoria. Come una macchina appena costruita e che comincia a mettersi in movimento, Diaspar cominciò a svolgere i compiti che le avevano affidato. Tuttavia alcuni di noi avevano avuto dubbi fin dall’inizio. L’eternità è lunga; sentivamo che c’erano dei rischi nel precludere ogni via d’uscita e nel cercare di sottrarci completamente all’Universo. Non potevamo sfidare i bisogni della nostra cultura. Lavorammo in segreto, apportando le modifiche che credemmo necessarie. Gli Unici sono stati una nostra invenzione. Sarebbero apparsi a lunghi intervalli e, se le circostanze l’avessero permesso, avrebbero scoperto se c’era qualcosa fuori Diaspar con cui valeva la pena di mettersi in contatto. Non immaginavamo che sarebbe passato tanto tempo prima che uno di loro riuscisse, né immaginavamo che il successo sarebbe stato tanto grande.» Nonostante l’assopimento delle facoltà critiche, che è la vera essenza del sogno, Jeserac si meravigliava che Yarlan Zey potesse parlare con tanta precisione di cose accadute un miliardo di anni dopo di lui. Che confusione… Non capiva più in quale tempo e in quale spazio si trovasse… Il viaggio stava per finire; le pareti del tunnel fuggivano via con minore velocità. Yarlan Zey cominciò a parlare con autorità e con urgenza assolutamente inaspettate. «Il passato è finito; abbiamo fatto il nostro lavoro, per il bene o per il male, e anche questo è finito. Quando sei stato creato, Jeserac, ti è stata inculcata quella paura del mondo esterno, quell’impulso a restare dentro la città che è comune a tutti gli abitanti di Diaspar. Ora sai che quella paura era infondata, imposta artificialmente. Io, Yarlan Zey, che te la imposi, ora sciolgo questi legami. Mi capisci?» La voce di Yarlan Zey si era fatta sempre più alta, finché parve ripercuotersi ovunque. Le pareti della sotterranea presero a tremare e a sbiadire attorno a Jeserac, come se il sogno stesse per finire. Tuttavia, mentre la visione svaniva, Jeserac sentiva ancora risuonare nel cervello la voce imperiosa: «Tu non hai più paura, Jeserac.Tu non hai più paura!". Si agitò in un confuso dormiveglia, tornando alla realtà come un palombaro che dal fondo dell’oceano torna lentamente alla superficie. Poi, improvvisamente, riacquistò coscienza. Sentì delle voci che lo incoraggiavano, e si sentì sostenuto da mani amiche. Poi tornò alla completa realtà. Aprì gli occhi e vide Alvin, Hilvar e Gerane che lo fissavano ansiosi. Ma non poté prestar loro attenzione; la sua mente fu completamente assorbita dal meraviglioso panorama. Un panorama di foreste e di fiumi, sotto la volta azzurra del cielo. Era a Lys, e non aveva paura. Nessuno osò disturbarlo mentre l’attimo senza tempo si imprimeva nella sua mente per sempre. Infine, quando si fu convinto che quella era davvero realtà, si voltò verso i compagni. «Grazie, Gerane» disse. «Non avrei mai creduto che saresti riuscito.» Gerane, soddisfattissimo di sé, stava facendo una delicata manovra su una piccola macchina, sospesa immobile nell’aria accanto a lui. «Ci hai dato un po’ di filo da torcere» ammise. «Un paio di volte ti sei messo a fare domande cui non si poteva rispondere in modo logico. Ho temuto di dover interrompere la sequenza.» «E se Yarlan Zey non mi avesse convinto? Cosa avreste fatto?» «Ti avremmo tenuto nello stato di incoscienza e ti avremmo riportato a Diaspar, dove ti saresti svegliato naturalmente senza neppure ricordare di essere stato a Lys.» «E quell’immagine di Yarlan Zey… Quanto, di ciò che ha detto, è vero?» «Gran parte, credo. Mi sono preoccupato che la saga riuscisse convincente, più che storicamente accurata, ma Callitrax l’ha esaminata e non ha trovato errori. È per lo meno coerente a tutto ciò che sappiamo di Yarlan Zey e delle origini di Diaspar.» «E adesso possiamo davvero aprire la città» concluse Alvin. «Ci vorrà molto tempo, ma ormai possiamo neutralizzare i terrori, così che chiunque lo desideri possa lasciare Diaspar.» «È certo che ci vorrà molto tempo» replicò asciutto Gerane. «Non dimenticate, del resto, che Lys non è abbastanza grande per accogliere parecchi milioni di I persone in più, nel caso che tutto il vostro popolo si mettesse in mente di trasferirsi da noi. Il che non è probabile, ma è possibile.» «Il problema si risolverà da sé» lo tranquillizzò Alvin. «Lys è quella che è, ma il mondo è grande. Perché dovremmo lasciarlo inghiottire dal deserto?» «Continui a sognare, Alvin, vero?» fece Jeserac con un sorriso. «Stavo chiedendomi cos’altro ti è rimasto da fare.» Alvin non rispose: quel problema l’aveva ossessionato sempre più nelle ultime settimane. Assorto nei suoi pensieri, si distaccò dal resto del gruppo che si era avviato giù per la collina in direzione di Airlee. Si sarebbe tornati gradatamente all’equilibrio nei secoli a venire? La risposta era nelle sue mani. Aveva compiuto il suo destino di Unico; adesso, forse, poteva cominciare a vivere. 26 Il compimento di un’impresa porta con sé una tristezza particolare: la sospirata meta è ormai raggiunta, la vita deve volgersi verso nuovi obiettivi. E Alvin, oppresso da quella tristezza, gironzolava solo per i boschi e i campi di Lys. Nemmeno Hilvar lo accompagnava: ci sono momenti in cui si sente il bisogno di appartarsi anche dall’amico più caro. Alvin andava a zonzo, senza sapere a quale villaggio sarebbe arrivato. Non cercava un luogo in particolare, ma piuttosto un’idea, un’ispirazione, un modo di vita. Diaspar non aveva più bisogno di lui. I fermenti che aveva introdotto nella città stavano avendo il loro sviluppo, e più niente avrebbe potuto accelerare o ritardare i cambiamenti che stavano avvenendo. Quella terra tranquilla sarebbe cambiata. Spesse volte si domandò se aveva fatto bene a soddisfare la sua curiosità e a riaprire la vecchia via tra le due culture. Certo era un bene che Lys avesse potuto conoscere l’intera verità. Come Diaspar, anch’essa si fondava in parte sulle paure e sulle false teorie. Ogni tanto si metteva a fantasticare su quella che sarebbe stata la società del domani. Era certo che Diaspar sarebbe sfuggita alla prigionìa delle Banche Memoria e avrebbe ripreso il ciclo della nascita e della morte. Hilvar gli aveva assicurato che la cosa era possibile. Forse sarebbe venuto di nuovo il momento in cui, a Diaspar, l’amore non sarebbe stato più un concetto bandito. «Èquesto», si domandava Alvin, «ciò che mi è sempre mancato a Diaspar, ciò che, in fondo, ho sempre cercato?» Ora sapeva che quando il potere e l’ambizione e la curiosità sono soddisfatti, restano pur sempre i desideri del cuore. Nessuno poteva dire di aver veramente vissuto finché non avesse raggiunto quella sintesi di tenerezza e di desiderio di cui Alvin, venendo a Lys, aveva scoperto l’esistenza. Aveva viaggiato tra i pianeti dei Sette Soli, ed era stato il primo a compiere un’impresa simile dopo milioni e milioni di anni. Eppure tutto questo aveva così poca importanza, ormai; a volte pensava che avrebbe dato volentieri tutte le sue conquiste per poter ascoltare il pianto di un neonato e sapere che era suo figlio. Un giorno, a Lys, avrebbe forse trovato quel che cercava; c’era un calore e una comprensione, tra quella gente, che mancava a Diaspar. Ma prima di pensare a sé, prima di trovare pace e riposo, c’era ancora una decisione da prendere. Il destino aveva messo la potenza nelle sue mani. Una potenza che lui possedeva ancora. Era una responsabilità che aveva accettato con gioia, ma ora sapeva che non avrebbe avuto pace. D’altra parte, se avesse rinunciato, sarebbe stato come tradire una fiducia… Era giunto in un villaggio costruito su graziosi canali, in riva a un grande lago, quando prese la sua decisione. Le case colorate, che sembravano ancorate sull’acqua, formavano uno scenario di una bellezza quasi irreale. Qui c’era vita, calore, conforto; tutto quel che gli era mancato tra la desolata vastità dei Sette Soli. Un giorno l’umanità sarebbe stata di nuovo pronta per affrontare lo spazio. Alvin non sapeva quale nuovo capitolo l’Uomo avrebbe scritto tra le stelle. La cosa non lo riguardava; il suo futuro era qui, sulla Terra. Ma avrebbe fatto un ultimo volo prima di voltare per sempre le spalle agli astri. Quando Alvin fermò l’astronave, la città era troppo lontana perché vi si riconoscesse l’opera dell’uomo e la curva del pianeta era già visibile. Ora potevano già distinguere la linea del crepuscolo che incendiava per chilometri il deserto. Attorno e sotto di loro brillavano le stelle. Hilvar e Jeserac tacevano, cercando di scoprire perché Alvin stesse facendo quel viaggio e perché avesse chiesto a loro due di accompagnarlo. Non avevano voglia di parlare mentre il desolato panorama si allargava sotto di loro. Tanto squallore li opprimeva, e Jeserac sentì un’improvvisa ondata d’ira e di disprezzo per gli uomini del passato che, con la loro indifferenza, avevano lasciato morire la bellezza della Terra. Sperava che Alvin avesse ragione, che si potesse tornare indietro. La potenza e la scienza esistevano ancora; occorreva solo la volontà di lottare contro l’opera dei millenni per far sì che gli oceani si riempissero di nuovo. L’acqua c’era, nascosta nelle profondità del suolo. Bisognava riportarla alla superficie o, se necessario, ricorrere a impianti che potessero ricrearla. Quanto ci sarebbe stato da fare negli anni a venire! Jeserac capiva di trovarsi tra due ere; attorno a lui, il polso dell’umanità già cominciava ad accelerare il battito. C’erano grandi problemi da affrontare, ma Diaspar li avrebbe affrontati. Ricostruire il passato avrebbe richiesto secoli e secoli, ma alla fine l’Uomo avrebbe recuperato tutto quel che aveva perso. Proprio tutto? Chissà! Forse non sarebbe stato possibile riconquistare la galassia; del resto, a quale scopo? Alvin interruppe quelle fantasticherie, e Jeserac distolse gli occhi dallo schermo. «Volevo farvi vedere questo spettacolo» disse Alvin, calmo. «Forse un’occasione del genere non si ripresenterà.» «Non avrai intenzione di lasciare la Terra, vero?» «No. Ne ho abbastanza dello spazio. Anche ammesso che nella galassia sopravviva qualche altra civiltà, non credo valga la pena di trovarla. Abbiamo tanto da fare, qui. Ora so che la mia casa è questa, e non ho nessuna intenzione di lasciarla.» Fissò le grandi distese deserte, ma i suoi occhi vedevano invece le acque che le avrebbero ricoperte tra migliaia di anni. L’Uomo aveva riscoperto il suo mondo; ora gli avrebbe ridonato la bellezza. Poi… «Non siamo pronti per tornare sulle stelle, e passerà molto tempo prima che si possa accettare di nuovo la loro sfida. Mi sono chiesto cosa avrei dovuto fare di questa astronave; finché resterà sulla Terra, sarò sempre tentato di usarla e non troverò mai pace. D’altra parte non voglio distruggerla; sento che è stata affidata a me e devo usarla per il bene del mondo. «Ecco cosa ho pensato di fare. La manderò fuori della galassia, col robot come guida, per scoprire cosa ne è stato dei nostri antenati e, se è possibile,cosali ha convinti a lasciare il nostro Universo. Dev’essere stato qualcosa di meraviglioso per indurli ad abbandonare tutto. Il robot non si stancherà, per lungo che possa essere il viaggio. Un giorno i nostri cugini riceveranno il mio messaggio, e sapranno che li stiamo aspettando qui sulla Terra. Ritorneranno, e spero che per quel momento saremo degni di riceverli, per grandi che possano essere diventati.» Alvin tacque, assorto in un futuro che aveva tracciato ma che forse non avrebbe mai visto. Mentre l’Uomo avrebbe ricostruito il suo mondo, la nave avrebbe attraversato gli spazi oscuri tra le galassie, e tra migliaia di anni sarebbe stata di ritorno. Forse lui sarebbe stato là a riceverla, ma in caso contrario era ugualmente contento. «La tua decisione è saggia» approvò Jeserac. Poi, un’ultima volta, l’eco di un antico terrore sorse a turbarlo. «E se per ipotesi» aggiunse «la nave entrasse in contatto con qualcuno che preferiremmo non incontrare…» Subito tacque, riconoscendo l’origine di quei timori, e con un sorriso di compatimento rivolto a se stesso scacciò l’ultimo fantasma degli Invasori. «Dimenticate» ribatté Alvin, che aveva preso sul serio l’obiezione «che ben presto avremo l’aiuto di Vanamonde. Non sappiamo quali poteri abbia, ma pare che siano illimitati. Vero, Hilvar?» Hilvar non rispose subito. Vanamonde era l’altro grande enigma, un punto di domanda sospeso in eterno sul futuro dell’umanità. L’evoluzione del misterioso essere verso l’autocoscienza era stata accelerata dal contatto continuo coi filosofi di Lys, i quali nutrivano grandi speranze di futura cooperazione con la mente infantile, convinti com’erano di poter sensibilmente diminuire gli eoni richiesti da uno sviluppo naturale. «Non ne sono certo» confessò poi. «In un certo senso, non credo che ci si debba aspettare molto da Vanamonde. Oggi possiamo essergli d’aiuto, ma ben presto saremo soltanto un incidente passeggero nel suo ciclo vitale. Non credo che il suo destino abbia a che fare col nostro.» Alvin lo guardò sorpreso. «Perché la pensi così?» «Non saprei spiegartelo. È solo un’intuizione, nient’altro.» Avrebbe potuto aggiungere altre considerazioni, ma preferì tacere. Certe cose non si possono comunicare. Pur sapendo che Alvin non avrebbe certo riso delle sue fantasticherie, preferiva tenerle per sé. Ma non si trattava solo di una fantasticheria, ne era certo, e quel pensiero l’avrebbe assillato per sempre. Era una certezza indefinibile, balenata alla sua mente durante quell’indescrivibile contatto con Vanamonde. Sapeva forse lo stesso Vanamonde quale sarebbe stato il suo solitario destino? Un giorno l’energia del Sole Nero si sarebbe esaurita, e il prigioniero sarebbe tornato libero. Allora, al limite dell’Universo, dove il Tempo stesso era fermo, Vanamonde e la Mente Pazza si sarebbero incontrati tra i corpi spenti delle stelle. Quel conflitto avrebbe scosso tutto il Creato, probabilmente; pure, non avrebbe per nulla riguardato l’Uomo, il quale non ne avrebbe mai conosciuto il risultato finale. «Guardate!» fece Alvin all’improvviso. «Ecco quello che volevo mostrarvi. Capite quel che significa?» La nave era a picco sul Polo, e il pianeta sotto di loro era un perfetto emisfero. Jeserac e Hilvar, fissando la cintura di luce crepuscolare, colsero nello stesso istante l’alba e il tramonto sui due lati opposti del globo. Il simbolismo era così perfetto, così impressionante, che per tutta la vita avrebbero portato impresso il ricordo di quell’attimo. La notte scendeva sull’Universo; le ombre stavano allungandosi verso un oriente che non avrebbe mai più visto l’alba. Ma altrove le stelle erano ancora giovani, altrove si protraeva la luce del mattino; e lungo il sentiero già seguito un tempo, l’Uomo un giorno si sarebbe incamminato di nuovo. FINE